BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 27/09/2004

Una lavoratrice europea

UNA TELE-VISIONE DI COME LAVORIAMO. NOTE A MARGINE A IL SOGNO EUROPEO DI JEREMY RIFKIN

recensione di:
Jeremy Rifkin, The European Dream: How Europe's Vision of the Future is Quietly Eclipsing the American Dream , Polity Press, 2004; trad. it Il sogno europeo , Mondadori, 2004. Edgar H. Schein

Il libro del futurologo economista, appena uscito, è al centro dell'attenzione di tutti i giornali. Alcuni evitano abilmente di commentare e prendere posizione –è sempre un guru, un ecologo, forse uno di sinistra- riportando brani di sintesi scritti dallo stesso autore, o intervistandolo. Eppure si stenta a credere a ciò che scrive, e che stia parlando di noi, proprio di noi. Basti per esempio l'analisi della Costituzione Europea, presentata come avanzatissima rispetto a quella americana (forse qualche secolo di distanza aiuta a partorire qualcosa di più moderno), e con ammirevoli principi come l'uguaglianza di tutti (ci mancherebbe altro, anche perché i principi antidiscriminatori non costano molto, non quanto metterli in pratica nella società). Ma la rassegna stampa abbondantissima avrà già permesso, al momento in cui uscirà questo numero della rivista, di conoscere i vari aspetti su cui l'autore pontifica (se volete una perfetta analisi commentata, leggete Stefano Cingolani su Il Riformista del 22 settembre).

Rileviamo un aspetto, che sembra trascurato finora nelle recensioni: il lavoro. Rifkin dice molte cose a questo proposito. Prendiamo solo un esempio. L'Europa –secondo lui– è il posto dove si mette al centro la qualità della vita, e quindi non si lavora tanto o troppo come in America.

Io che scrivo questo commento, a questo punto, penso di non sapere come sia l'America, come sia l'Europa, forse neanche l'Italia. Ma so com'è Milano, dove vivo e lavoro. Noi lavoriamo tantissimo, per quantità di ore e per intensità di impegno. Anche quelli di noi che non hanno sindromi di martirio da lavoro né perseguono avidamente obiettivi di potere, ma semplicemente hanno un lavoro di cui sono (e si sentono orgogliosi di essere) responsabili .

Forse parliamo tanto di qualità della vita perché è il bene che ci manca, come il tempo per noi stessi. Anni fa, quando un mio amico negli Stati Uniti dirigeva un'azienda di 20.000 dipendenti e mi diceva che spesso alle sette di sera era a casa con sua moglie a preparare la cena, io mi chiedevo: com'è possibile?

Da noi ci sono giornate che con i colleghi, all'arrivo in azienda, definiamo “entrare nel tritacarne”. Forse perché in Italia lavoriamo in pochi, troppo pochi rispetto alla popolazione (i nostri tassi di occupazione, soprattutto femminile, sono vergognosi, e l'economia continua ad avere la più bassa crescita nell'Europa sviluppata, senza che ci si metta mano seriamente). Inoltre, in molte situazioni, a chi lavora è consentito lavorare poco e male. Si aggiungono servizi pubblici di ogni tipo pesantemente inefficienti, che trasformano la gestione quotidiana in un secondo lavoro.

Non so se queste siano alcune spiegazioni possibili, ma mi sono sentita quasi offesa da questo libro (letto di notte, ovviamente, se no non si riesce a fare almeno un po' di tutto quello che interessa). Vorrei dare solo un suggerimento all'autore: la prossima volta che viene a vedere l'Europa, si fermi una mezza giornata in più e, senza andare lontano, guardi in giro come si lavora, per esempio, nella sua casa editrice italiana.

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