BLOOM! frammenti di organizzazione

Nicola Gaiarin

recensione a:
Shakespeare on Management
Paul Corrigan
Kogan Page, London 1999

ed it. Shakespeare e il management
traduzione di Nicola Gaiarin
ETAS, Milano 2001

 

Shakespeare e il management. Perché questo titolo? L'originale recitava Shakespeare "on" Management, e ci si poteva immaginare il Gran Bardo intento a dar sfogo ad una innominabile passione notturna. Messi da parte re, regine e amori sfortunati, Shakespeare si infilava sotto il palco del Globe Theatre per potersi finalmente dedicare a quello che davvero gli stava a cuore: manager, CEO, e background activities.
Shakespeare "e" il management attenua l'impatto dell'immagine, e forse corrisponde un po' di più al contenuto reale del libro. Leggendo Shakespeare possiamo incontrare riferimenti e passaggi che ci permettono di operare un incrocio o un collegamento tra i suoi drammi e i principali temi del management contemporaneo. La grande distanza temporale non impedisce di trarre dai testi shakesperiani spunti importanti per tentare di leggere lo sviluppo e i guasti delle organizzazioni.
Come è noto, però, quelle di Shakespeare erano tragedie. Vale a dire che le sue opere finivano immancabilmente male. Nel migliore dei casi agli spettatori capitava di assistere al suicidio incrociato di due adolescenti. Di solito, tuttavia, le cose andavano a finire molto peggio e, se di mezzo c'erano personaggi come Riccardo III, il numero dei morti saliva vertiginosamente. Corrigan riconosce il problema, e decide di far leva sul pessimismo delle opere shakesperiane per ottenere un efficace supplemento pedagogico.
Da sempre, infatti, le storie che vanno a finir male attirano gli spettatori più di qualsiasi lieto fine. La cosa migliore è cercare di imparare dagli errori degli altri. Corrigan parte proprio da qui, per mostrarci come i grandi sovrani di Shakespeare siano soprattutto dei pessimi leader. Le traiettorie dei personaggi Shakesperiani portano immancabilmente alla rovina, alla miseria, alla morte. Ma non si tratta solo di godere malignamente delle disgrazie altrui. Cattivi leader, Macbeth & Co. possono forse rivelarsi dei buoni maestri.
Mark Twain ci ricordava che "niente è più noioso di un buon esempio", e da qui parte Corrigan, tempestandoci di fallimenti, sconfitte, disastri, tradimenti. Alla fine il metodo trial and error si rivela sempre il più efficace: gli errori e i cattivi esempi altrui valgono come tentativi falliti o strade da non seguire. Gli eccessi dei leader shakesperiani si trasformano in insegnamenti diretti ai manager contemporanei. Due mondi separati da secoli di storia si incontrano e si sovrappongono sul piano della leadership.
Corrigan riesce a seguire con grande abilità questa pista. La questione della leadership si articola secondo lui attorno a due questioni principali: la responsabilità e il cambiamento. Il buon leader, sia esso un manager o un sovrano, deve essere in grado assumere le proprie responsabilità senza trasformarle in ossessione per il controllo. Essere responsabili - per sé e per gli altri - significa sapere che c'è sempre qualcosa che sfugge al controllo. Ma Corrigan va più in là, e rilancia la posta: la responsabilità, se non vuole ridursi alla semplice conservazione e all'amministrazione statica delle risorse disponibili, deve far leva proprio sul margine non controllabile delle situazioni. In breve, la responsabilità diventa la capacità di gestire il cambiamento.

In prima battuta Shakespeare on management analizza quei leader shakesperiani che non si rendono conto dell'importanza del cambiamento. Il change management non è solo uno slogan, ma un'esperienza fondamentale che si colloca al centro di ogni incarico manageriale, e questo è vero oggi (e sembra un dato ovvio) quanto lo era ai tempi di Shakespeare (e questo forse può sorprendere). Riccardo II, Re Lear e Antonio (da Antonio e Cleopatra) sono esempi perfetti di sovrani e leader incapaci di comprendere il cambiamento. Sono manager convinti che la posizione raggiunta debba essere conservata per un tempo indefinito, poco disposti ad investire tempo ed energie per cercare nuove strategie di crescita o per cambiare lo stato delle cose. Il loro è senza dubbio un management statico, basato sul mantenimento dei ruoli assunti e sulla rigidità gerarchica. Sono convinti che leader si nasce, non si diventa. Le loro skills sono doti innate, e non si preoccupano di raffinarle e verificarle. Corrigan segue le vicende narrate da Shakespeare e ci mostra come un atteggiamento simile sia immancabilmente votato al fallimento.
I leader analizzati nella sezione successiva di Shakespeare e il management non vanno incontro a un destino migliore. Riccardo III, Macbeth e Coriolano sanno che le cose cambiano e che occorre agire su di esse per rendere proficuo il cambiamento. Ma le loro strategie di intervento sono decisamente carenti sul piano del rapporto con lo staff. Sono leader che si allontanano dai loro uomini, scegliendo la solitudine dell'autorità invece di promuovere un lavoro di squadra. Per loro la responsabilità coincide con il controllo, e l'autorità diventa una forma di potere assoluto. Intervengono sul mondo per modificarlo, investono tutte le risorse disponibili in vista di un miglioramento della propria situazione, ma, così facendo, innescano un circolo perverso che non riescono a gestire.
Macbeth, ad esempio, uccide il suo sovrano per prenderne il posto. Ma la strategia che mette in atto è ambigua e improvvisata. Non ha chiaro lo scopo della propria azione; non esamina le alternative offerte dalla situazione; non riesce a valutare e verificare le conseguenze della sua scelta; non soppesa i rischi rispetto al guadagno previsto; non è in grado di implementare la decisione. Macbeth vuole cambiare lo stato delle cose, ma non riesce ad operare una corretta gestione del cambiamento. La sua appare allora come una decisione ambigua, una incapacità di assumere pienamente la responsabilità per la propria scelta strategica. Le conseguenze, ovviamente, sono tragiche.


La quarta Parte è dedicata a quello che sembra essere l'unico leader di successo dell'intero corpus shakesperiano: Enrico V. La parola chiave, in questo caso, è role playing. Prima di diventare re, il principe Hal si rivela un maestro nella gestione dell'ambiguità e nella simulazione. È perfettamente consapevole dell'importanza del change management, ma sa anche che implementare il cambiamento comporta una serie di rischi da valutare attentamente. In primo luogo, per comprendere il cambiamento bisogna mettere a punto una strategia efficace in termini di intelligence. Il futuro re Enrico si distingue dai leader analizzati in precedenza per la sua abilità nel raccogliere e decifrare informazioni. La sua è una leadership dinamica, flessibile, capace di interpretare i dati di una situazione e di trasformare le ambiguità in risorse. Sa bene che il leader deve modificare il proprio ruolo per non restare intrappolato al suo interno. Per questo, alla vigilia di una battaglia decisiva, si traveste da soldato (per anni ha frequentato il popolo, e ora sa imitare perfettamente l'accento e gli atteggiamenti dei soldati) e va a parlare con i suoi uomini per capire quello che realmente pensano di lui. Una leadership dinamica sfrutta le informazioni raccolte attraverso canali non convenzionali e costruisce in questo modo una vision efficace.
L'analisi delle strategie del principe Hal permette a Corrigan di offrire un modello di leadership proiettato verso il futuro. La vision diviene uno strumento motivazionale insostituibile. Dare forma al cambiamento vuole dire, innanzitutto, trovare e comunicare un significato. Hal riesce a motivare i propri uomini dando senso alle loro azioni e mostrando che, di fronte al cambiamento, le gerarchie non possono essere rigide: a differenza dei leader analizzati in precedenza, il principe Hal lavora fianco a fianco con il proprio staff. Fa capire di essere parte della squadra e delega funzioni chiave a chi gli sta attorno. Soprattutto, motiva gli altri assumendosi la piena responsabilità delle proprie scelte.
L'ultima parte del libro di Corrigan è dedicata ad un altro aspetto della leadership: il rapporto con le attività di background. Dietro le quinte dell'organizzazione spesso operano individui le cui intuizioni possono rivelarsi decisive. Lontano dalla board room di un'azienda nascono interazioni, scambi di informazione, piccole dinamiche conflittuali che possono passare inosservate rispetto alle decisioni del senior management. L'importanza di queste "sottotrame" consiste proprio nella loro posizione marginale. Prestare attenzione al proprio staff può rivelarsi una risorsa insostituibile, ma Shakespeare ci insegna qualcosa di più. Ci possono essere persone la cui relativa indipendenza rispetto alla gerarchia dell'organizzazione fornisce un formidabile valore aggiunto in termini di previsione del cambiamento.
È il caso, ad esempio, del Fool, il buffone di corte del Re Lear. I buffoni all'epoca avevano la funzione, importantissima, di "dire la verità al potere". Stavano accanto al sovrano e con i loro indovinelli fornivano una contestazione ironica delle sue scelte. Il rapporto del Fool con il sovrano si caratterizzava come un rovesciamento parziale delle decisioni dell'autorità. Il buffone contesta il leader offrendogli, attraverso battute e giochi di parole, un punto di vista alternativo sulla situazione. Questa forma di contestazione rafforza le scelte integrandole con una prospettiva inedita. Re Lear fallisce perché, in un certo senso, non dà ascolto alle parole del suo buffone e rimane agganciato a un solo punto di vista. Il principe Hal, invece, diventa un grande sovrano perché ha saputo ascoltare i suggerimenti e le lezioni di un altro straordinario personaggio comico: Falstaff, furfante memorabile, ma anche inimitabile maestro di saggezza popolare. Sono gli individui come Falstaff e il Fool, che si muovono lontano dal cuore dell'organizzazione, ad offrire punti di vista inediti sulle situazioni e ad aiutare i leader a prefigurare scelte alternative all'interno di un ambiente turbolento.

L'incontro tra mondi distanti è perfettamente riuscito e la strana coppia formata da Shakespeare e dal management non è più tale. I nessi pazientemente ricostruiti da Corrigan aprono prospettive stimolanti, suggerendo spunti per una lettura incrociata di esperienze che sembravano inconciliabili. Eppure questo libro ci offre una occasione ancora più sorprendente: ci consente di ritrovare un autore che troppo spesso rimane sepolto nelle biblioteche o viene avvicinato, a teatro, con un misto di sospetto e timore reverenziale. In fondo, ci ricorda Corrigan, anche Shakespeare era un manager: doveva mandare avanti una compagnia di attori, occuparsi di contratti, stare attento ai gusti del pubblico. Chissà allora che l'immagine iniziale non fosse poi tanto lontana dalla realtà: Shakespeare, sotto il palco del Globe Theatre, intento a scervellarsi su attività di background, change management e organizzazioni snelle.

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