BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 11/07/2005

AMERICA: STORIA FEMMINILE DI UN ESPATRIO

di Francesca Prandstraller

L’uso della narrazione è un tema che torna di frequente su Bloom (provate a cercare attraverso la finestra di ricerca del sito ‘narrazione’ e ‘storytelling’).

Scrivere storie è un dono, l’opportunità di far vivere al lettore vite che non ha vissuto. Allo stesso tempo, e forse prima di tutto, la scrittura è un lavoro su di sé, un modo di elaborare la propria esperienza di vita, un modo per comprendere chi siamo e dove siamo.

Questo testo vuole anche essere l’esempio delle narrazioni autobiografiche che Francesca Prandstraller e Barbara Quacquarelli dell’Universita` di Milano Bicocca si propongono di raccogliere con il progetto Straniere: storie di donne espatriate daprotagoniste.

Francesco Varanini

Quando mio marito e` tornato a casa quella sera di settembre e mi ha riferito della proposta dell’azienda di trasferirci negli Stati Uniti per tre anni, ricordo di aver provato un gran senso di angoscia. E di eccitazione al tempo stesso. Era un po’ che parlavamo del fatto che sarebbe stato interessante provare a vivere in un altro paese, ma erano solo fantasie e ci sentivamo anche un po’ fuori tempo massimo, trentasette anni io e trentanove lui, una figlia di dieci e una di quattro.

Il mio lavoro, dopo anni di azienda nelle risorse umane e una nuova carriera come consulente e professore a contratto all’università, mi era costato tenacia e fatica. Dopo la nascita della seconda figlia l’azienda era diventata troppo pesante. Un marito manager, che per di piu`, lavorando in un’altra città, spendeva l’equivalente di una settimana extra di lavoro al mese al volante, non aiutava certo a gestire la famiglia. A parte i fine settimana, ero quasi di fatto un single parent.

Partire significava per mio marito una eccezionale sfida e una grande opportunità di crescita professionale e mi rendevo conto che per le mie figlie era un’occasione irripetibile di uscire dalla vita prevedibile della provincia italiana e diventare non solo bilingui, ma aperte ad una cultura diversa. Da parte mia ero affascinata e terrorizzata dalla prospettiva al tempo stesso. Non solo perché, essendo un libero professionista, avrei chiuso la mia attività senza garanzie di poterla un giorno riprendere, ma anche perché il distacco dalla mia famiglia di origine avveniva in un momento particolarmente difficile che i miei genitori stavano attraversando.

Dopo lunghe discussioni la prima decisione era presa: saremmo andati a Washington D.C. per vedere il posto e capire meglio gli aspetti pratici e logistici del trasferimento e per valutare, anche emotivamente, se l’ambiente ci sembrava adatto ad accoglierci. Ricordo che arrivammo in un giorno di pioggia torrenziale e cielo plumbeo e il mio primo istinto fu di scappare. I giorni seguenti invece furono magnifici, soleggiati e tersi, tipici dell’autunno nella East Coast. La città era bella e verde, le persone dell’azienda simpatiche e il nostro inglese niente affatto male.

Durante il viaggio di rientro in Italia decidemmo che ci saremmo trasferiti. Ma siccome i tempi aziendali non coincidono mai con quelli della vita di chi ci lavora, mio marito avrebbe dovuto iniziare in gennaio, mentre io avrei aspettato giugno e la fine della scuola dato che mia figlia maggiore frequentava la quinta elementare ed era dunque impossibile spostarla durante l’anno scolastico. Considero anche quei lunghi sei mesi di solitudine parte dell’esperienza di espatrio, perché, a parte due viaggi a Washington di una settimana per trovare la casa e per arredarla prima del trasloco definitivo, quel tempo di attesa e` stato duro e amaro sia per me che per le bambine. Mia figlia piccola non capiva cosa stava succedendo, ma la grande piangeva spesso di notte pensando di dover lasciare la casa, le amiche e i nonni per tuffarsi in un mondo sconosciuto che parlava una lingua a lei del tutto estranea. Io lavoravo per chiudere in tempo tutti i progetti di cui mi occupavo, rifiutavo i nuovi incarichi e vivevo nell’attesa di iniziare la nostra nuova vita con un misto di amarezza, eccitazione e angoscia che si nutriva della lunga attesa. Avrei preferito mille volte decidere e partire subito. Guardavo tutto con uno sguardo a termine.

Per di piu` dovevo occuparmi dall’Italia della cosa piu` importante di tutte: l’iscrizione a scuola delle figlie. Per fortuna vivevo nell’epoca di Internet! La qualità dell’istruzione per le bambine era uno dei pochi vincoli che avevo posto a mio marito e lui all’azienda. Con poche eccezioni, le scuole pubbliche negli Stati Uniti, e a Washington in particolare, non raggiungono uno standard minimo accettabile per noi europei e dunque la scelta della scuola privata era inevitabile. Avevamo individuato la scuola internazionale come il nostro target privilegiato, ma c’erano dei problemi. Innanzitutto a scuola non ci si iscrive: si fa domanda e si entra solo se si supera una dura selezione competitiva con molti altri aspiranti. Inoltre una delle mie figlie doveva entrare al primo anno della Middle School (l’equivalente della prima media) che era una delle classi piu` richieste, dato che molte scuole locali, anche molto prestigiose, arrivano solo fino alla quinta elementare. La competizione era feroce. La piccola, invece, doveva frequentare l’ultimo anno di asilo (kindergarten) ma la scuola internazionale offriva classi solo in spagnolo o francese per avviare i bambini (americani) al bilinguismo, che sarebbe continuato per l’intero curriculum di studi. Ma mia figlia aveva bisogno di imparare l’inglese! Quest’ultimo problema si risolse abbastanza facilmente optando per un’altra scuola internazionale piu` piccola che, avendo meno richieste, ci accolse subito e le cui lezioni si svolgevano per metà in spagnolo e per metà in inglese. Pero` cosi` avremmo avuto le figlie in scuole diverse: cominciavamo già a complicarci la vita. L’altra situazione invece era piu` complessa e, per inesperienza e ignoranza delle regole del gioco, avevamo anche fatto un errore madornale, del quale ci rendemmo conto solo quando ormai era tardi per rimediare. Infatti la domanda alla scuola da noi prescelta era stata l’unica che avevamo inoltrato. E` invece assolutamente necessario crearsi delle alternative con domande in piu` scuole, ma i termini di presentazione delle domande erano già tutti scaduti. Ecco la prima cosa che dovevo imparare dell’America: le dead lines sono una cosa molto seria. Dopo aver spedito tutte le pagelle di tutti i quadrimestri di mia figlia dalla prima alla quinta elementare, averle fatto sostenere un esame scritto arrivato via posta, e aver scambiato decine di email con l’ufficio della scuola che cura le domande di iscrizione, cominciava l’attesa. Fortunatamente, ad Aprile arrivo` la conferma dell’ accettazione all’ambita scuola, pur non parlando la bambina una sola parola di inglese.

Finalmente, dopo aver spedito solo le cose piu` care, libri, dischi, fotografie e pochi mobili, il 19 giugno del 2000 siamo partiti. E arrivati lo stesso giorno (grazie alla differenza di fuso orario) nella nostra nuova, bellissima casa in mezzo al verde nella torrida estate washingtoniana.

Ho amato subito quella casa, e` stato il mio rifugio e il mio punto di partenza e di arrivo. Era una casetta americana di legno, con il giardino, una delle dieci nuove costruzioni raccolte attorno a una stradina privata come quelle che si vedono nei film. Tra i vicini di casa americani c’erano alcune giovani coppie con figli con cui abbiamo legato subito. I vicini in generale sono molto riservati ma allo stesso tempo molto ospitali. Appena siamo arrivati sono venuti a presentarsi, a chiacchierare e a offrire aiuto. Ero stupita. Altro che i nostri condomini dove non sai neppure chi vive sotto di te da dieci anni!

Era cominciata la nostra nuova vita americana. L’estate trascorse calda, umida e assolata come fase di adattamento, specialmente per le bambine che frequentavano i summer camps nelle scuole dove a settembre avrebbero iniziato a studiare. La lingua era una grande barriera per loro e in quel periodo dipendevano da noi completamente. La piccola stava davanti alla televisione guardando cartoni animati in inglese e io la lasciavo fare perché mi era stato detto che era un modo rapido per imparare. La grande visitava la città e i dintorni durante i corsi estivi e stava in camera a giocare con un videogioco per gran parte del pomeriggio. Non avevano amici e si sentivano un po’ sole. Era un’esperienza familiare totalizzante anche per me. In Italia infatti il tessuto di relazioni affettive, familiari e amicali in cui eravamo inseriti non rendeva necessaria la mia presenza e il mio supporto costante, ma qui eravamo solo noi quattro e tutto era sulle mie spalle per gran parte del tempo. Anche il rapporto con mio marito era piu` intenso, reso anche piu` vivo dalla lunga lontananza che avevamo affrontato. Pian piano mi rendevo conto che per la prima volta nella mia vita mi sentivo madre piu` che figlia, senza la mia di mamma a consigliarmi e giudicarmi,completamente autonoma e responsabile della mia famiglia in una situazione di estraneità che richiedeva la massima concentrazione. Ricordo che mi sentivo spesso come se fossi in un acquario, non completamente focalizzata e stabile in un ambiente che mi lanciava decine di stimoli diversi e di situazioni nuove e inaspettate da affrontare ogni giorno.

Due giorni dopo il nostro arrivo, ancora frastornati, fummo invitati a una festa da un italiano che mio marito aveva conosciuto attraverso una comune conoscenza a Londra,e che viveva a Washington da quattro anni con una simpatica e bella moglie franco-marocchina. Alla festa c’era gran parte della comunità italiana di Washington e noi fummo subito accolti con curiosità e cordialità. In particolare quella sera feci amicizia con una signora italiana della mia età col marito diplomatico che viveva nel nostro stesso quartiere. Da quattro anni stava a D.C., perciò conosceva tutto e tutti, e il suo aiuto mi fu preziosissimo. Dico sempre che in pochi giorni mi insegno` della città quello che ci avrei messo sei mesi a scoprire da sola: negozi, quartieri, svaghi, percorsi, medici ecc. Eh si`, perché la cosa piu` faticosa e di prima necessità era la ricostruzione di tutti i basilari riferimenti della vita quotidiana, dal dottore di fiducia, al dentista,dall’ortodontista per le bambine, dai corsi di nuoto alla palestra, giu` giu` fino al parrucchiere. Un altro aiuto fondamentale lo ricevevo quasi quotidianamente dalla segretaria di mio marito, una simpatica signora ebrea molto materna a cui chiedevo aiuto nelle situazioni difficili, come parlare al telefono con un operatore nero di cui non capivo l’accento o spiegarmi le regole di comportamento accettate. Eravamo i primi stranieri mandati in un’azienda tutta di americani e la situazione era nuova anche per loro, ma devo dire che ci sono stati tutti sempre del massimo aiuto e ci hanno sempre sostenuto per quanto potevano.

Passavo ore al supermercato cercando di raccapezzarmi tra centinaia di prodotti, di scegliere, di memorizzare e creare delle routine. Imparai presto a non usare i sandali e a portarmi dietro il maglione dopo che una volta avevo dovuto abbandonare il carrello mezzo pieno e correre fuori quasi assiderata dall’aria condizionata che in America funziona a livelli polari (come del resto il riscaldamento in inverno e` africano). Ero stupefatta dalla quantità di sacchetti di plastica che mi davano, ma anche ammirata dalla perfetta efficienza di un sistema che tratta il cliente come qualcuno da servire e aiutare e non da maltrattare e spennare. Quando mi dissero che qualsiasi cosa comprassi, da un vestito alla lavatrice, potevo ritornarlo pochi giorni dopo e senza motivazione, non volevo crederci. Eppure funzionava davvero cosi`.

In quel periodo di adattamento esplorammo la città, visitammo monumenti e musei, imparammo a guidare all’americana (cioe` piano) e a girare la città. Andavamo al ristorante scegliendo ogni volta un cibo di paesi diversi (a Washington c’e` qualunque tipo di ristorante etnico), andavamo al cinema dove non capivamo proprio tutto ma ci divertivamo lo stesso. Nonostante la costante sensazione di straniamento non avevo mai nostalgia dell’Italia, ero molto presa nell’esperienza della diversità e nel cercare di capire come funzionavano le cose. Mi accorgevo che noi europei arriviamo in America credendo di sapere già tutto perché guardiamo quegli stupidi serial televisivi e ci sentiamo anche un po` superiori, ma scoprivo ogni giorno la complessità e la infinita varietà di un mondo molto piu` articolato di quanto immaginassi e misuravo allo stesso tempo le differenze culturali che ci separano.

Il primo anno di soggiorno l’ho speso ad imparare. La lingua innanzitutto. Sebbene il mio livello di conoscenza dell’inglese fosse già elevato, mi mancavano la fluidità nel parlare e la ricchezza di vocabolario scontate nella tua lingua madre. Mi sentivo spesso frustrata dal fatto che io, che ero sempre stata una persona molto articolata, spesso non riuscivo a comunicare quello che pensavo o sentivo se non con una rudimentale approssimazione. Le sfumature mi sfuggivano per mancanza di vocaboli. Ero furiosa. Cominciai a leggere moltissimo e a sottolineare e poi studiare le parole nuove; andavo a fare conversazione con un vecchio insegnante due volte la settimana e ascoltavo sempre la radio, persino la pubblicita`. Nel frattempo anche le bambine imparavano, ma loro a una velocità incredibile. A Natale già parlavano e capivano molto, nel giro di un anno erano alla pari dei compagni, specialmente la piccola che con il suo perfetto accento washingtoniano era indistinguibile dai suoi coetanei nati in America. Quando hanno cominciato al cinema a ridere per battute che io e mio marito afferravamo solo in ritardo ho capito che erano bilingui. Ma qui cominciava il problema inverso, quello della lingua di origine. Mi sentivo molto orgogliosa di loro, ma anche conscia della necessità di mantenere loro la perfetta conoscenza dell’italiano, anche perché il nostro orizzonte di permanenza era limitato a tre anni. Durante tutto il soggiorno questo e` stato uno sforzo non da poco, visto che dopo i primi mesi la lingua trainante diventa quella della scuola e della socialità e che entrambe tendevano a parlare inglese tra loro e con noi. Incredibile! Se non lo avessi visto accadere sotto i miei occhi non ci avrei mai creduto. Ho insegnato a mia figlia piu` piccola a leggere e scrivere in italiano la sera e le ho tormentate entrambe con lezioni, ripetizioni e temi per tutto il tempo. Penso pero` che ne sia valsa la pena, visto che ora sanno perfettamente due lingue e ne studiano una terza, un vantaggio non da poco nel mondo di oggi.

Ero anche molto presa dalle esperienze della vita quotidiana, anche se dentro di me si agitava l’inquietudine di chi ha perso il suo ruolo sociale e lavorativo. Ma i primi tempi avevo troppo da scoprire e capire per preoccuparmi eccessivamente. La vita in America e` molto organizzata e io mi ci sono trovata subito a mio agio. Fare la spesa, come ho detto, e` facile e in quasi tutti i supermercati c’e` una persona che ti mette i sacchetti in macchina. Tutti i conti si pagano via posta, inserendo l’assegno nella busta prestampata che arriva con la bolletta e rinviandola dalla propria cassetta della posta, dove il postino mentre deposita la posta in arrivo, preleva quella in uscita. Geniale! I francobolli adesivi si comprano al supermercato insieme a tutto il resto. Ogni situazione della vita sociale e` regolata perciò nessuno si sogna di saltare la coda per comprare il caffe`, il biglietto del cinema, lasciare la roba sporca in lavanderia e cosi` via. Nessuno ti frega il parcheggio, invade la tua privacy, tiene la musica a tutto volume. Almeno non nella zona “buona” della citta`, quella in cui vivevamo noi. Gli inviti a cena o a feste sono spediti con grande anticipo e all’inizio mi stupivo sia di dover rispondere due mesi prima, sia di trovare sul biglietto l’ora di inizio e anche quella di fine del party. Ma poi ho cominciato ad apprezzarlo, si adattava perfettamente ai miei ritmi. Rispetto all’Italia e` tutto anticipato: si cena prestissimo, gli spettacoli iniziano presto e si va a letto a ore decenti. Mio marito per tre anni e` venuto a casa alle sette e abbiamo cenato insieme come una vera famiglia. Non mi pareva possibile. Credo che la mia mentalità veneta sia stata un buon passpartout, perché in molti aspetti assomiglia e si adatta perfettamente a quella americana: order and hard work.

La nostra vita sociale in quei tre anni e` stata molto intensa. Siamo andati a concerti, feste, cene a ritmo costante. Abbiamo conosciuto moltissime persone interessanti e care provenienti da tutto il mondo. Il nostro gruppo di amici comprendeva (e tutt’ora comprende, gli amici veri non si perdono) inglesi, spagnoli, olandesi, americani, francesi, haitiani e cosi` via. Viaggiavamo ogni volta che avevamo qualche giorno libero per veder e conoscere il paese il piu’ possibile. Io e le ragazze abbiamo sempre passato il mese di luglio in Italia coi nonni e gli amici di qui, ma le vacanze tutti insieme in agosto le abbiamo trascorse sempre negli U.S.A., visitando molte delle zone piu` belle da soli o in compagnia di amici. Quando rientravo nella mia citta` ero contenta di rivedere tante persone care, ma dopo pochi giorni affiorava anche un certo senso di irrequietezza. Mi sembrava che tutti fossero rimasti gli stessi mentre io mi sentivo profondamente cambiata dall’esperienza che stavo vivendo, proiettata verso altri orizzonti, con problemi, stimoli e aspettative nuovi. Stavo ben attenta a non condividere questo sentimento con nessuno, sapevo quanto sarebbe apparso snob agli occhi di tutti. Eppure era li`, e spesso c’e` tutt’ora, perché credo di aver imparato che nelle esperienze di espatrio il rovescio della medaglia sta proprio nel fatto che tu cambi alla velocità della luce mentre gli altri restano piu` o meno fermi. Resti per sempre una persona che non appartiene piu` a un solo luogo, una sorta di estraneo in ogni posto.

Washington mi piaceva sempre di piu`, cosi` verde, immersa nei boschi, silenziosa eppure piena di offerte culturali e artistiche. Era bella in ogni stagione, negli autunni tersi e limpidissimi dai mille colori di foglie, con la neve, il ghiaccio e il freddo secco, in primavera, tutta fiorita e verdeggiante. L’estate la passavamo di solito per metà in Italia e per metà in giro, evitando dunque l’afa appiccicosa della East Coast.

Man mano che le routine andavano consolidandosi e la rete di relazioni amicali e sociali si rafforzava, cominciavo ad essere sempre piu` inquieta. In vita mia avevo sempre lavorato guadagnandomi una mia identità professionale ed umana ben precisa. Adesso ero solo la moglie di e la madre di, nient’altro. Vivevo di riflesso. La mia piu` grande frustrazione era quella di aver dovuto abbandonare la mia attività lavorativa per seguire mio marito in un paese dove non avevo neppure il permesso di lavoro. Il nostro visto non lo prevedeva. Non ero nessuno. Mi resi conto ben presto di essere caduta in una profonda crisi di identità. Per qualche mese fare la mamma e vivere tutto come una lunga vacanza era stato divertente, ma ben presto cominciai a smaniare per trovare la mia strada, per sfruttare appieno la situazione irripetibile in cui mi trovavo. Mi iscrissi a un paio di corsi “graduate” come studente non di laurea in una buona università di Washington e conobbi altri studenti della mia età. Il sistema universitario americano e` costruito apposta per poter studiare lavorando e per ricominciare a qualunque età. Pensavo che, nonostante avessi già molte qualificazioni, studiare seriamente per una laurea sarebbe stata una possibilità interessante, un’occasione di vivere dall’interno la vita del campus e un modo per portarmi a casa un titolo di studio, una prova tangibile del mio impegno negli States. Iniziai a guardarmi intorno, a esplorare i diversi programmi graduate nelle numerose università di Washington e, alla fine, feci domanda alla Graduate School of Communication, Culture and Technology di Georgetown University. Sapevo che era considerata la migliore delle università cittadine e che la sua fama si estendeva ben oltre, perciò non mi facevo grandi illusioni. Invece fui accettata. Dovevo iniziare a settembre 2001. Al rientro da una magnifica vacanza alle Hawaii ero carica, serena e pronta ad iniziare. Pochi giorni dopo, mentre mio marito era in Canada per lavoro, Washington e New York furono colpite dagli attentati terroristici piu` gravi della storia d’America. Il terrore che provai quel giorno fu davvero immenso. Ero sola, in un mondo che sembrava impazzito e dovevo proteggere le mie bambine. Tutte le comunicazioni erano interrotte, stavo davanti alla televisione incredula e scrivevo email, dato che internet era l’unico legame col mondo che non aveva smesso di funzionare. Mio marito torno` cinque giorni dopo guidando quattordici ore per raggiungerci. Gli aerei erano tutti a terra.

Da quel momento fu un susseguirsi di paure e angosce. Alla situazione di paranoia e terrore i cui la città era caduta si aggiunse subito il caso delle buste contenenti polvere di antrace che investi` Washington come un ciclone. Anche il nostro ufficio postale fu contaminato e per mesi aprimmo la posta in giardino e con i guanti di gomma addosso. Di notte sentivo i caccia che pattugliavano costantemente il cielo sopra la città, tutti sembravano frastornati, la vita era in tono minore. Non si andava piu` al cinema ne` fuori a cena, per mesi l’umore generale, compreso il nostro, rasento` la vera e propria depressione collettiva. Andavo all’università con il cuore pesante e la mente piena di angosciosi pensieri, ma nonostante tutto mi piaceva, era un mondo affascinante, mi si era aperta una nuova dimensione. Iin questa situazione non ho mai pensato di tornare in Italia prima.

Studiare, incontrare altri studenti intelligenti e stimolanti, professori preparatissimi e spesso fuori dal comune, lottare per mantenere le scadenze, scrivere e andare a lezione, avere di nuovo un luogo e uno ruolo a cui appartenevo di diritto, completamente mio, mi restituivano l’identità perduta, la mia collocazione nel mondo, la stima di me. I due anni seguenti sono stati intensi, felici, faticosi, eccitanti, tesi. Le paure per il terrorismo, il cecchino che uccideva a caso, la guerra in Irak, si mescolavano con la sensazione di libertà che provavo, con la consapevolezza che stavo facendo qualcosa di molto bello, con la gioia immensa di studiare cose nuove in un’altra lingua, di creare legami con persone interessanti, di appartenere alla comunità di Georgetown, di essere me stessa di nuovo.

Verso la metà del mio percorso universitario per un periodo sembro` che la nostra permanenza dovesse allungarsi ad almeno cinque anni e ne eravamo tutti felici. Dopo i grandi sforzi iniziali tutta la famiglia aveva trovato la sua collocazione compiuta: amici, scuola, abitudini, ci sentivamo perfettamente inseriti e a nostro agio. Alcune delle relazioni che avevamo sviluppato erano (e restano a tutt’oggi) amicizie profonde e sincere. Washington ci sembrava casa e, pur tornando in Italia per le vacanze due volte l’anno, non sentivamo nostalgia. Io ero in procinto di finire un prestigioso Master e, grazie a questo, di trovarmi un lavoro.

Invece, verso l’inizio del 2003, la carriera di mio marito arrivo’ ad una svolta cruciale. Gli fu chiesto di rientrare in Italia in un ruolo di vertice, l’opportunità di una vita. Mi rendevo conto che non poteva rifiutare, che non c’era senso negli sforzi di tanti anni se non avesse accettato. Ancora una volta i miei sentimenti erano duplici: ero orgogliosa e felice per lui, se lo meritava davvero; allo stesso tempo ero profondamente triste e angosciata all’idea di rientrare, e per di piu`, in una città che non era la nostra, dove non conoscevamo praticamente nessuno e che non ci attraeva per niente. Con il cuore pesante finii i corsi e la tesi e mi preparai per il trasloco. Non venni neppure a scegliere la casa. Lo strappo mi sembrava prematuro ed ingiusto. Proprio adesso che mi ero inserita cosi` bene e che avevo lavorato tanto per ricrearmi un’identità, ancora una volta erano le esigenze di mio marito a prevalere. Anche le mie figlie soffrivano all’idea di un cambiamento cosi` grande dopo soli tre anni, la piu` piccola specialmente. Alla sua età tre anni sono piu` di metà della vita e le sue radici americane erano profonde. Dopotutto aveva cominciato dall’asilo!

Il rientro in Italia e` stato davvero scioccante, forse proprio perché le mie resistenze erano enormi. Ho trascorso il primo anno in un inferno, mi sentivo un alien piovuto dal cielo. Credo di aver rasentato la depressione. La nuova città non mi piaceva, mi ci perdevo, non sopportavo il rumore continuo, la mancanza di verde, lo smog asfissiante. Non avevo energie ma dovevo affrontare tutte le necessarie attività di ricostruzione della vita quotidiana per far funzionare la famiglia. Avevo sempre il nodo alla gola, ma dovevo essere forte per sostenere le ragazze. Ero molto sola. Ovviamente mio marito non c’era mai. Da subito era stato risucchiato nell’abitudine tutta italiana di stare in ufficio sino a tardi e viaggiava molto. Nonostante la posizione privilegiata in cui vivevamo ero sempre triste, piena di rabbia e di aggressività. Odiavo la casa che avevamo affittato, la sentivo fredda ed estranea. Sarei ripartita subito senza rimpianti. Strano come si sottovaluti l’impatto del rientro. Tutti pensano che siccome torni nel tuo paese devi essere felice. E invece non appartieni piu`, non riesci a sopportare tante cose, piccole e grandi, (dalla sporcizia nelle strade alle macchine parcheggiate sui marciapiedi, dalla maleducazione all’assenza di regole di convivenza civile, dalle code in posta alla piu` stupida burocrazia e cosi` via) forse perché hai visto che si possono fare in un altro modo, piu` efficiente, meno alienante. La cosa peggiore e` che nessuno ti capisce. Solo chi l’ha vissuto ha un’idea di cosa ti accade dentro, gli altri ti vedono solo come una snob che decanta un mondo che non conoscono ne` immaginano. Mi mancavano gli amici, la vita tranquilla e allo stesso tempo stimolante di Washington, gli scoiattoli in giardino, la mia casetta nel verde dalle cui finestre spesso vedevo i cervi, le passeggiate nei boschi e le mostre alla National Gallery, il torneo di calcio di mia figlia, la scuola, le feste, la mia libertà. Mia figlia piccola dopo due mesi dal rientro ha cominciato ad avere l’asma: inquinamento e nostalgia facevano lega.

Oltretutto, tornando in una città sconosciuta, ero di nuovo alle prese con il problema della mia collocazione professionale. Sembrava che a nessuno interessasse il fatto che avevo conseguito un master in una delle migliori università americane, e il lavoro di consulente si basa soprattutto sul network di relazioni che era praticamente inesistente per me in questa città. Mi sentivo frustrata e avvilita. Alla fine del primo anno ho subito un intervento chirurgico urgente per una vecchia ernia lombare che era letteralmente esplosa. Nessuno mi toglie dalla testa che il mio fisico aveva reagito cosi` allo stress e all’infelicità del rientro. Adesso penso che quel periodo sia stato una sorta di “elaborazione del lutto”, che le due situazioni siano molto simili per carico emotivo e tempi di ripresa.

Dopo due anni mi sento piu` serena. Ancora non ho ricominciato a lavorare ai ritmi di un tempo, ma ho alcune collaborazioni interessanti. La città continua a non piacermi, ma le routine e le poche nuove amicizie smussano gli spigoli. Almeno non mi perdo piu`. Torno a Washington tre volte l’anno e ci passo almeno un mese d’estate. Sono sempre in contatto coi miei amici per telefono o email. La nostalgia e` sempre dentro di me, ma almeno adesso ho smesso di essere qui e di voler costantemente essere li`, di sentirmi una persona lacerata. Ma se mi dicessero che si torna indietro, stapperei lo champagne!

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