BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 2/10/2006

ATTENTA, LINDA! O DELLA FIDUCIA IN AZIENDA
Una storia vera, con alcuni approfondimenti seguendo l'analisi transazionale

di Simonetta Pugnaghi

Definirei Linda una bella persona.Da giovanissima ha sposato un uomo molto ricco, ricco per via del padre costruttore edile. Ha fatto subito due figlie, poi a quarant’anni un terzo. Dico che è una bella persona per alcuni motivi, ad esempio: pur avendo tanti soldi e usandoli con larghezza non li impiega come metro di giudizio, è affettuosa e alla mano e ogni tanto prepara un caffè per la sua cameriera, ma senza condiscendenza e falsi egualitarismi, è una grande lavoratrice, è concreta, creativa, piena di iniziativa, sa sbagliare e imparare dai propri errori. Ha anche le sue insicurezze e le sue rigidità, come tutti. Da qualche anno, il marito ha intrapreso una attività commerciale, apre negozi nelle principali città della regione, si espande a vista d’occhio. Linda lo segue, si occupa un po’ di tutto, dagli acquisti, che sono una bella responsabilità, fino a mettere la merce sullo scaffale. È sempre lui il capo, lei è solo un “manovale di fiducia”.

Dopo 25 anni di matrimonio il ricco marito se ne va di casa con una ragazza di 20 anni più giovane: commessa in uno dei loro negozi, ha l’età della figlia maggiore. Lindaattraversa un periodo veramente difficile, pesa 44 chili, non esce di casa, prende pastiglie e dorme tutto il giorno.

Il marito l’ha estromessa da tutte le sue attività, la battaglia legale per la divisione dei beni e la custodia dei figli infuria.

Sono i dipendenti del negozio della città in cui Linda vive che la risvegliano dallo stato di disperazione e torpore. Si radunano e vanno a dirle che vorrebbero che restasse lei come titolare, la preferiscono al marito perché di lei si fidano e sanno che è brava. Linda si riscuote, lotta e ottiene il negozio, riprende energia, lavora tanto e ottiene ottimi risultati. Anche senza il marito l’attività decolla, Linda si dimostra autorevole e capace. Lo sapevano tutti, tranne forse lei stessa.

Lo sviluppo del lavoro la porta a cercare nuovi dipendenti. È difficile, non si trovano persone con esperienza, i dipendenti costano e secondo Linda non danno in proporzione. In seguito a diversi episodi minori, Linda accumula delusione per il comportamento di alcuni di loro.

Una sera, una commessa e un magazziniere la avvicinano: attenta Linda! sta succedendo qualcosa di brutto, le dicono. Linda non si accontenta di questo avvertimento generico, vuole sapere di più, li incalza, e i due dopo un po’ i due ammettono che il problema è all’interno. Due commesse, tra le più anziane ed esperte, la derubano sistematicamente, togliendo denaro dalla cassa e merce dal magazzino.

Incontro Linda qualche giorno dopo. Mi è capitata una cosa orrenda, racconta, proprio le due persone di cui mi fidavo di più, pensa, dopo tutto quello che ho fatto per loro. Sono delusissima, stroncata. Linda è … schifata, ritrova parole ed espressioni simili a quelle con cui descriveva il tradimento del marito. Sta maturando un pregiudizio forte contro tutti i dipendenti, dice categoricamente che non ci si può fidare di nessuno, che è inutile fare sforzi e cercare di sviluppare l’azienda, tanto … alla fine ti ritrovi sempre cornuta e mazziata , mi fa, anche dai dipendenti!

Ma Linda è una bella persona. Basta una sola frase a riportarla in una prospettiva più realistica: ma scusa, le dico, non erano dipendenti anche i due che ti hanno avvertita? Hai ragione! Non ci avevo pensato, dice. Sono stata un po’ esagerata, sarebbe come pensare che tutti gli uomini sono traditori … e poi sono stati proprio i miei dipendenti a ridarmi fiducia dopo la batosta. Già, le rispondo, comunque puoi valutare se non sei stata un po’ ingenua e se non è il caso di controllare un po’ di più.

Allora in azienda ci vuole fiducia, reciproca, tra tutte le persone che ci lavorano. I collaboratori che non si fidano del titolare lavorano in modo distaccato, perfino cinico. I titolari, i responsabili a qualunque livello, che non si fidano non delegano e nel tempo diventano un ostacolo allo sviluppo e all’innovazione. Ma in azienda avere fiducia non è fidarsi ciecamente e non c’è delega (efficace) senza controllo. La fiducia non è ingenuità, a ciascuno spetta trovare la linea, qualche volta sottile, che le divide.

E poi c’è la fiducia in se stessi, che non è cecità verso i propri limiti, ma la fondata sensazione che siamo persone di valore, in grado di affrontare bene la vita e di cavarcela negli inevitabili imprevisti, tanto della vita lavorativa che di quella personale. Felice chi lavora con persone che hanno fiducia nelle proprie risorse e capacità: sono persone che hanno la giusta fiducia verso gli altri e rendono l’ambiente di lavoro positivo e nutriente.

E la storia di Linda potrebbe finire qui. Chi ha ancora voglia di leggere trova di seguito alcuni approfondimenti, che aiutano a rileggere la dinamica fiducia – sfiducia e a rifletterci su, cercando un proprio equilibrio.

Cominciamo con l’etimologia della parola fiducia. Fiducia: dal latino fìdere – aver fede. Fede: dal latino fides, a sua volta dal greco feithè. La radice fid o feid equivale alla greca peith, che è la base di persuadere – avvincere – legare – credere (1) . Ben prima che un significato religioso dunque l’origine della parola indica l’idea di persuasione.

La fiducia in se e negli altri, la persuasione che gli esseri umani hanno al fondo caratteristiche positive e la capacità di evolvere e migliorare, è un tema dominante delle psicologie umanistiche, quelle che appunto mettono al centro la persona, le sue potenzialità e risorse. Rispetto alla psicoanalisi, che all’inizio del novecento scopre la potenza dell’inconscio, e la successiva scuola comportamentista, che mette a fuoco l’importanza dell’ambiente sociale e dell’apprendimento, dagli anni ’50 in poi le psicologie umanistiche fanno un passo avanti: certo che l’influenza ambientale e delle forze inconsce sono importanti, ma non sono predeterminanti, non costituiscono un “destino” già segnato. La persona può modificare se vuole il proprio percorso di vita, perché di base ne ha le risorse.

Con l’Analisi Transazionale o AT, che delle psicologie umanistiche fa parte, il tema della fiducia viene sviluppato in modo particolarmente immediato ed efficace anche per i non addetti ai lavori, l’immediatezza è del resto tra le caratteristiche principali di questa scuola (2) . In AT parliamo di okness (3) , intesa come sentirsi ok, avere autostima, fiducia nelle proprie capacità pur conoscendo i propri limiti, e intesa anche come fiducia verso gli altri, con i quali è possibile e positivo instaurare un rapporto paritetico, dal punto di vista umano. Secondo l’AT, sin dalla primissima infanzia ci formiamo alcune convinzioni di base che riguardano l’okness, dette anche, appunto, posizioni esistenziali. Le conserveremo senza esserne consapevoli anche nell’età adulta e condizioneranno i nostri atteggiamenti, scelte, convinzioni, relazioni interpersonali. Anche Linda, suo marito, i dipendenti, insomma i diversi personaggi del raccontino hanno la propria posizione esistenziale prevalente, una propria okness, che agisce e guida, sebbene loro non lo sappiano.

Quali sono e come nascono le nostre posizioni di base, la nostra okness? Da bambini siamo deboli, dipendiamo totalmente dagli adulti per la nostra sopravvivenza, non conosciamo niente del mondo, e nemmeno di noi stessi. In queste condizioni, sviluppiamo opinioni sul valore di noi stessi, degli altri, e sul mondo - la parola opinione in senso lato, però già a pochi mesi si sviluppano i nuclei di convinzioni che ci ritroveremo poi. Queste opinioni possono non corrispondere alla realtà, ma si radicano in grande profondità e rappresentano per il bambino sicurezze: ogni volta che accade qualcosa il bambino “legge” la realtà in modo che confermi le sue certezze e dalla conferma sentirsi rassicurato.

In AT, le posizioni di base si esprimono in un linguaggio molto semplice e si articolano in 4 possibilità:

  1. io sono ok, tu, gli altri, il mondo sono ok (opinione positiva su di sé e sull’altro);
  2. io sono ok, tu, gli altri, il mondo non sono ok (opinione positiva su di sé e critica sull’altro, è una posizione tendenzialmente aggressiva);
  3. io non sono ok, tu, gli altri, il mondo sono ok (opinione critica su di sé e positiva sull’altro, è una posizione tendenzialmente passiva);
  4. io non sono ok, tu, gli altri, il mondo non sono ok (e qui di solito è un po’ un problema, per usare un eufemismo).

Le 4 posizioni si schematizzano usando il segno + per ok e il segno – per non ok.

Di solito, ognuno vive tutte e 4 le posizioni esistenziali, ma in percentuali diverse e una prevalente.

Ad esempio potremmo descrivere la nostra giornata con un grafico a “torta” evidenziando quanto tempo passiamo in ogni posizione, dal momento che se siamo in una non possiamo essere nell’altra. In genere, la quarta è contingente, mentre secondo alcuni esperti la prima, con cui tutti nasciamo, resta spesso in secondo piano, poiché anche venendo al mondo in una famiglia accogliente e attenta, il mondo e gli altri sono talmente potenti e sconosciuti che il bambino ne sceglie una delle due o tre successive. Crescendo, ci riappropriamo anche della prima, ma è una conquista e allargarne l’area nella nostra vita è un impegno.

La “torta” di Linda sul lavoro, ormai è chiaro, potrebbe essere questa oggi (si tratta comunque di una rappresentazione grafica e non di una misurazione):

 

Mentre durante la depressione e prima di tornare al lavoro, la ripartizione di Linda era probabilmente un’altra:

 

A seconda quindi delle situazioni nella nostra vita possiamo modificare il nostro approccio, anche se generalmente abbiamo una posizione prevalente, che si evidenzia con maggiore costanza delle altre: - + nel caso di Linda.

Crescendo, impariamo e utilizziamo strategie di relazione con noi stessi e gli altri per confermare le nostre opinioni nucleari, le nostre posizioni di base preferite. Ovviamente non a caso ci scegliamo mariti – mogli, compagne – compagni e non a caso caratterizziamo tutte le altre relazioni importanti, incluso quelle sul lavoro. Le nostre non casuali scelte sono originate dalla ricerca di condizioni che confermano la posizione esistenziale di base, ma ciò non significa ovviamente che ne siamo consapevoli, tutt’altro, anche se molte persone esaminando le proprie relazioni si accorgono di alcune costanti, di “meccanismi” e situazioni ripetitive e cominciano il percorso verso una più chiara consapevolezza, premessa necessaria alla crescita personale. Del resto, almeno un primo livello di auto conoscenza non è così difficile: di solito la maggior parte delle persone, e probabilmente anche chi ci sta leggendo, è in grado di riconoscere immediatamente quale posizione “preferisce” dopo averne ascoltato una veloce descrizione. Ma se la consapevolezza è piuttosto accessibile, il cambiamento risulta più arduo.

Una buona okness di base richiede di smettere di intrattenere relazioni asimmetriche, in cui ci mettiamo più o meno consapevolmente al di sopra o al di sotto degli altri. Richiede di rinunciare allenostre modalità di relazione ripetitive, automatiche e rigide (in AT diremmo smettere di giocare), a favore di rapporti interpersonali più aperti e paritetici. Richiede perciò di deporre i pregiudizi verso se stessi o gli altri, acquisendo una visione meno generalista e categorica: Linda ad esempio, per tornare al nostro raccontino, ha deposto il suo pregiudizio verso i dipendenti, il “non ti puoi fidare di nessuno”, per acquisire una posizione più equilibrata, del tipo “pur senza essere ingenua, non è a causa di due dipendenti che perderò la fiducia in tutti gli altri”. A proposito, ricordate il rapporto di Linda con la cameriera? Quello era + +, eppure anche la domestica è una sottoposta. Per darci ragione di questa differenza, possiamo ipotizzare questa lettura: non è detto che come moglie, madre, padrona di casa Linda si sentisse tanto spesso - + come sul lavoro, dove era il manovale di fiducia del marito e basta. E la propria autostima, ormai è chiaro,è la base dell’okness.

Allo stesso modo dei pregiudizi verso gli altri anche i pregiudizi su se stessi e sul proprio valore vanno rivisti alla luce di un dato di realtà, modificando lo stereotipato “io sono fatto così” e “a me va sempre a finire così” verso un “posso fare alcune cose in modo diverso e riuscire se lo decido”. E tutto questo in modo non superficiale.

Nel caso di capi e collaboratori, una buona okness ci porta a una distinzione nitida tra relazione gerarchica e relazione umana, una distinzione non superficiale che va compresa e maturata. Non si tratta di intrattenere rapporti diplomatici, educati, edulcorati, falsi insomma, è qualcosa che agisce se intimamente sentito, come lo sono tutte le questioni che riguardano l’okness.

Dal punto di vista della responsabilità e dell’autorità il capo è più in alto del collaboratore e rinunciare a ciò non sarebbe affatto + +, bensì - +. Ma dal punto di vista umano, nell’okness i due sono alla pari, come esseri umani sono uguali, al di là e senza rinunciare alle proprie caratteristiche, competenze, ruoli.

Un rapporto di questo tipo prevede ad esempio che il capo possa riprendere il lavoratore ma non calpestare l’essere umano, può correggerne il fare ma non pretendere di cambiarne l’essere. Il capo può, anzi deve, valutare il comportamento professionale del collaboratore, ma non è sua prerogativa giudicare la persona.

Sono i capi che confondono l’asimmetria della relazione gerarchica con la relazione umana quelli che rinunciano inevitabilmente a un rapporto fondato sulla fiducia e sulla stima di sé e dell’altro (sempre Linda, quando affermava convinta che non ci si può fidare di nessuno si metteva al di sopra dei dipendenti, tutti e non solo di chi aveva rubato, umanamente: superiore come persona e non come gerarchia, ovviamente si tratta di + -).

La posizione + + è allora quella che pare meno spontanea, e più appresa. È una posizione assertiva, da conquistarsi con fatica e non solo con un semplice atto di volontà. Richiede di apprendere il nostro valore e i nostri diritti, smettendo di incolparci e di renderci vittime, se partiamo da - +. Oppure, se partiamo da + -richiede di apprendere profondamente il rispetto dell’altro, vederlo come una risorsa e non scaricargli addosso le nostre responsabilità. La posizione + + è ricercata e raggiunta consapevolmente, è una scelta, che ci permette la collaborazione, la crescita, la giusta fiducia (e con le categorie dell’AT mi risulta più facile spiegare il concetto di fiducia giusta: credere ingenuamente nella bontà dei dipendenti tendenzialmente non è + +, ma - +, mentre un controllo corretto e costruttivo sul comportamento dei collaboratori è + +, è okness). Per molti, la posizione + + è anche una posizione etica, un’etica che trova il suo fondamento nei risultati positivi che l’okness permette.


1 - Le ipotesi etimologiche vanno oltre, chi ne è curioso può consultare www.etimo.it .

2 -Per chi desidera una trattazione sintetica, ma a mio parere molto efficace, dell’AT rimando a Fabio Ricardi Analisi Transazionale, Xenia 1997.

3 -Il riferimento è al libro di T.Harris Io sono ok, tu sei ok, Rizzoli 1974; un po’ il manifesto dell’Analisi Transazionale e uno dei primi libri di AT pubblicati in Italia.

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