BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 01/01/1998

PETER PAN IN AZIENDA.
PER UNA PEDAGOGIA DELLA CREATIVITÀ

di Marco Poggi

Se c'è una cosa sulla quale tutti sono d'accordo è che le aziende di domani saranno veramente molto diverse da quelle di ieri. Basta sfogliare le riviste o i libri di management, o ascoltare i consulenti più quotati del momento, per rendersi conto che le dinamiche di trasformazione in atto stanno conducendo con un ritmo rapidissimo ad un cambiamento radicale complessivo del modo di intendere la forma e la sostanza dell'azienda. Assistiamo dunque ad un grande cambio di scena, e se potessimo fotografare l'attimo, metteremmo faticosamente a fuoco, come in tutti i momenti di passaggio, un mosaico complesso dove coesistono pezzi ancora assolutamente coerenti con il paradigma del passato e pezzi già completamenti immersi in quello del futuro. Non è obiettivo di questo lavoro svolgere un'analisi del processo di trasformazione in atto: su questo, sullo studio delle cause (innovazione tecnologica, mondializzazione dell'economia, irruzione della soggettività) e sugli sviluppi prevedibili (lean organization, learning organization, empowerment), sono stati scritte molte pagine illuminanti.

Vorrei invece provare ad individuare in massima sintesi quale è, dal mio punto di vista, l'essenza del cambiamento. Io ritengo che ciò che sostanzialmente sarà differente (ciò che è già da ora differente), va ricercato nel rapporto tra organizzazione e realtà. Nelle imprese di ieri il rapporto era: esiste una realtà data, esistono modelli e strumenti di interpretazione, esistono esperienze, conoscenze, saperi consolidati, che ci consentono di dare risposte ai problemi posti dalla realtà medesima. Mi pare di capire che nel flusso magmatico del divenire del presente e del futuro, il rapporto diventi: esiste una realtà cangiante e inafferrabile che i soggetti dell'organizzazione contribuiscono a costruire, ed occorre inventare continuamente nuove soluzioni e nuove possibilità (quindi altre forme della realtà). In tutti gli studi e le analisi sul nostro tempo, mi pare di cogliere questo eidos di fondo espresso in termini di confronto tra il vecchio e il nuovo, che non riguarda ovviamente solo la riflessione organizzativa o manageriale, che ha invece certamente un respiro per così dire teoretico più ampio, ma che l'approfondimento dei grandi temi economici e organizzativi coglie con particolare evidenza. Non si vuole qui aprire una peraltro utilissima e affascinante riflessione per capire se tutto questo sia legato al passaggio dal moderno al post moderno (Benquist 1995), o se le grandi brecce aperte nel pensiero dai filosofi esistenzialisti e fenomenologhi del nostro secolo, stiano diventando le gestalt dominanti attraverso le quali si vede, tutti insieme, l'esperienza comune dell'esistenza. Si propone invece un ragionamento più modesto e circoscritto che parta dall'evidenza dell'esperienza concreta di chi, lavorando in contesti organizzativi e produttivi, si misura tutti i giorni con il rapporto tra organizzazione e realtà e fa l'esperienza quotidiana del suo mutare. Tutti noi, donne e uomini che vivono nelle aziende, sperimentiamol'inutilità dei modelli consolidati di analisi, degli strumenti preconfezionati davanti a problemi inediti e sempre più complessi, davanti ad un contesto che si muove sempre e sempre più velocemente. Si pensi, tanto per fare un esempio vicino a tutti quelli che lavorano con le cosidddette risorse umane, a quanto è diventato del tutto inutile uno strumento classico dello sviluppo come la definizione di sentieri di carriera in un contesto organizzativo che cambia giorno per giorno. Esempi altrettanto limpidi possono essere trovati per qualsiasi ambito, dal marketing strategico alla pianificazione e controllo: il dato di fondo è che in concreto, giorno per giorno, siamo chiamati a costruire la strada sulla quale poi cammineremo. Non più dunque l'organizzazione in quanto ente astratto e meccanico, ma il fattore umano con le sue infinite potenzialità, che diventa l'elemento capace di garantire il successo delle imprese. Non più risorse umane che insieme ad altre risorse vengono poste al servizio dell'organizzazione, ma organizzazioni come aggregazioni dinamiche di individui empowerati (letteralmente dotati di potere). Quali sono, in un contesto come quello che ho molto sinteticamente descritto,. le qualità richieste alle persone intorno alle quali saranno pensate le nuove imprese? Certamente le persone dovranno possedere una visione della vita capace di garantirgli una baldanzosa sopravvivenza nello sgomentante divenire del cosmo. Dovranno essere capaci di cogliere, anche nella inquietante consapevolezza del dramma della vita o nel doloroso sentimento di gettatezza, la bellezza dello scorrere delle cose e soprattutto l'infinita fonte di ricchezza di possibilità che vive nell'incertezza del nostro tempo. Dovranno essere persone libere (prive di pregiudizi e preconcetti), curiose e flessibili. Ma prima di ogni altra cosa, essendo chiamate quotidianamente ad un esercizio di creazione, dovranno essere persone creative. Ritengo che la creatività, fino a ieri prerogativa degli artisti o di quell'esigua pattuglia di professionisti della comunicazione e della réclame che addirittura si è impossessata del termine ("i creativi"), diverrà una qualità necessaria per qualsiasi lavoro in qualsiasi ambito. Tolta dalla serena astrattezza della riflessione teorica e calata nelle aziende, negli uffici, tra le persone in carne ed ossa, questa affermazione acquista una dimensione addirittura rivoluzionaria. Dire a persone (impiegati di banca, tecnici, venditori ma anche product manager, analisti di organizzazione, formatori...) a cui fino a ieri è stato consigliato di lavorare (uguale sudare, sporcarsi le mani) e non pensare (uguale perdere tempo) che devono addirittura essere creativi, costituisce un salto così grande che rischia di non essere compreso. E poi dire: "dovete essere creativi" , cioè prescrivere la creatività, è in qualche modo simile al famoso paradosso logico "dovete essere spontanei". La creatività va incoraggiata, stimolata, insegnata. Occorre dare vita a contesti organizzativi che sviluppino fertili processi di creatività. Per questo, per collocare il tema in un contesto che ha uno spessore filosofico, e per non correre il rischio di cadere in un facile riduzionismo a formulette stereotipate, propongo che si rifletta intorno alla necessità di una vera e propria pedagogia della creatività da esercitare nelle aziende. Un possibile percorso in questa direzione, che mi pare singolarmente promettente, è legato all'incredibile quantità di spunti che sulla creatività sono forniti dal pensiero del filosofo epistemologo francese Gaston Bachelard.. Bachelard parte dal concetto di rottura epistemologica e dalla costruzione mai definitiva di teorie scientifiche sempre più slegate dal mondo percettivo, e approda alla necessità di un pensiero non razionale, fondato sull'immaginazione e sulla capacità di rêverie. La pienezza della vita, ma anche il bisogno di una conoscenza più profonda delle cose, è legata alla possibilità di un pensiero non aristotelico che è capace di abbandonarsi alla potenza creatrice dell'immaginazione. Su questo versante il filosofo francese propone una vera e propria pedagogia dell'immaginazione, che ha al centro l'ascolto della parola poetica e il lavoro sulle immagini archetipiche (l'aria, l'acqua, la terra, il fuoco). Cosa può significare lavorare sulla creatività nelle organizzazioni cogliendo lo spunto della riflessione bachelardiana? Prima di tutto impostare un lavoro formativo che aiuti le persone ad uscire (per poi rientrare, quindi come aggiunta di possibilità non come alternativa secca) dagli schemi tipici del pensiero occidentale. Abbandonare una formazione aziendale tutta tesa a fornire soluzioni per una formazione problematica che consenta di non vivere l'ambiguità della realtà come un problema, ma come potenzialità di significati. Si pensi a questo proposito che straordinaria esperienza di crescita potrebbe essere per i manager quella di entrare in contatto profondo con espressioni artistiche (la poesia per stare nella proposta pedagogica bachelardiana, ma anche le arti figurative o la musica). Conoscere, ad esempio, conversando con un artista, il senso dell'ispirazione creativa, il linguaggio artistico, l'uso dei simboli (aperti a molteplici possibili attribuzioni di significato) piuttosto che il ricorso ai codici. E quindi utilizzare la consapevolezza e l'arricchimento maturati, per immaginare analogie con il proprio lavoro. Nel mondo in cui con fatica e affanno stiamo entrando credo abbia sempre meno cittadinanza l'idea di una separazione netta tra il lavoro (sofferenza, fatica, ragione, rigore) e la cultura, il nutrimento dello spirito (svago, abbandono, felicità, apertura). Sempre più, com'è naturale che sia, le idee vincenti di un business di successo nasceranno non sui tabulati dei dati di vendita, ma ascoltando e quindi comprendendo il senso profondo di una sonata di Mozart. (E' peraltro noto che l'idea della relatività nacque nella mente di Einstein mentre questi stava suonando il piano...). Un'altra possibile dimensione della pedagogia della creatività è collegata con l'esplorazione dell'universo infantile e con il contatto con le componenti eternamente giovani della psiche (Carotenuto 1996). La capacità creativa intesa proprio come capacità di creare il mondo, è la risorsa fondamentale del bambino nel processo geneticamente prescritto della crescita. La possibilità di dare un senso profondo all'esperienza umana, irrimediabilmente unica, sta proprio nel far rivivere quella capacità del bambino che continua ad esistere nell'adulto ma quasi sempre sepolta sotto la soffocante e spessa coltre del dover essere, del rigore, dei principi, delle norme. Alla base della reatività sta l'atteggiamento i stupore e meraviglia del bambino davanti alla straordinaria varietà della vita. E quindi il bisogno e il piacere di esplorare, viaggiare nel tempo e nello spazio, di rivestire le esperienze di significato, in una parola di creare il proprio mondo. Continuare a creare è possibile solo se si accetta l'idea dell'incompiutezza. In sostanza se si è convinti dell'importanza di non diventare grandi una volta per tutte, e quindi riuscire a mantenere un contatto con il nostro bambino interno con il suo stupore e con la sua creatività. E' in qualche modo il rovesciamento del concetto tradizionale di sindrome di Peter Pan (da cui sarebbe afflitto chi rifiuta di assumersi le responsabilità che la vita adulta comporta), attraverso l'affermazione che una vita adulta piena e non soffocata da limiti angusti è possibile, solo se non si smette di essere anche bambini. La nostra complessa contemporaneità rende peraltro inequivocabilmente evidente come non sia più sostenibile un'idea dell'età adulta come età del buon senso, dei doveri sociali, un'età illuminata solo dalla luce diurna della ragione. Si afferma invece l'assoluta ambiguità dell'adulto, il suo essere anche non adulto, il suo essere anche fragile e notturno (Demetrio 1996). La grande risorsa creativa del nostro Peter Pan è il gioco. In qualsiasi Azienda Seria il gioco è bandito. Non solo: chi gioca in azienda è giudicato immaturo (non ancora adulto, non sufficientemente cresciuto). Si pensi ad alcuni modi di dire molto ricorrenti: "qui si lavora, non si gioca", "non siamo mica qui per divertirci". Una pedagogia della creatività in azienda deve essere imperniata su questo concetto che oggi suona come assoluta eresia: il lavoro è un gioco, un gioco serio come lo sono tutti i giochi belli, e se uno non si diverte lavorando, lavora male. Quindi si lavora per la stessa ragione per cui si gioca, per inventare, costruire, creare il nostro mondo. Si lavora divertendosi. In molti casi di successo è già così: alcuni imprenditori particolarmente creativi, penso a Bill Gates o a Luciano Benetton, quando parlano del loro lavoro comunicano un fanciullesco piacere. Quindi una formazione estetica (De Masi 1990) e una forte accentuazione dell'elemento ludico. Occorre pensare ad ambienti competitivi ma tolleranti dell'errore, responsabilizzanti (ogni gioco ha le sue regole che devono essere rispettate), ma dove non si umilia chi perde. Questo, nel mondo del business, , oggi è più possibile che in passato. Se si perde ad un gioco se ne può iniziare uno da qualche altra parte. La società dell'abbondanza tende a dare più possibilità agli individui rispetto al passato. E comunque un lavoro interpretato con lo spirito dell'avventura, con la passione, con l'entusiasmo di un bel gioco, ha molte più possibilità di dare risultati positivi per tutti di quanto non abbia la fredda motivazione a raggiungere gli obiettivi di budget. La pedagogia della creatività vola per l'azienda con Peter Pan. Oscilla tra le possibili analogie con le esperienze artistiche e la capacità di rêverie che pesca dal pozzo della nostra antica meraviglia davanti al mondo nell'inesausta, ma forse felice ricerca dell'isola che non c'è.

BIBLIOGRAFIA

Benquist "L'organizzazione post moderna" Baldini e Castoldi, Milano, 1995
G. Bachelard "La psychanaliyse du feu" Gallimard, Paris,1938
G. Bachelard "L'air et les songes" Corti, Pris, 1978
G. Bachelard "L'eau et le rêves" Corti, Paris, 1979
G. Bachelard "La poétique del la rêverie" Pris, PUF, 1960
G. Bachelard (1961) "La fiamma di una candela" SE, Milano, 1996
A. Carotenuto "La strategia di Peter Pan" Bompiani, Milano, 1995

B. Hillman "Pothos La nostalgia del Puer Auternus" in "Saggi sul Puer" Cortina, Milano, 1988 D.
Demetrio "L'educazione nella vita adulta" Nuova Scientifica Italia, Roma, 1995

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