BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 15/07/2008

IL LAVORO COME MORTE

di Luisa Pogliana

Questa notte (1) una persona con cui ho avuto modo di lavorare ha tentato di uccidersi sparandosi.
E' una storia che dovrebbe essere raccontata su tutti giornali, una storia che vorrei servisse almeno da specchio e riflessione. Evito dettagli per rispettare la sua riservatezza. Diciamo solo che è stato un importante dirigente, una delle figure più di successo nel suo settore, arrivato alle posizioni più alte, quelle che danno soldi e prestigio e fanno comparire sui giornali. Poco tempo fa, ha lasciato la grande azienda in cui lavorava, ufficialmente per andare in pensione, in realtà allontanato dopo anni di dissapori. Le cose vanno male, lo vediamo e tocchiamo con mano in questi tempi di crisi, e portano la tensione aziendale a livelli massacranti, con comportamenti spesso dissennati.
Se lui avesse torto o ragione rispetto allo scontento aziendale non lo so, non è questo che conta ora.  Conta che dopo l'allontanamento non si è messo affatto in pensione, ma ha tentato nuove imprese  di lavoro, non andate bene, anche per problemi gravi di questo paese, come le minacce di mafia.
Questo è il punto. Perché un uomo che ha fatto un'intera vita di lavoro pesantissimo (ben oltre i 65 anni canonici per il pensionamento), che ha avuto i successi a cui aspirava, che ha guadagnato un sacco di soldi, ha avuto tutti i piaceri che la sua condizione gli permetteva, perché non ha preso la sua strepitosa barca per andarsene in giro per il mondo e vivere piacevolmente?
Non posso conoscere i dettagli della sua vita, e se avesse altre ragioni per quella decisione. Ma pur da un punto d'osservazione  parziale si vedono caratteristiche comuni a tante persone  come lui, che arrivano ai vertici di importantissime aziende. Ci ho pensato spesso, avendo lavorato con molte persone così. Mi sono sempre chiesta: perché questa sempre maggiore brama di potere, di status sociale, di soldi, perché un'avidità che sembra sconfinata? Per arrivare dove, a cosa? Non hanno nemmeno il tempo di spendere i soldi che guadagnano, non sanno godere di una vacanza perché importa solo presidiare il proprio ruolo. Sembra una cosa fine a se stessa.
Ma l'accumulo è l'illusione di sconfiggere la morte.
Sono persone che non possono fare a meno di lavorare perché non hanno altro che sia un fondamento di vita, e perché per loro il lavoro non funziona come attività creativa,  di costruzione di sé e di un po' di felicità, ma come modo di darsi un'identità esterna, definita dal ruolo, dal successo, dal prestigio sociale. Modo di trarre la conferma che valiamo, che siamo importanti perché l'esterno ce lo dice. Eppure proprio perché fondato sul ruolo e sull'esterno, tutto questo è effimero. Il giorno dopo essere usciti da un'azienda dove si può anche essere stati un padreterno, si scompare. La memoria aziendale non esiste, l'azienda è effimera rispetto alle sue persone.
Per questo a settant'anni si ha ancora bisogno non di fare un'attività interessante, ma di cercare un ruolo, di essere qualcuno. Ne abbiamo visti tanti riciclarsi, per esempio da grandi aziende al mondo del calcio, pur di essere qualcuno, di avere un titolo (e i titoli, in genere, più sono altisonanti e complicati e più nascondono realtà assai banali, e così rivelano il bisogno, appunto, che il ruolo sia altisonante, forse perché si sa bene che dietro e dentro di sé non c'è un gran che).
Vorrei che di questo si parlasse , perché, al di là del caso personale, quando le aziende sono in mano a persone così, la gestione è in funzione di sé, guidata dalle proprie psicosi, assai più che dal raggiungimento di obiettivi aziendali, che segnano  poi l'economia del paese. Non a caso il nostro è ridotto così, troppo pieno dovunque di gente vergognosamente pagata a prescindere da risultati, che combatte per essere sempre più strapagata, per salire un gradino in più a qualunque costo. Anche a costo di danneggiare l'azienda. Ma se a quei livelli tutti sono così, la complicità nel tenere in piedi questa situazione è inevitabile.
E poi, forse, questa storia, che per il suo epilogo tragico denuncia in modo estremo tutto questo, serve anche a riflettere su di noi, a quanto spesso, più in piccolo e ognuno nel suo mondo, produciamo lo stesso meccanismo. Chiediamoci perché, chiediamoci se davvero una vita diversa non sia possibile, almeno come orientamento alla costruzione di sé anziché di un'immagine da spendere. Guardiamo la nostra business card e chiediamoci cosa vuol dire per noi quella definizione  che sta scritta sotto il nostro nome.
Guardiamo che cosa ci guida e verso cosa stiamo andando: possiamo stare meglio noi e tutto quello che ci sta attorno. Può essere utile guardarsi tutti nello specchio di questa dolorosa vicenda.


1 - Questo contributo è stato scritto sabato 12 luglio 2008

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