BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 27/09/2004

LA POSTINA

di Gianfrancesco Prandato

Viviamo in un mondo in cui, pur avendo a disposizione tecnologie sofisticate come il computer, i fax, i telefoni cellulari, etc.. la posta rimane il sistema più usato per scambiarci documenti e informazioni. Per cui Roberta era li', ogni mattina.

Ogni mattina era lì un poco prima degli altri, circa alle sette e trenta. Per prima cosa, faceva il giro dell'edificio. Era un giro che richiedeva una trentina di minuti, con un carrello, corridoio dopo corridoio, piano dopo piano, faceva un lavoro banale: raccoglieva la posta.

Lavorava in una palazzina in stile “modernista”, almeno io lo chiamo così, una come se ne vedono tante negli Stati Uniti; squadrata, come un pezzo di LEGO, il colore quel rosa sporco la disturbava un poco, ma era un aspetto superabile; ci poteva passare sopra.

Panorama

Non la trovava brutta ed era facile da girare, cubica, simmetrica, con gli uffici dei direttori negli angoli dei diversi piani. I punti di raccolta erano anch'essi definiti con un certo gusto della geometria: ogni piano ne aveva circa una decina. Erano delle semplici cassette di plastica, con una specie di indirizzo, in realtà era un numero, quello della cassetta, e associavano un ufficio con un piano. Ogni numero era abbinato a più uffici, le segretarie curavano lo smistamento della posta dalla cassetta ai singoli tavoli delle persone. C'erano poi le cassette della posta in uscita, quelle erano da svuotare e da smistare ai destinatari. Era un lavoro relativamente semplice. Si divideva la posta interna dall'esterna. Quest'ultima andava affrancata la posta interna invece doveva solo essere smistata e consegnata.

L'affrancatura, che era la parte più onerosa, era effettuata all'ufficio delle Poste.

Una volta era di sua competenza ed era un lavoro gravoso, prezzi diversi per pesi e buste di dimensione differente. Le modalità di spedizione poi facevano il resto, Assicurate, Espressi, Raccomandate, con o senza ricevute di ritorno. Era un bel districarsi tra tutte queste tariffe, perché poi, le tariffe cambiavano secondo il peso delle buste.

Era un lavoro che imponeva delle scelte, delle valutazioni.

Il problema era la capire; cosa voleva veramente dire Espresso, cosa significava? Dipendeva da chi lo effettuava. C'erano delle persone che sapevano esattamente cosa era un Espresso, ma erano poche; per lo più, gli altri, quando richiedevano un Espresso, volevano una lettera in grado di arrivare il più presto possibile a destinazione.

Qui interveniva il giudizio di Roberta, la sua valutazione. Conosceva ormai tutti nell'edificio, valutava attentamente il mittente e il ricevente; e poi decideva. Alle volte cambiava una Raccomandata in una Assicurata, un Espresso in una Accelerata o nei casi estremi in una semplice lettera. A suo modo controllava i costi, contribuiva al contenimento delle spese postali, ottimizzandole. Non di meno pensava al servizio, cercava di spedire le lettere in modo che arrivassero il più presto possibile, si informava sui tempi, sui tragitti, sulle procedure interne degli uffici postali.

Adesso era tutto cambiato. Con l'accordo fatto da Crusini, il capo dei servizi generali, tutto era stato portato all'esterno come diceva il suo capo, costi certi e più flessibilità, questo era il principio. I costi erano certi, ma Roberta in cuor suo sapeva che sarebbero stati più alti, perché, in questo modo non poteva più esercitare il suo “controllo”. La posta era scaricata direttamente all'ufficio postale, in grandi sacchi, e lì, smistata e, come si diceva, “lavorata”.

Per Roberta era sicuramente una vita più agevole, meno buste da affrancare, meno tariffe da calcolare, più noia.

Per la posta interna nulla era invece cambiato. La posta interna andava selezionata e ripartita tra gli uffici. La codifica interna era sempre numerica. Solo i nuovi venuti ci mettevano un po' a ricordare l'abbinamento tra numeri, uffici e persone, ma dopo un po' diventava una cosa automatica, 1 3 Rossi significava: il Rossi che sta al primo piano e prende la posta alla casella 3, il nome a questo punto era quasi irrilevante.

Restava da guardare e smistare la posta che arrivava dall'esterno, ma non era un gran problema visto che Roberta conosceva tutti e che il ricambio in azienda non era così alto.

La cosa più buffa succedeva di mattino presto. Gli impiegati, li chiamava i mattutini, al cigolare delle ruote del carrello uscivano dagli uffici e si precipitavano a scartabellare tra le buste che depositava nelle cassette. Cercavano di vedere se era arrivato qualcosa per loro, un segno che esistevano per il mondo. Era chiaro che amavano cominciare la giornata di lavoro aprendo la posta. Come in rituale, non potevano aspettare, non riuscivano a reprimere la voglia irrefrenabile di riempire il cestino con inutili depliant.

In quel momento il pensiero di Roberta era immancabilmente rivolto agli alberi che erano stati trasformati in carta per un così breve momento di attenzione.

Una vita, al minimo

Questo lavoro le era stato trovato dal padre subito dopo l'incidente. Il padre era stato un politico locale, importante all'interno della comunità e grazie alle sue frequentazioni con gli industriali locali aveva procurato questo lavoro a Roberta. Procurato era la parola giusta, perché senza le sue entrature non sarebbe successo nulla.

Non era quello che avrebbe sperato per sua figlia, ma aveva dovuto arrangiarsi al meglio di fronte agli eventi.

Roberta, infatti, era epilettica, o almeno così pareva. Era successo durante il matrimonio di sua sorella, dopo che si era “ubriacata” c'erano state quelle orrende convulsioni, irrefrenabili, incontenibili, quello stato di trance e quella brutta caduta. Era successo davanti a tutti, era definitivo, non si poteva più mentire, smussare. In più, quei giorni di coma e il lungo recupero avevano lasciato in lei un segno, era come uno specchio rotto e riaggiustato, c' erano in lei delle aree che non rispondevano alla logica comune. Aveva ricominciato a parlare a camminare a vivere, era come ritornata tra noi dopo una lunga assenza in un'altra dimensione e si vedeva..

Aveva lasciato gli studi, senza terminarli, per la prolungata assenza e perché i suoi interessi avevano preso nuove strade. Le sue percezioni erano cambiate, rallentate, guardava alla vita con angoli diversi. Era ritornata tra noi, era stata esposta a qualcosa cui si può sopravvivere con difficoltà, in ogni modo a qualcosa che ti cambia.

Roberta non avrebbe trovato che compagni occasionali o forse neanche quelli, bisognava trovare un lavoro in cui si potesse sistemare, e che le facesse impegnare il suo tempo. Questo aveva detto e fatto suo padre. E questo era quello in cui lei si ritrovava all'età di 47 anni.

Un incontro

Il dolore, la privazione, il danno che aveva subito. Tutti lo ricordavano, e non era una sensazione piacevole. Semplici fatti, come gli inviti a cene in cui lei era l'unica a non essere in coppia, o le conoscenze che, zelanti amiche, le presentavano di tanto in tanto, o perfino il fatto che sull'autobus aveva diritto al posto riservato agli handicappati, tutto la allontanava.

Era cambiata lei ?

Erano cambiati gli altri?

Roberta non lo sapeva lei si ricordava così, era nata a 26 anni: il giorno del risveglio dal coma, quello era il suo compleanno.

Il resto era come un film, una vita che le avevano raccontato, ma che non sentiva sua. Alle volte provava emozione, come quando si legge un bel romanzo. La impressionava il racconto della morte di suo nonno, con lei bambina che si accasciava sulla bara, le sembrava un bel pezzo di vita. Ma quello che non capiva era se era veramente stata protagonista di questi eventi. Nella memoria affioravano, alle volte pezzi, dettagli, ma erano come sogni, reali, ma non, legati a ricordi. In fondo si chiedeva cosa fossero i ricordi, se non sogni, se non ricostruzioni personali di eventi non certi.

L'unica differenza era che li ricordavano almeno in due e lei, lei non ricordava nulla.

L'arrivo di un nuovo capo, importante era un evento nel palazzotto. E questo era un evento che non passava inosservato. Il capo era uno di rilievo era il nuovo capo del personale.

L'arcigno Reseli, il terrore di molti dipendenti, infatti, era andato in pensione, dopo un tira e molla con la direzione generale che gli aveva dovuto dare un po' di quattrini. Era un segreto perché ufficialmente era tutto in armonia, ma Roberta sapeva, sapeva, sapeva tutto. La sua conoscenza era la posta, quelle buste che per tutti erano anonime a lei parlavano, senza il bisogno di leggerne il contenuto. Per Reseli era stato semplice capire, aveva visto quel va e vieni di raccomandate con l' ufficio del lavoro, e il fatto che Reseli in persona era andato da lei a consegnarle una busta per un avvocato. Raccomandata aveva detto. Era il segno di una cosa importante, per lui. Reseli non aveva mai dato tanta importanza alle lettere, mai. Semplicemente si arrabbiava dopo se non venivano consegnate in tempo o se erano imperfette. Addirittura una volta aveva scambiato due documenti infilandoli in buste diverse che poi erano state recapitate a persone diverse. Poi aveva accusato la sua segretaria, di aver mandato il plico raccomandato in posta semplice a un emissario sbagliato e quello che sarebbe dovuto andare in posta semplice raccomandato.

Imperdonabile

Il nuovo capo era giovane, sulla quarantina, si chiamava Accardi. Veniva al lavoro presto ed era completamente diverso da Reseli, alla durezza esteriore contrapponeva una gentilezza che dopo tanti anni di abitudine alla faccia dura, sembrava quasi sospetta.

Il fatto che venisse a lavorare presto non era casuale, riceveva la posta da sé, la sfogliava, frettoloso assieme al giornale, e buttava nel cestino le buste che non gli interessavano. Non le apriva nemmeno.

La mattina, Roberta le separava già, voleva semplificargli il lavoro, sapeva già che alcune buste non le avrebbe lette, e nemmeno aperte, perciò, le separava, le riconosceva anche lei, erano quelle di pubblicità e quelle con curriculum generici che inoltrava direttamente al responsabile della selezione.

Una mattina come le altre Accardi era lì alla scrivania che stava scrivendo, e successe qualcosa di imprevisto.

“Si sieda Roberta”, disse, seguendo quella strana abitudine per cui gli uomini si chiamano per cognome e le donne per nome, succede quasi indipendentemente dal livello che ricoprono, e subito incalzò: “Lei conosce un sacco di gente mi dica cosa pensano di me?”

Domanda brutale, considerazione immeritata, era anni che a Roberta nessuno chiedeva una opinione, ma questa domanda era anche troppo sorprendente e diretta e, stranamente per un nuovo arrivato, conosceva il suo nome.

“Come ha detto, non lo so!”

rispose Roberta, prendendo tempo con una risposta di comodo e assestandosi su qualcosa di completamente nuovo, e cioè sul fatto che qualcuno voleva un giudizio da lei.

“Risposta ovvia, non può non sapere, lei porta la posta, parla con tutti e conosce tutti, sicuramente sa cosa pensa la gente, non che mi interessi molto, ma vorrei capire se e come il mio stile di direzione è percepito, se riesco ad incidere, se c'è un po' di innovazione; è importante per me e se lo chiedo ad altri ovviamente mi rispondono in modo stereotipato, io ho bisogno di sapere cosa pensa la gente, ho bisogno di un po' di verità.”

Un mucchio di parole, ben dette per carita', ma voleva sapere se qualcuno lo amava, in senso generico, se qualcuno lo aveva notato, come nella canzone dei Blues Brothers "we need somebody to love".

Voleva un po' di verita', Un po' di verità, e perché proprio a me la doveva chiedere?

Era come un tornado. Non li vedi arrivare nei soleggiati pomeriggi americani, poi improvvisamente l' aria si muove e vedi davanti a te una torre d' aria che viene dal nulla, che minacciosa quasi ti insegue, e devi decidere se andare a destra o a sinistra o stare fermo. E' una frazione di secondo.

Roberta andò incontro al tornado.

“La gente non è come si direbbe recettiva, la gente, non la capisce, pensa che lei sia pericoloso e poco affidabile, non si fidano di lei.” Rispose

“Non che lei lo sia, ma il problema è che lei agisce, come se non ci fosse un passato, una storia, la gente ha una storia e lei la dovrebbe rispettare. Per anni siamo stati gestiti da una specie di orco che rompeva le scatole a tutti per cose poco importanti, come i piccoli ritardi e le piccole cose, mentre non si curava del benessere delle persone, delle loro capacità e lei improvvisamente irrompe con queste idee nuove, senza spiegare, senza comunicare. E' tutto troppo veloce non la capiscono sta dando troppe cose per scontate.”

“Interessante, e cosa dovrei fare per la gente?” replicò. “Ora hanno un dialogo e non lo vogliono, dovrei tornare indietro, all'odiato Orco, come lo chiama lei?”

Il tono era rigido aveva chiesto, ma non voleva sapere, aveva trovato qualcuno con cui prendersela. Roberta c'era caduta, ancora come altre volte, si era messa nei guai come avrebbe detto suo padre.

“No, mi scusi, parlo a vanvera, è solo una cosa che mi ha detto qualcuno, ma non sono sicura, non ci badi.”

“La prego mi scusi veramente, mi sono lasciato andare, non volevo aggredirla, è che vorrei fare molto, sento che posso fare molto e la gente non recepisce, sto cercando di capire e francamente sono un po' arrabbiato, lei è la prima persona che mi dice qualcosa di concreto, è come se ci fosse un muro di omertà. Per me è incomprensibile.”

Il tono era chiaro gli dispiaceva davvero e aggiunse subito:“Senta, mi darebbe qualche idea, lei dice comunicare, ma cosa vuol dire comunicare per la gente di qua, io scrivo le comunicazioni, cerco di parlare al sindacato con sincerità e franchezza, cosa devo fare di più? Credo di capire che non basta.”

“Ci pensi per favore, ci pensi”

“Ma perché a me, perché lo chiede me” pensò ad alta voce ” non sono niente, non ho molti contatti.”

“Lei ha qualcosa, qualcosa di speciale!” replicò subito Accardi, anzi il dott.Accardi come tutti lo chiamavano in segno di deferenza.

Di speciale Roberta aveva molto, ma non c'era molto da rallegrarsi. Questo era quello che pensava. Ma come tutti gli incarichi prese sul serio quella richiesta e pensò per vari giorni a come il dott.Accardi avrebbe dovuto comunicare.

Lo aspettò, lo aspettò per più di mezz'ora. Non le era mai successo di aspettare qualcuno, almeno non lo ricordava.

Quando il dott. Accardi argivo, lei si alzò in piedi, e con tutta l'energia che aveva accumulato disse:

"buongiorno!"

Non era un qualsiasi buongiorno, era un risveglio, un'uscita da un lungo sonno, ma Accardi non se ne accorse.

"Buongiorno" rispose, con tono assente e poco interessato.

"Ho pensato un po' e credo di avere delle soluzioni al suo problema!"

Disse Roberta, sempre più entusiasta.

Accardi la guardo smarrito; problema, quale problema.

"Senta un po' Roberta, lei e' molto simpatica, ma non mi prenda in giro, io non ho un problema ne ho molti, e di piu', mi manderanno via per colpa di quel deficiente di Roneri!"

"E' un pazzo ne sta facendo un caso personale e se veramente blocca la fabbrica, mi manderanno via, non ho capito perche', lo ho coinvolto in tutto, lo ho informato di tutto, ma quello non molla, non molla, mi punta personalmente, ce l'ha con me e non so perché'!

Roneri, era il capo della Cigl, Roberta lo conosceva bene. Da piccola, quando suo padre era vivo aveva giocato a carte con lui tante volte, tressette e qualche solitario,

Li faceva ancora quei solitari, anche se i contatti con lui si erano fatti piu' radi, anzi inesistenti.

Roberta sapeva, Roneri partiva sempre con il seme che non aveva, non era importante se le regole non scritte del tressette dicevano che bisognava partire con quello che si aveva in mano, se giocavi in coppia con lui, te lo diceva all'inizio, voleva confondere gli avversari, non fare loro capire, interpretano le carte esattamente come noi”, diceva, bisogna variare un po', fare delle cose un po' diversamente, per vincere, era la sua regola, il suo modo di esistere.

Lei lo conosceva bene, quando si gioca in coppia con qualcuno si stabilisce un rapporto un po' speciale è un mix di personalità.

"Mi scusi, dottore, stavo solo cercando di rispondere a una sua domanda, ma avevo capito male."

Disse e se ne andò, lasciandolo soccombere a una giocata strana, una mano che solo un giocatore con antiche memorie avrebbe potuto capire.

 

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