BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 17/05/2010

PER LE DONNE IL LAVORO E' ARTE (1)

di Luisa Pogliana

Ho trovato molti aspetti che danno corpo a questa affermazione -'per le donne il lavoro è arte'- nel  lavoro che sta alla base del mio libro Donne senza guscio. Percorsi femminili in azienda (Guerini, 2009). Un libro nato innanzitutto per riflettere sulla mia vita di lavoro, passata per la maggior parte  in una grande azienda italiana, come direttore di una staff. E poi per documentare e discutere di cosa vuol dire veramente essere donna e manager, in una realtà aziendale ancora così escludente verso le donne. Così, partendo da me stessa, ho pensato di coinvolgere in un percorso di riflessione altre donne che vivono la stessa situazione. Ne è nata una ricerca, e questo libro ne racconta gli esiti.

Una diversa concezione del lavoro
La prima cosa importante che ho trovato in queste donne è stata la ricerca di un personale modo di realizzarsi nel lavoro senza appiattirsi su modelli dominanti, che sono modelli maschili. 
Per questo ho pensato al titolo 'Donne senza guscio', perché le donne  entrano in azienda senza la protezione di un'appartenenza consolidata a questo mondo. E perché accettano il rischio implicito nell'abbandonare gusci a loro inadatti, per far crescere un guscio nuovo che permetta nel lavoro una vita a loro misura.
Questa ricerca si fonda prima di tutto su una diversa concezione del lavoro e della carriera.
E qui ci avviciniamo al tema di questo incontro. Di cosa parliamo, allora,  quando parliamo di lavoro?
Colpisce subito, cominciando a parlare di lavoro, del lavoro ideale per sé, non si indica tanto uno uno specifico ambito lavorativo, ma piuttosto si definiscono in modo prioritario le caratteristiche che  questo lavoro deve avere.  Ovvero: non importa con precisione cosa, ma si sa molto bene come.
Innanzitutto vediamo che la scelta di lavorare è data per scontata, non solo per un'autonomia economica, ma soprattutto come strumento di libertà nella vita.
Il lavoro ideale è tale se comporta benefici che vanno oltre la necessità di guadagnare. E l'attenzione si concentra soprattutto sulle possibilità di autorealizzazione.

Un lavoro in cui sia possibile metterci qualcosa di sé, un modo proprio di fare e cambiare quel lavoro”.
“Elemento indispensabile di realizzazione”.
“Consente di esprimere e valorizzare i propri talenti. Una condizione di libertà che ci permette di fare in maniera 'eccellente' proprio quel lavoro”.
“Un lavoro in cui si possa sentirsi realizzate e realizzare qualcosa”.

Certo, lavorare è in genere necessario, ma le aspettative della società non chiedono alla donna l'affermazione nel lavoro, l'assunzione di ruoli importanti. La cultura diffusa, anzi, orienta la donna in tutt'altra direzione: verso la casa, la famiglia.
Per l'uomo invece il modello sociale si fonda imprescindibilmente sul lavoro, è sul successo nel lavoro che un uomo viene misurato.
Dunque  per la donna la decisione di cercare un percorso professionale di alto profilo nasce da una forte motivazione personale, dal desiderio di essere se stessa al di là di ciò che prevedono i ruoli e le consuetudini. Si potrebbe dire che mentre un uomo deve, una donna sceglie di fare carriera. 
Per questo spesso il lavoro ideale viene definito 'creativo'.

“Se non è creativo il mio lavoro non mi piace e per essere creativo per forza deve uscire dalle maglie di un'organizzazione che tende all'autoconservazione”.
“Un lavoro creativo, che consente libertà di pensiero, libertà d’azione”.
“Autonomia : poter creare, applicare la fantasia alle attività, valutare tutte le possibilità e, se utile e proficuo, poter innovare”.
“Fare qualcosa che sento mio e a modo mio”.

Creatività non intesa in senso stretto. Un lavoro è 'creativo' se permette una espressione di sé e delle proprie capacità. Di mettere in gioco qualcosa di personale e soggettivo, di essere se stesse.  Tutto questo viene indicato in modo ricorrente come la caratteristica più importante del lavoro.
Ecco così subito un bello squarcio negli stereotipi: che vedono il lavoro manageriale chiuso nel mondo della razionalità, delle regole, della necessità e dell’aridità economica. E che, per contrappasso, intendono il lavoro 'creativo'  come para-artistico, tutto pulsioni e sregolatezza.
Il lavoro manageriale, guardato dal punto di vista delle donne, può essere creativo.
Insieme alla creatività, poi, nel descrivere il lavoro ideale ricorre molto spesso la dimensione della libertà.
Anche  questa concezione -il lavoro come luogo di libertà- è un bello squarcio rispetto ad altri stereotipi, che intendono il lavoro come inevitabile necessità, costrizione, limitazione della propria libertà.
Se guardiamo l’origine etimologica della parola ‘lavoro’ troviamo il senso di queste due concezioni in due diverse idee di lavoro.
Una rimanda al lavoro inteso come attività dura e penosa (dal latino labor), o addirittura come tormento (il francese travail, lo spagnolo trabajo, il portoghese trabalho, che derivano dal nome di uno strumento di tortura, il tripallium).
L’altra  privilegia, invece, il riferimento all’energia (il tedesco Werk e l’inglese work), e concepisceil lavoro creazione di opere e di ricchezza, attività legata alla realizzazione di qualcosa, e anche di sé. E' questa concezione -la costruzione di sé attraverso le proprie opere- che troviamo nel pensiero delle donne.
Il che non significa che tutte vivano una condizione idilliaca nella realtà del lavoro, anzi, sappiamo bene quanto sia spesso molto dura e più difficile rispetto agli uomini. 
Ma significa qualcosa di molto creativo: per quanto stretti possano essere i vincoli del lavoro, la persona può trarne cose buone per sé e per gli altri.
Si pone dunque l’accento sul modo con cui si lavora: il come fare non è meno importante del cosa fare.
Anche la carriera, così come il lavoro, appare importante più che come mezzo di affermazione sociale, per quello che significa come concretizzazione della propria capacità e dei propri interessi.
Non si persegue tanto il successo come affermazione verso l'esterno, ma la soddisfazione di bisogni interni. Prevale la spinta ad essere qualcuno più che a diventare qualcosa.
Vediamo dunque una rappresentazione del lavoro e della carriera che lascia ai margini il concetto di dovere  come vincolo sociale, e pone al centro, invece, il piacere.
La 'creativita' sta, non a caso, nel regno del piacere. Piacere di creare e costruire.
E alle donne il loro lavoro piace.  Anzi, le appassiona.

“Mi sono appassionata al lavoro e mi ci sono buttata anima e corpo”.
“Sono presa da innamoramento e passione per le cose che faccio”.
“Sono entrata in una grande azienda come addetta al personale di stabilimento, ho scoperto il contatto con le persone. E' stato amore a prima vista ed ho capito che avrei continuato a lavorare lì abbandonando l'idea  della magistratura”.
Dopo varie peripezie approdo a Ferrovie dello Stato.  Ma ci si può innamorare, della ferrovia. Ed è quello che è successo a me; i processi, il sistema, la tecnologia, le persone molto competenti, appassionate…”.
“Può esserci un innamoramento metaforico per il proprio lavoro. E' quanto avviene a me. Io amo il mio lavoro,  quello che mi dà l'opportunità di fare”.

'Passione', 'innamoramento: non stupiscono queste definizioni, data l'importanza che queste donne attribuiscono alla possibilità di oggettivare il sé nel lavoro.
Per questo, parlando di lavoro, molte usano proprio il linguaggio dell’amore. Come a testimoniare che l'incontro con il lavoro ha acceso parti di sé, come di solito avviene solo con le relazioni d'amore. 
Ecco, dunque, quanto nel modo di vivere il  lavoro, e lo specifico lavoro di manager, le donne sono vicine all'arte: espressione di sé, creatività, libertà, realizzare opere, realizzare se stesse.
Mi viene in mente una frase di Andy Warhol, “The best business is art”, un ottimo affare è arte (anche se facilmente viene tradotta con “l'arte è il miglior affare”, tanto è inusuale questa idea di considerare il lavoro, e il business, come arte).

Un'arte di cui faremmo volentieri a meno
Potrei fermarmi qui, ma bisogna aggiungere qualcosa. Perché, come ho detto, la realtà aziendale è spesso tutt'altro che valorizzante dei talenti e della passione che le donne mettono nel lavoro.
Così le donne devono sviluppare un'altra forma d'arte di cui farebbero volentieri a meno: affrontare e trovare ogni giorno un modo costruttivo per disattivare le trappole quotidiane  di una cultura aziendale ancora penalizzante per le donne. Ovvero, un secondo lavoro per poter lavorare bene.
Limitiamoci ad un rapido accenno.
Pensiamo ai modelli organizzativi, creati dagli uomini a loro misura, inadatti alle differenze che le donne portano in azienda.  Soprattutto per l'uso del tempo, con la richiesta di una disponibilità illimitata, con  rigidità e ritualità che  prescindono dalle necessità reali.  E su cui prosperano ancora le carriere presenzialiste, invece di concentrarsi sugli obiettivi e sui risultati .
Pensiamo alla maternità, che è ancora l'ostacolo principe alle prospettive di carriera, anche se in realtà vie praticabili ci sono (Ikea insegna). Così le donne vivono in una compresenza di mondi, di vite parallele, sono abituate e sanno a gestire la complessità. Ma a prezzo di grandi fatiche non sempre così inevitabili.
Pensiamo al fatto che le organizzazioni funzionano in modo non trasparente, e le donne non ci sono nei luoghi del potere. Così prospera la cultura delle cooptazioni tra uomini e dell'arbitrio.
E pensiamo anche ai molti atti informali quotidiani,  apparentemente marginali, che tendono a ribadire che le donne non hanno lo stesso valore di un uomo,  a ricondurle al loro essere donna prima di tutto e a prescindere dal ruolo professionale.
Ecco, per esempio, il mancato utilizzo dei titoli di studio e gerarchici, la negazione dei simboli di status lavorativo (il lay-out, i biglietti da visita), la richiesta di lavori ancillari (fare il verbale è un grande classico), la riconduzione al corpo, l'uso di un linguaggio che mette a disagio, il doppio codice per cui quello che è apprezzato in uomo non va bene in una donna.
Di fronte a tutto questo le donne devono trovare ogni volta un modo di reagire costruttivamente ad ogni singolo episodio. Non è una banalità: chi ha provato sa che ci vuole coraggio, sangue freddo, prontezza di spirito, intelligenza. E vediamo spesso mettere in atto la capacità di agire anche sul livello simbolico, il cui potere -proprio come fa l'arte- può modificare la realtà.

“Appena assunta come responsabile del personale in una multinazionale, vado alla prima riunione con l’ head quarter: un operation meeting mensile. Siamo in dieci, io l’unica donna. Il grande capo guarda il mio capo, il mio capo capisce e girandosi verso di me dice: 'Prende nota lei, vero?' . Il sangue ribolle, l’ira fa fatica ad essere contenuta, ma dieci anni di lavoro qualcosa hanno insegnato.  'Certamente, con piacere' rispondo. Dopo un mese, di nuovo l'operation meeting.  Prima che il grande capo inizi a parlare, guardo il collega alla mia destra e gli dico 'Oggi tocca a te prendere nota, vero?'. Il mio capo spalanca gli occhi, il mio collega è paonazzo. Io sorrido a tutti come se avessi detto la cosa più ovvia del mondo.  E’ così che è nata l’abitudine di prendere nota a turno.  Loro mi vedevano diversa, io ho fatto diventare anche loro diversi. Così siamo tutti uguali”.

Ecco un bell'esempio di questi 'imprevisti simbolici' con i quali, tra le altre cose, le donne si  muovono nel lavoro. Li ha chiamati così Giovanna Galletti, una delle donne che hanno partecipato al libro:  “perché non si può immaginare una modificazione delle regole con un approccio teorico, ma piuttosto con questo comportarsi creando una sorta imprevisto, che assume un valore simbolico”.
Dunque vediamo un quadro difficile, una cultura aziendale ancora penalizzante per le donne.
Eppure, la cosa più bella che ho trovato in queste donne, è non solo l'assenza di atteggiamenti vittimisti, ma il fatto che ognuna ha ha cominciato, cercando un suo modo, a mettere in atto tentativi di rottura delle regole aziendali che ostacolano le loro potenzialità, senza deleghe e senza alibi.
Questa, per me, è veramente opera dell'ingegno.
Ecco, io ho fatto questo libro anche per mettere in circolo tutto questo, la bellezza del nostro modo di vivere il lavoro,  il peso e l'insensatezza degli ostacoli, le pratiche per cambiare.
Perché, rispecchiandoci nelle altre, si rafforza la fiducia di poter trovare percorsi praticabili nonostante i contesti sfavorevoli e ingiusti. Di poter realizzare la nostra opera d'arte: noi stesse nel nostro lavoro.


1 -Per le donne il lavoro è arte è il titolo dell'incontro che si terrà il 20 maggio, alla Casa di Vetro di Milano, di Maria Cristina Koch  (www.lacasadivetro.com), incontro gestito da  Donne della realtà e Affari Italiani. Il titolo prende spunto dalla mostra Vassaggi, che farà da sfondo all'incontro: vassoi IKEA interpretati come opere d'arte da 50 artisti. 

Interventi di  Luisa Pogliana, autrice di Donne senza guscio;Alessandra Zini, Store Manager di IKEA  e portavoce di Valore D,  Angela Di Luciano, editor del Sole24ore. Coordinamento di  Paola Ciccioli, di Donne della Realtà.

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