BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 20/09/2010

CHI PORTARE IN QUOTA. 50 ANNI DOPO, QUOTE, DONNE E POTERE

di Luisa Pogliana

 Esattamente cinquant'anni fa la corte costituzionale accoglieva il ricorso di Rosanna Oliva e apriva le carriere in magistratura, nella prefettura e nella diplomazia anche alle donne. Sì, perché allora alle donne era sbarrato l'accesso a queste professioni. Rosanna Oliva voleva accedere al concorso per diventare prefetto e fu respinta, ma non si fermò. E quando la corte riconobbe che questo sbarramento era anticostituzionale, avrebbe potuto chiedere di annullare il concorso che nel frattempo era stato fatto. Ma non lo fece, perché non voleva nuocere ad altre persone che nel frattempo avevano trovato quel lavoro.
Qualcuno ricorda di aver mai sentito parlare di Rosanna Oliva? Eppure noi le dobbiamo un atto di giustizia e un'apertura di libertà per tutte noi donne. Non solo in quelle carriere. Il valore simbolico di quell'atto è enorme: una donna che si è presa sul serio, e ha saputo dire 'perché io no?' .
Bisogna ricordarselo oggi. Perché non è ancora vero che tutte le carriere sono realmente aperte alle donne.
Proprio in questo periodo sta seguendo il suo iter parlamentare una proposta di legge che impone di riservare alle donne un terzo dei posti nei consigli di amministrazione delle società quotate in borsa (oggi, secondo Consob, sono il  6,2 per cento). 
Naturalmente di questa legge si discute molto. E in queste discussioni mi colpiscono due cose.
Innanzitutto le donne interessate, che appartengono al mondo aziendale e manageriale, in modo diffuso hanno cambiato parere su questo provvedimento.
Cinque anni fa, un'indagine condotta su donne in posizione di leader nelle imprese italiane diceva che erano nettamente contrarie alle quote rosa: pensavano che il 'merito' sarebbe stato riconosciuto dalle aziende, perché nel loro interesse. La stessa indagine quest'anno dice che quasi tutte  -tra cui esponenti di Confindustria- hanno cambiato idea: il potere aziendale, saldamente territorio maschile, non cede davanti al merito. Basta vedere qualcuno dei molti dati disponibili.
Nell'industria privata le donne sono la metà dei quadri, ma tra i dirigenti il rapporto tra donne e  uomini diventa di 1 a 6 (Federmanager 2010). Una smentita al fatto che il merito viene premiato è in  un semplice indicatore: la percentuale di donne dirigenti fra il 2004 e il 2007 è cresciuta di un solo punto. Tutte incapaci, in quella metà di quadri?
E questo nonostante sia di attualità l'approccio womenomics. In rozza sintesi: la valorizzazione della professionalità femminile a tutti i livelli è utile al business, porta una visione diversa e capacità aggiuntive, più in grado di capire il mercato e gestire le aziende in situazioni complesse. D'altra parte, questa cosa si dice da diversi anni. Si dice, ma non si fa. Gli interessi di parte, quelli degli uomini che si tengono ben stretta la loro quota -totale- di potere, prevalgono sugli interessi aziendali e dell'economia. La richiesta di quote nasce da qui: se la cultura aziendale non cambia nemmeno a fronte di benefici per il business, bisogna forzarla con un'imposizione legislativa.  In questo modo le aziende sarebbero costrette a cercare le eccellenze femminili presenti nel mercato.
La seconda cosa che mi colpisce è che la preoccupazione che viene spesso manifestata da uomini manager, è che questa legge costringerà a dare posti importanti a donne non all'altezza.
Curioso che ci si preoccupi di avere una quota di 'incompetenti' donne: perché, nella nostra esperienza quotidiana vediamo solo uomini nei CDA e dirigenti in generale con eccelse doti professionali? Qual è la quota attuale di uomini incompetenti, mediocri o mediocrissimi, che vediamo accedere a carriere che nulla hanno a che vedere con il merito? E quante donne eccellenti vediamo restare fuori? Non siamo Biancaneve: è la cooptazione maschile nel potere che funziona,  più della professionalità.
Qualcuno, poi, con motivato scetticismo, dice addirittura che tanto “fatta la legge trovato l'inganno”. Certo -ammesso che si arrivi a questa legge con partiti che non hanno posto quote reali neppure al loro interno- se si vuole svuotarne il senso e continuare a ignorare il merito, basterà cooptare le raccomandate, le controllabili, cioè quello che succede oggi anche con altri uomini.
Ma è ragionevole pensare che, una volta aperta la breccia, sarà più possibile che ci entrino anche le meritevoli oggi tenute fuori. Negli USA, le quote (di ogni tipo) hanno funzionato così.
E poi: se le leggi si possono sempre aggirare, come mai non ci disinteressiamo di tutte le leggi, e invece se le troviamo positive ci preoccupiamo di come farle rispettare?
Tuttavia credo che la questione in gioco e su cui occorre concentrarsi vada ben oltre questa legge. Le leggi sono efficaci se sanciscono un cambiamento che si è riusciti a creare nella società e nella cultura. E c'è ragione di credere che la proposta di legge italiana più che a convincimenti economici, è dovuta alla forte presenza delle donne nel mercato del lavoro qualificato, donne che in vari modi hanno fatto sentire la propria voce.
Dunque quello che realmente è in gioco è una questione di potere. Potere maschile, che oggi controlla saldamente le aziende e impone la sua cultura e i suoi interessi (come  potrebbe incidere quella ridottissima minoranza di donne oggi nei CDA?).
Ma proprio per questo si pone anche la questione del rapporto delle donne con il potere in azienda. Perché per molte donne è un rapporto difficile, problematico.
Nel lavoro di ricerca e negli incontri che ho fatto recentemente su questi temi in molte parti d'Italia, ho trovato una convergenza forte nelle esperienze: l'incapacità di gestire i rapporti politici, di capirne i meccanismi e il funzionamento è uno dei limiti principali che le donne si attribuiscono, individualmente e collettivamente. Agire rispetto al potere in azienda significa scendere su un terreno estraneo all'esperienza collettiva delle donne, di cui non si ha esperienza sedimentata, perché da sempre le donne ne sono state escluse. Una difficoltà che le porta a chiamarsene fuori. Cosa positiva sotto il profilo di non accettare modalità e obiettivi che non ci corrispondono, ma limitante, se in questo modo si lascia che chi ha il potere continui a riprodurre l'attuale visione dell'azienda e delle sue regole, spesso penalizzanti proprio per le donne.  
Ciò che sembra rendere difficile il rapporto con il potere aziendale è anche il fatto che le sue manifestazioni corrispondono a criteri e modalità in cui le donne in buona parte non si ritrovano, mettendo piuttosto l'accento sul 'potere di fare'. Ma così le donne in azienda sono spesso limitate al middle management e alle staff, appunto le aree del fare, dell'operatività, dell'attuazione del piano deciso da altri. Il blocco avviene proprio nel passaggio al top management, al potere decisionale.
E lì il potere è oggi detenuto da uomini, e si esprime con codici, manifestazioni simboliche, finalità e modalità d'azione maschili,  spesso non chiaramente identificabili, sfuggenti.
Rispetto a questo potere manchiamo spesso di un'analisi adeguata dei meccanismi con cui funziona e non abbiamo chiarezza  su cosa vogliamo e sui nostri possibili diversi strumenti.
E' qui che io trovo la questione più importante.
Non si tratta di porsi 'semplicemente' l'obiettivo di entrare nei luoghi del potere. Si tratta di ragionare su come fare per rapportarsi al potere aziendale, su come aprire spazi alle donne ma soprattutto alla loro visione che oggi non trova posto nei contesti aziendali. Chi vogliamo che entri in questi luoghi del potere, per fare cosa, con quale visione dell'azienda e del lavoro -delle donne e di tutti- ?
Parto da un esempio concreto. Nei mesi scorsi la PWA (Professional Women Association) con l'Osservatorio Bocconi ha fatto un'iniziativa concreta. Ha individuato un gruppo di donne che hanno le caratteristiche per entrare a buon diritto nei CDA: Women Ready for Board. Come dire: ecco qua, le donne che non volete vedere ci sono. Una buona cosa.
Eppure alcune considerazioni sono state inevitabili guardando ai nomi proposti. Soprattutto una: alcune di quelle donne sono note a molte di noi per il loro atteggiamento assimilato a quello maschile, con una condivisione dell'idea e dell'uso del potere in azienda. O per un atteggiamento lontano dai bisogni e dalle visioni delle donne nel lavoro, spesso ponendo loro stesse l'aut aut alle altre tra carriera e altri aspetti della vita, invece di cercare vie praticabili nell'interesse di tutte e tutti.
Certo, è difficile procedere con criteri perfetti, l'importante è cominciare con proposte concrete, quindi qui non si vuole criticare di per sé l'iniziativa.
Si vuole riportare l'attenzione su un nodo cruciale. Non ci importa che più donne arrivino a occupare posti da cui è possibile governare l'azienda, se queste donne non hanno una diversa idea di potere e di governo, se non si rapportano concretamente e simbolicamente con le altre donne che lavorano, con i loro bisogni e concezioni diverse. Se manca questo, supportare l'arrivo ai vertici di queste donne sarà buono per loro, ma non serve a tutte noi, non serve a cambiare la realtà aziendale.  Cambia qualcosa, per le donne, ma anche per tutte le persone che lavorano in azienda, se in quei ruoli arrivano donne che praticano un diverso modo di essere manager e di concepire la gestione dell'azienda, che cercano di cambiare quelle regole che oggi penalizzano le donne e rendono la vita impossibile a tutte e a tutti.
Per arrivare a questo obiettivo è il momento di ampliare la visione, di fae un salto di qualità: quello che dobbiamo affrontare è assumerci la responsabilità di fare la nostra parte, a modo nostro, nella classe dirigente aziendale.
Cinquant'anni dopo, è di nuovo il momento di prenderci sul serio, di dire: perché io no?

 

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