BLOOM! frammenti di organizzazione

IL TACCO DEL LOLI

Il risultato finale di una partita di calcio più clamoroso che la storia di questo bellissimo sport ricordi a livello mondiale è senza dubbio quel 3 a 3 fra la rappresentativa italiana e quella argentina scaturito da una interminabile partita giocata il 28 novembre 1998 a La Plata, nel campetto di calcio vicino alle sponde del Rio della Plata, ottanta silometri da Buenos Aires, Argentina.

La finale del mondiale del 1950, con il tremendo 2 a 1 a favore dell'Uruguay sul Brasile al Maracanà di Rio de Janeiro non ha nulla a che vedere con quell'incredibile sfida giocata da undici italiani fuori forma e undici ragazzi argentini che con i piedi sapevano fare grandi cose.

Nemmeno il sensazionale tre a due dell'Italia di Paolo Rossi contro il gigantesco Brasile nel 1982, in Spagna. Il tre a tre che ci conquistammo a La Plata in quel giorno d'estate, sotto un sole da oltre trenta gradi, non può essere paragonato a niente in fatto di clamore, nemmeno al quattro a tre fra Italia e Germania, giù nel Messico, nel 1970. L'uno a zero dell'Amburgo sulla Juventus nella finale di Coppa dei Campioni del 1983 o il 2 a 1 del Manchester ai danni del Bayern Monaco negli ultimi tre minuti della finale di Champions League del 1999 non si avvicinano nemmeno un po' allemozione sportiva di quell'incredibile rimonta che ci vide raggiungere gli argentini proprio nei minuti finali.

Ricordo un due a zero dell'Arsenal, sul campo del Liverpool, nel 1989, ultima giornata del campionato inglese, con l'Arsenal che doveva vincere con due goals di scarto e lo fece proprio nell'ultimo minuto di quella esaltante sfida.

Chi non ricorda l'uno a zero del Camerun sull'Argentina nella partita inaugurale del mondiale del 1990 in Italia. E chi ha dimenticato il 4 a 2 della Lazio sull'Inter, nell'ultima partita del campionato italiano nella stagione 2001-2002: tutto era deciso, l'Inter avrebbe dovuto vincere. Persino i tifosi della Lazio erano pronti a festeggiare lo scudetto della squadra milanese.

Il 3 a 3 di quel giorno scaturì dalla voglia di giocare di un gruppo di italiani andati lì per fare tutt'altro ma che si ritrovarono a scrivere una delle pagine più entusiasmanti di questo sport, perlomeno per quelli che videro e forse per coloro che leggono queste righe. Il fatto che la partita non sia stata trasmessa in mondo visione o non sia stata citata da alcun almanacco calcistico non è un problema dirimente, semmai attiene a quelle questioni di opportunità che sono disegnate dal destino, scritto da qualche parte, perché non può essere che scritto già da qualche parte, di una competizione sportiva.

Anche se ci si riferisce ad un fatto minimale per la storia del calcio, anche se gli spettatori erano una ventina, circa, e anche se i gesti tecnici e atletici non furono proprio di prim'ordine, quello che questa partita ha rappresentato per tutti noi va oltre ogni sensazione di stupore, soddisfazione ed esaltazione collettiva che un risultato sportivo abbia mai provocato. Nessuno dei presenti ricorda quei novanta minuti senza la sensazione appagante di aver scritto, e ne siamo tutti certi, una delle pagine più belle dello sport più amato e praticato al mondo. Una finale di un mondiale è certamente più importante ma l'emozione di quell'incontro, per noi, è stata mille volte più intensa. Perché in fondo non conta chi gioca o chi guarda ma conta la magia di calciare un pallone oltre i limiti, i sogni, i desideri di persone che trasformano, in questo modo, la loro anonima vita in un vulcanico crogiolo di emozioni declinando i gesti del gioco in un sentimento di pienezza e soddisfazione: in speranza.

Le parole di Artaud congiungono armoniosamente, ora che ricordo, quella giornata alle emozioni più forti e intense che la vita ci può riservare disegnando eccezionale un pomeriggio che per milioni di altre persone è stato normale.

Quale Arabia o quale Africa

Possiede il ritornello che noi cerchiamo

Frantuma il ghiaccio delle nostre fronti

O musica, oltraggiosa musica

Andati laggiù per un gemellaggio fra la nostra città e La Plata, ci ritrovammo ad essere sfidati da una squadra del luogo, mi sembra si chiamasse Odense, militante in uno dei tanti campionati dilettantistici in giro per lo stato di La Plata. Decisero di giocare con gli italiani per dimostrarci amicizia e forse sorridere insieme.

Il nostro capo comitiva, il buon Guidelli, che era atterrato a Buenos Aires cantando O Sole Mio al comandante dell'aereo, si offrì di fare l'allenatore del nostro sciagurato team.

Eravamo sprovvisti di tutta l'attrezzatura necessaria, perfino scarpe e pantaloncini. Fu grazie ai nostri amici/avversari che riuscimmo a trovare il necessario rovistando nelle soffitte dei compatrioti, nei garage degli italo argentini e perfino andando a comprarci, un paio di noi, scarpe da economiche e para stinchi di plastica.

Dopo un ricevimento al municipio ci recammo al campo, in riva al Rio che tanto a dato e da a quelle terre.

Nello spogliatoio, infilando le magliette fornite dall'Odense, sentimmo il peso dell'emozione. Tutti nervosi e poco loquaci sentii solo Guidelli che diceva:

“Pochi giochetti ragazzi, passate il pallone e, soprattutto, state attenti a non farmi male. Finisca come finisca l'importante e divertirsi tutti insieme”.

Non sarebbe deleterio applicare questi concetti a tutti gli eventi sportivi, dalle partite fra ragazzi ai grandi match fra professionisti.

Dopo le sagge parole del Guidelli salimmo sul campo. Ci accolse una povera folla, venti, venticinque persone sotto un sole immenso. Era secca anche l'erba, quella poca che trovavamo nel campo, a chiazze.

Alcuni di noi non giocavano da anni, altri da decenni. Si disse persino che il Loli non avesse più calcato un campo di calcio da non meno di trent'anni.

Io, Luca, Francesco e Fernando a centrocampo. Quattro dei più lenti e appesantiti in difesa, Walter e Luigi di punta e Michele in porta.

Dalla loro parte c'erano oltre l'età e la condizione fisica, anche la discreta conoscenza reciproca. Giocavano insieme da anni quei ragazzi e lo avrebbero dimostrato presto.

“Non guardare mai in giro, concentrati sulla palla e attento a non prenderla in faccia”. Sentii Luca incitare così il portiere.

Non era male starsene nascosti a centro campo. I primi minuti ci confermarono che era possibile, con poco sforzo, gestire la palla e fare qualche passo in avanti. Walter arrivò persino a tirare in porta, senza esito.

Dopo alcuni minuti di quell'idillio cominciarono le grane. Uno di loro scappò sulla destra, crossò precisamente a centro area per l'accorrere del loro centravanti che in corsa infilò la palla in rete. Un piccolo boato fra il pubblico e le urla del gigantesco centravanti ci fecero capire che loro avrebbero giocato sul serio, per umiliarci e strapazzarci, così, per amicizia.

Alcune entrate all'argentina, direttamente sulle nostre tenui gambe, ci tolsero ogni dubbio. Dalla buffonata in cui speravamo finisse la faccenda si arrivò alla drammaticità di una partita vera, che loro volevano vincere per forza.

“Facciamo qualcosa” Disse uno di noi.

“Che cosa oltre a correre”. Rispose Luca.

“Non fatevi male, continuava a urlare il Guidelli dalla panchina”.

Al due a zero ci furono i primi insulti. Non eravamo capaci a niente secondo loro. L'orgoglio oriundo vinceva la fatica e la volontà di amicizia. Ci stavano massacrando.

Uno scatto di Walter in avanti permise al sottoscritto di allungarsi a centro area. Colpii senza forza la palla che andò fuori di poco.

“Non fate male. Non fate male. Italiani.” Mi ringhiò contro un loro difensore.

Al trentesimo minuto, dopo averne sbagliati un paio, il loro giocatore di fantasia, quello con il numero 10 sulle spalle, infilò in alto sotto la traversa con un tiro dal limite dell'area. Colpevole fu anche il portiere per la verità.

Tre a zero, palla al centro e ancora quegli stupidi falli sul Loli, Luigi, Luca, me, e gli altri. Con una entrata durissima fecero uscire Fernando. Non rientrò più e dovemmo andare negli spogliatoi in dieci.

Senza riserve, con tanti acciacchi e poche idee ci ritrovammo sulle panche di legno dello spogliatoio. Anche Guidelli, mortificato dall'impeto agonistico degli argentini, si sentì di dire: “coraggio, non è finita. Possiamo fare meglio e lo faremo. Vero? So che non è facile ma dobbiamo provare a reagire”.

“io non sono sicuro di arrivare in fondo”. Disse Loli “Ma almeno voglio togliermi la soddisfazione di azzopparne uno”.

“Ci prendono per il culo questi argentini. Io non mi faccio mettere sotto così”. Michele quasi piangeva nel dire questo.

“Ci sto. Anche per me dobbiamo far vedere di quello che siamo capaci di fare”. Sentii un altro che diceva, infervorato, queste parole. Non sembrava vero che fossimo in quella situazione. Il loro gioco duro, quei tre gol, le offese, avevano cementato in noi una volontà vincente. Avremmo dato tutto nei prossimi 45 minuti. Così doveva essere anche se alcuni di noi non giocavano da anni, altri erano fuori forma e tutto il resto.

In dieci attraversammo il campo da parte a parte. Guidelli, trovò il coraggio di urlare “forza ragazzi, spaccategli il culo” dalla panchina. La sua voce tenorile lo aiutò nel farsi sentire bene da tutti, compresi gli avversari.

Fin da subito facemmo fatica a trovare spazi ma comunque eravamo decisi a fare qualcosa. Ringhiando anche noi, spruzzando sudore ad ogni movimento, arrivammo per la prima volta in area avversaria in tre contro due. Non fu facile ma Luigi la mise dentro dopo un rimpallo con il difensore che fungeva da libero.

Urla anche da parte nostra e dei nostri tifosi.

“Ora non passano più”. Urlava Michele dalla porta lontana. Guardandola non ci sembrava vero aver corso così tanto.

Fra l'euforia collettiva ci avviammo a centrocampo.

Il gioco riprese con inalterato furore. Ci spingevano a terra, ci massacravano ma ora le cose erano diverse. Da quando eravamo rientrati in campo la grinta di uno era la grinta di tutti. Uniti e pronti ad ogni cosa pur di ribaltare quel risultato troppo penoso per tutti.

Presa palla a centrocampo, scartai un avversario e infilai un corridoio per Walter. Non so come da la palla tornò verso il centro e chiudendo gli occhi calciai il più forte possibile. Ero quasi al limite dell'area e la palla, alzandosi andò a infilarsi proprio nell'angolo alto a destra del portiere.

Tra a due potevamo pareggiare, con un po' di fortuna. Questa, che aiuta, come si sa, gli audaci, aiutò anche noi e fece si che il palo rispedì indietro un tiro del loro centravanti, a portiere battuto.

La gloria, perenne, arrivò poco dopo il trentesimo munito.

Palla a Luigi, finta e cross. Dopo un rimpallo Loli cercò addirittura la rovesciata. La palla finì a Walter che, solo, insaccò.

Uniti e sfiniti facemmo muro alla loro follia agonistica. Addirittura, sfruttando un bel contropiede, arrivai a centrare il palo con un bel pallonetto. Sarebbe stato troppo forse.

Il risultato più clamoroso della storia del calcio è stato questo, senza dubbio.

Una squadra di derelitti, con la pancia gonfia e le gambe molli, ha giocato contro una squadra vera, riuscendo a rimontare tre gol in 45 minuti e a sintetizzare un ricordo personale quello che milioni di persone affidano alle emozioni che provoca loro il guardare una partita di calcio.


Quelle Arabie ou quelle Afrique/tient le refrain que nous cherchons/brise les glaces de nos fronts/ò musique, blessante musique. Da « Romance », da Tric a Trac del cielo, in A. Artoud da “Poesie della crudeltà” (1913-1935), trad. di Pasquale Di Palmo, ed Stampa Alternativa, Roma, 2002.

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