BLOOM! frammenti di organizzazione

FINALE

Tredici anni di attesa sportiva. Appena undici, invece, mi separavano da un evento che nessuna partita potrà mai rimediare. Un evento che ha spento in molti la passione: io ho salvato intatta la mia voglia di calcio solo perché ero troppo piccolo, allora, per capire bene come stavano le cose.

Il senso di quella finale di Coppa Campioni del 1996 stava tutto nel cercare di cancellare un evento sportivo negativo e ricordare, se purtroppo questo fosse sufficiente a lenire i dolori, un evento tragico legato allo sport.

La stessa aria calda, la solida bella serata di maggio a ripetersi per tre volte lungo la vita di un uomo, un po' adulto e un po' bambino per consolazione. Devo ammettere infatti che le emozioni più forti che ho incontrato nella mia vita sono giunte a me dal calcio.

Non sapevo che colore avesse la delusione prima del 1983, non avevo mai gioito per un gol come per quello che realizzò Ravanelli nel 1996 contro l'Ajax.

La partita di Bruxelles, Juventus contro Liverpool, non la ricordo nemmeno. So che venne assegnato alla Juventus un rigore inesistente. E che la Juve vinse la partita ma riportò a casa solo il lutto per le persone che lasciarono la vita, assurdamente, in uno stadio troppo piccolo e poco sicuro per partite di quel livello.

Quella grande squadra di calcio non vinse niente. Perdette inoltre l'affetto e il tifo di molta gente che guardò quell'inutile partita alla TV o che, impaurita, gemette sugli spalti dello stadio.

Per tutto questo la partita di Roma nel maggio del 1996 si basava, a mio parere, su due imprescindibili questioni: dimenticare il gol di Magath e ricordare la vergogna di Bruxelles.

Per la verità non lo sentii il fischio di inizio, come del resto non lo sentirono gli altri trenta telespettatori che se ne stavano vicino a me in quel bar di Perugia, ma sono sicuro che la palla è schizzata dal dischetto di centro campo verso la parte di campo dell'Ajax anche grazie alla mia spinta.

Non mi ero accorto, sedendomi, di aver schiacciato la borsa di Manola, la spagnola con la quale mi frequentavo in quel periodo. Questa mi pizzicò la schiena facendomi segno del danno ma poi, angelicamente, capendo la mia sofferenza lasciò perdere sorridendomi. Le spagnole sanno far felice un uomo.

Cominciai con riluttanza i miei riti scaramantici per il buon esito della partita. Ogni tanto, quando si parla di calcio, mi fingo pagano e cerco di ingraziami la buona volontà degli Dei sacrificando a loro tutta un minuta serie di gesti, smorfie e particolari comportamenti, nel tentativo di contribuire alla causa della mia squadra. La logica è quella dei trogloditi che nella preistoria disegnavano sulle rocce delle caverne scene di caccia per simulare e di conseguenza auspicare una buona battuta.

A differenza di loro il mio comportamento scaramantico non si basa sulla pittura ma sullo stropicciamento del naso e degli occhi ogni minuto, trattenuta del respiro per quindici secondi in serie da tre, ecc. Da quando, e mi riferisco ad oggi, si vede permanentemente il minutaggio della partita sullo schermo, ho preso a seguire con il pensiero i secondi in serie di cinque che poi ripeto all'inizio di ogni 5 minuti. Esempio: comincia la partita, seguo mentalmente i primi cinque secondi contandoli con il cronometro. Stacco l'attenzione per cinque minuti e poi ricomincio a contare i primi cinque secondi, sempre seguendoli sullo schermo, del quinto minuto. Poi riprendo per il decimo, il quindicesimo e così via. Il riposo non è considerato nei conteggi.

Manola doveva sapere anche di questo. Infatti non disse niente sulle mie strane posizioni a sedere. Sul modo di accavallare le gambe e sulla tensione che provocavo alla sedia spostandomi indietro. Le donne spagnole sanno come far felice un uomo.

Contrariamente a quanto accade di solito il locale era pieno zeppo di conoscitori di calcio o presunti tali. In riferimento alla formazione sentivo le più disparate analisi. C'era persino un tedesco, con un amico, nel tavolo accanto al nostro, che indicava nella posizione di Ravanelli la chiave di volta della gara. Secondo lui a differenza delle altre partite della stagione il Rava era più defilato e avrebbe contribuito a “dare profondità alla squadra”.

Detto fatto. Il gigante di Perugia scese sulla destra, aggirò un difensore e il portiere e scagliò la palla in diagonale, quasi al limite della linea di fondo. Magicamente, con ruzzolare ingenuo e sagace quel pallone andò in porta. Non trattenni un urlo selvaggio, come gli altri avventori del resto.

Manola propose una birra e decise di andarla a prendere. Io indicai il tedesco di fianco a me e il suo amico. Impressionato da tale dimostrazione di scienza non potevo sottrarmi dall'offrire un giro.

“Sai, sono anni che non gioco a calcio ma ancora riesco a capire tante cose”. Parlava un pulito italiano con lieve cadenza umbra.

“Direi che sei più un mago che un tecnico. Hai azzeccato il movimento e predetto il gol”. Ora che eravamo passati in vantaggio ero più rilassato, potevo parlare con un po' di libertà.

La Juventus giocava bene. Dopo anni di sofferenza forse quella era la sera giusta. Con un tuffo al cuore ricordai la notte insonne del dopo Atene 1983. Ricordai anche amaramente quel terribile incubo che mi rubò il sonno, poco più che bambino, nella notte dell'Heisel. Sognai di affogare e sono sicuro che, Freud a parte, il tutto fu dovuto alla pena per il destino di quella povera gente morta inutilmente in Belgio.

“Non è finita, comunque. Giocano con fluidità anche loro. Soprattutto si muove bene anche quel centravanti”.

Due minuti dopo quella frase e tredici dal nostro gol, il terribile Litmanen, raccogliendo una corta respinta di Peruzzi, faceva ripiombare me e la platea lì presente in un disarmante timore.

“E' colpa del portiere, e niente altro”. Si sentiva dire dai più.

“Non sono sicuro di aver visto bene. Ma quella palla doveva essere respinta in altro modo”. Sentenziò il guru tedesco. A fine gara mi disse che era stato nazionale under 21 e giocatore in bundesliga per tre stagioni. Poi la famiglia, le amicizie sbagliate, l'incertezza del futuro. Insomma era da venti anni il direttore commerciale per l'Italia di una famosa marca di birra pilsen. Quello accanto a lui era un suo collaboratore anch'egli figlio della Germania unita.

“Meno male che c'è Ferrara in difesa e ancora tempo sufficiente per vincere. Perché è giusto che la Juventus vinca, questa sera”. Sussurrò Manola dimostrandomi ancora una volta che le donne spagnole sanno come far felice un uomo.

“Ha benzina sufficiente e la voglia giusta per farcela”. Chiosò il tedesco.

“Non immagini quanto sia duro starsene qui a vedere la partita. Sarebbe stato meglio vederla davvero, allo stadio”. Dissi questo pur sapendo che in realtà quel posto e quella compagnia andavano benissimo. E poi vedere la partita in TV ha i suoi pregi. Vedi meno gioco ma non soffri per il posto a sedere e di solito non perdi la voce. C'è qualcuno che fa la cronaca dicendo un sacco di cavolate ma almeno scandisce i nomi di tutti i giocatori e sai con chi prendertela in tutti i casi. Poi vedere la TV al bar o in una sala pubblica, provoca quel senso di condivisione tipica delle esperienze vissute in gruppo. C'è un certo sentimento di amicizia quando anche la polemica diventa costruzione di rapporti perché è indubbiamente fine a se stessa.

Manola andò al banco per ordinare altre birre. Questa volta era il tedesco ad offrire.

Ce le gustammo in piedi, defilati rispetto alla folla che si accalcava al banco del bar nell'intervallo fra il primo e il secondo tempo.

Giocavamo bene e questo era già qualcosa. Avevo una donna con cui passare la notte. Il tedesco era simpatico. La sera di maggio calda e serena. C'erano tutte le premesse per essere ottimisti. Anche se un sei a zero al primo tempo avrebbe sicuramente dato più credito alle mie sensazioni.

“Non si possono sbagliare gol del genere”. Urlai fra lo sbigottimento generale.

Vialli aveva appena scagliato il pallone sull'esterno della rete. Dopo averli fatti a pezzi nei primi venti minuti del secondo tempo sembrava che si stesse per chiudere la partita con il gol vincente da un momento all'altro ma questo momento finiva per essere sempre rimandato.

“Se non segnamo, vorrà dire che lo faremo più tardi. Meglio aspettare per goderci la vittoria”. Disse Manola.

“Già ma la Juve rischia a non chiudere la partita”. Questo lo disse il barman che aveva appena posto sui nostri tavoli altre quattro birre. C'era il tedesco con il suo amico, c'era Manola e c'ero io, con un una crescente esasperazione mista a un sentimento nuovo che cominciavo a provare da qualche minuto.

Era una sensazione dolce di benessere ma non era solo merito della birra. Non era solo questo. Ne il fatto che stavo in bella compagnia. La sera era speciale perché mi sembrava che fosse in atto una specie di riconciliazione fra me e la Coppa dei Campioni. Fra le belle sere della mia adolescenza e le sere della mia gioventù nel momento più bello. Sembrava che tutto fosse stato scritto da qualche parte, con tanto di lieto fine. Ecco perché vedevo positivamente il profilarsi dei supplementari. Magari quella bella sera, quelle sensazioni sarebbero durate oltre il lecito dei novanta minuti.

Non era male davvero.

L'arbitro fischiò la fine della partita ma non eravamo dispiaciuti.

“Che dici, vado a prendere altre birre?” Sussurrò Manola.

“Direi proprio di si. Paghiamo noi, che ne pensi?” Risposi.

“Non mi sembra una cattiva idea. I nostri amici sono incantevoli e vinceremo noi”.

Per la verità l'altro tedesco non fu molto loquace ma nell'economia della conversazione e della serata intera non venne mai a disdire.

Mi sembra addirittura che fu lui a pagare un paio di giri alla fine, nella confusione generale.

Stesso copione dei tempi regolamentari. Una grande partita d'attacco della Juventus e intermittenti pericolosissimi contropiedi dell'Ajax. Anche i tempi supplementari ci regalarono emozioni e non pochi tuffi al cuore.

Ad un certo momento sembrò proprio che Del Piero dovesse segnare ma una mano divina pose nella giusta direzione la palla che, accarezzando l'erba, passò di lato al palo e uscì sul fondo seguita dallo sguardo del portiere.

Poi ancora un intervallo.

“Questa coppa la perde, sta a vedere che scherzo”. Dietro quelle parole si perse la mia stima nei riguardi del barman. Uditele, però, fummo tutti d'accordo sul fatto che avremmo vinto.

Superammo il secondo tempo supplementare con la tranquillità dei forti.

Manola mi prese la mano, il tedesco sogghignò e andammo tutti ai calci di rigore.

“Che bella partita. Possiamo solo vincere ora”. Ancora un punto per Manola. Le donne spagnole sanno come far felice un uomo.

“Direi che non merita proprio di perdere questa Juventus”. Disse il tedesco.

Contorcendomi fino all'inverosimile le mani fra loro e stirando la gamba destra oltre il limite dei muscoli lombari mi apprestai a seguire l'esecuzione dal dischetto del buon Ferrara. Gol.

Segnarono anche loro.

Poi noi e poi loro. Ma a questo punto qualcosa fece si che il calcio di rigore andasse a finire fra le manone di Peruzzi. Un piccolo boato mi cullò. Manola stringeva forte la mia mano.

Un altro gol per noi. Fra la confusione generale un calciatore dell'Ajax andò al dischetto del rigore.

Palla alta sopra la traversa e il boato nel bar si fece assordante.

Naturalmente la voce del commentatore era già indecifrabile da dopo il gol di Ravanelli nel primo tempo ma era possibile intuire, a volte, parole, frasi spezzettate. Si capiva, acchiappando qua e là i suoni, che anche la voce sempre compita e puntuale di Bruno Pizzul aveva assunto un tono eccitato.

Jugovic, a questo punto, aveva il compito di far divenire infinita quella notte di maggio.

Salì fino all'area di rigore senza tradire emozione alcuna. Il suo bel viso apparve disteso alle telecamere. Nel 1991 aveva dato alla Stella Rossa di Belgrado la prima ed unica Coppa dei Campioni e sapeva come battere un calcio di rigore.

Senza fiato, per mano a Manola, contorto sulla sedia vidi quello che aspettavo da tredici anni: la palla entrare in rete e un giocatore della Juventus esultare, libero di piangere o ridere, correndo verso i compagni. Questa volta fu solo gioia.

“Giustizia è fatta! Giustizia è fatta!” Urlava l'amico tedesco.

Manola, abbracciandomi, cercava di riportarmi alla calma mentre io urlavo.

No, la giustizia non c'entrava per nulla con quella partita.

Il gol di Magath era stato finalmente vendicato e noi eravamo felici ma tutto doveva finire lì, perché questo e solo questo è il calcio.

Nessuno, quella sera avrebbe ricordato pubblicamente la tragedia dell'Heysel ma io, muovendomi fra i tavoli di quel bar, mi ricordai di coloro che erano morti lassù. Non è molto, immagino, ma a qualcosa dovrà pur servire.

Nel 1996 la Juventus ha vinto, finalmente, la sua prima Coppa dei Campioni.

Come tutti sanno non l'ha vinta mai più. Perché così è giusto.

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