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Pubblicato in data: 11/11/2002

LA BENDA SUGLI OCCHI

di Nicola Gaiarin

Recensione del film Minority Report

L’ultimo Spielberg, Minority report, è forse il film che segna il distacco definitivo del padre di E.T. da un modello di cinema favolistico e ancorato alla necessità dello happy end. A dire il vero anche in Minority Report troviamo il lieto fine che rimette a posto tutte le cose, dipanando i fili aggrovigliati della vicenda, ma si tratta di un finale chiaramente posticcio, che stona a tal punto con la perfetta macchina narrativa messa a punto fino a quel momento da assumere l’aria di un artificio che permette al resto del film di spiccare in modo ancora più netto. Ma andiamo con ordine. In origine c’è il racconto di Philip K. Dick, il padre riconosciuto di gran parte della fantascienza contemporanea, cinematografica e non. La fedeltà di Spielberg sul piano narrativo si scontra però con un evidente scarto dal punto di vista stilistico. Sto parlando, ovviamente, dello stile di visione dei due autori: laddove Dick è paranoico e genialmente complottista, Spielberg è tormentato e nevrotico. John Anderton/Tom Cruise non è perseguitato dal potere o dal peso post-orwelliano di un occhio metafisico che tutto osserva sapendo in anticipo se un omicidio sta per essere commesso (e quindi arrestando e condannando il pre-colpevole ad una specie di carcere sensoriale e comatoso). A tormentare il protagonista spielberghiano è piuttosto la scissione interna tra il senso del dovere (che gli impone la fedeltà al sistema di prevenzione del crimine) e la propria identità (che lo costringe a sfuggire ai suoi stessi colleghi per cercare di far sì che la preveggenza, per una volta, vada a vuoto). Se l’occhio di Dick è sempre visionario e cerca di scrutare al di là della mondo reale, anche nelle pagine in cui lo stile sembra appiattito e poco brillante, l’occhio di Spielberg è un occhio interno, rivolto verso il cuore della realtà nello sforzo di riaffermarla una volta per tutte. E la realtà, in fondo, è una questione di scelta. I personaggi di Spielberg, almeno a partire da Schindler’s List, devono scegliere da che parte stare: come il capitano di Salvate il soldato Ryan, che alla fine accetta la guerra come guerra giusta, nonostante le carneficine e la follia, perché è la guerra condotta dai buoni contro l’impero del male. Anche Anderton deve (e vuole) scegliere: deve scegliere da che parte stare per far sì che la realtà gli appartenga, che sia la sua realtà e non una semplice conseguenza di scelte altrui. Deve riappropriarsi del proprio sguardo per continuare a vedere, a distinguere i particolari senza fermarsi alla superficie iperveloce delle cose. Per questo la scena chiave è probabilmente quella iniziale: uno schermo immateriale presenta all’agente Anderton le immagini di un crimine che deve essere ancora attuato. A generare le immagini sono i tre Precog, telepati precognitivi che vedono l’omicidio prima che questo accada. Anderton è quello che, all’interno di questa visone allucinatoria, deve ristabilire i diritti della realtà: decifrando i segni e riconoscendo i volti; analizzando i dettagli architettonici e urbanistici; valutando incongruenze. Spielberg vuole che lo sguardo si fissi al di qua del confine tra simulazione e riproduzione. In fondo la sua è la difesa di un cinema classico, alla John Ford, contro il cinema vertiginoso delle immagini che ricreano la vita attraverso gli effetti speciali. Può sembrare sorprendente da parte di uno dei padri dell’effetto speciale cinematografico, ma Spielberg usa l’artificio per evidenziare la realtà, non per sostituirla. Sa bene che occorre deformare le immagini perché lo schermo le riproduca in modo realistico. E sa che dietro l’apparente verità di quello che vediamo c’è la solidità sfuggente del mondo reale. Un mondo in cui i segni non sono dati una volta per tutte, ma si presentano in sequenze discontinue: sono tracce labili dalle quali non sempre è possibile inferire il reale stato delle cose. Per questo il passaggio oltre la linea tra virtuale e reale, la scelta definitiva, si verifica in stato di deprivazione visiva: Anderton ha appena subito un trapianto d’occhi per diventare impercettibile di fronte allo sguardo delle telecamere e si muove, bendato, in un appartamento fatiscente. In questa discesa agli inferi (che in fondo dura solo pochi minuti) il protagonista ritrova se stesso cambiando, letteralmente, il proprio modo di percepire: goffo e traballante è costretto a muoversi alla cieca, a immergersi in una vasca d’acqua gelida, a trattenere il fiato. Da questo passaggio al limite uscirà con i sensi azzerati, costretto a muoversi rasoterra, col volto temporaneamente deformato: il superpoliziotto che nelle sequenze iniziali si affidava ancora alla verità delle immagini ora si muove, privo di coordinate, in un mondo definitivamente reale. E quindi imprevedibile.

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