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it. Shakespeare e il management |
Shakespeare e il management.
Perché questo titolo? L'originale recitava Shakespeare "on"
Management, e ci si poteva immaginare il Gran Bardo intento a dar sfogo
ad una innominabile passione notturna. Messi da parte re, regine e amori sfortunati,
Shakespeare si infilava sotto il palco del Globe Theatre per potersi finalmente
dedicare a quello che davvero gli stava a cuore: manager, CEO, e background
activities.
Shakespeare "e"
il management attenua l'impatto dell'immagine, e forse corrisponde un po'
di più al contenuto reale del libro. Leggendo Shakespeare possiamo incontrare
riferimenti e passaggi che ci permettono di operare un incrocio o un collegamento
tra i suoi drammi e i principali temi del management contemporaneo. La grande
distanza temporale non impedisce di trarre dai testi shakesperiani spunti importanti
per tentare di leggere lo sviluppo e i guasti delle organizzazioni.
Come è noto, però, quelle di Shakespeare erano tragedie. Vale
a dire che le sue opere finivano immancabilmente male. Nel migliore dei casi
agli spettatori capitava di assistere al suicidio incrociato di due adolescenti.
Di solito, tuttavia, le cose andavano a finire molto peggio e, se di mezzo c'erano
personaggi come Riccardo III, il numero dei morti saliva vertiginosamente. Corrigan
riconosce il problema, e decide di far leva sul pessimismo delle opere shakesperiane
per ottenere un efficace supplemento pedagogico.
Da sempre, infatti, le storie che vanno a finir male attirano gli spettatori
più di qualsiasi lieto fine. La cosa migliore è cercare di imparare
dagli errori degli altri. Corrigan parte proprio da qui, per mostrarci come
i grandi sovrani di Shakespeare siano soprattutto dei pessimi leader. Le traiettorie
dei personaggi Shakesperiani portano immancabilmente alla rovina, alla miseria,
alla morte. Ma non si tratta solo di godere malignamente delle disgrazie altrui.
Cattivi leader, Macbeth & Co. possono forse rivelarsi dei buoni maestri.
Mark Twain ci ricordava che "niente è più noioso di un buon
esempio", e da qui parte Corrigan, tempestandoci di fallimenti, sconfitte,
disastri, tradimenti. Alla fine il metodo trial and error si rivela sempre
il più efficace: gli errori e i cattivi esempi altrui valgono come tentativi
falliti o strade da non seguire. Gli eccessi dei leader shakesperiani si trasformano
in insegnamenti diretti ai manager contemporanei. Due mondi separati da secoli
di storia si incontrano e si sovrappongono sul piano della leadership.
Corrigan riesce a seguire con grande abilità questa pista. La questione
della leadership si articola secondo lui attorno a due questioni principali:
la responsabilità e il cambiamento. Il buon leader, sia esso un manager
o un sovrano, deve essere in grado assumere le proprie responsabilità
senza trasformarle in ossessione per il controllo. Essere responsabili - per
sé e per gli altri - significa sapere che c'è sempre qualcosa
che sfugge al controllo. Ma Corrigan va più in là, e rilancia
la posta: la responsabilità, se non vuole ridursi alla semplice conservazione
e all'amministrazione statica delle risorse disponibili, deve far leva proprio
sul margine non controllabile delle situazioni. In breve, la responsabilità
diventa la capacità di gestire il cambiamento.
In prima battuta Shakespeare on
management analizza quei leader shakesperiani che non si rendono conto dell'importanza
del cambiamento. Il change management non è solo uno slogan, ma
un'esperienza fondamentale che si colloca al centro di ogni incarico manageriale,
e questo è vero oggi (e sembra un dato ovvio) quanto lo era ai tempi
di Shakespeare (e questo forse può sorprendere). Riccardo II, Re Lear
e Antonio (da Antonio e Cleopatra) sono esempi perfetti di sovrani e
leader incapaci di comprendere il cambiamento. Sono manager convinti che la
posizione raggiunta debba essere conservata per un tempo indefinito, poco disposti
ad investire tempo ed energie per cercare nuove strategie di crescita o per
cambiare lo stato delle cose. Il loro è senza dubbio un management statico,
basato sul mantenimento dei ruoli assunti e sulla rigidità gerarchica.
Sono convinti che leader si nasce, non si diventa. Le loro skills sono doti
innate, e non si preoccupano di raffinarle e verificarle. Corrigan segue le
vicende narrate da Shakespeare e ci mostra come un atteggiamento simile sia
immancabilmente votato al fallimento.
I leader analizzati nella sezione successiva di Shakespeare e il management
non vanno incontro a un destino migliore. Riccardo III, Macbeth e Coriolano
sanno che le cose cambiano e che occorre agire su di esse per rendere proficuo
il cambiamento. Ma le loro strategie di intervento sono decisamente carenti
sul piano del rapporto con lo staff. Sono leader che si allontanano dai loro
uomini, scegliendo la solitudine dell'autorità invece di promuovere un
lavoro di squadra. Per loro la responsabilità coincide con il controllo,
e l'autorità diventa una forma di potere assoluto. Intervengono sul mondo
per modificarlo, investono tutte le risorse disponibili in vista di un miglioramento
della propria situazione, ma, così facendo, innescano un circolo perverso
che non riescono a gestire.
Macbeth, ad esempio, uccide il suo sovrano per prenderne il posto. Ma la strategia
che mette in atto è ambigua e improvvisata. Non ha chiaro lo scopo della
propria azione; non esamina le alternative offerte dalla situazione; non riesce
a valutare e verificare le conseguenze della sua scelta; non soppesa i rischi
rispetto al guadagno previsto; non è in grado di implementare la decisione.
Macbeth vuole cambiare lo stato delle cose, ma non riesce ad operare una corretta
gestione del cambiamento. La sua appare allora come una decisione ambigua, una
incapacità di assumere pienamente la responsabilità per la propria
scelta strategica. Le conseguenze, ovviamente, sono tragiche.
La quarta Parte è dedicata a quello che sembra essere l'unico leader
di successo dell'intero corpus shakesperiano: Enrico V. La parola chiave, in
questo caso, è role playing. Prima di diventare re, il principe
Hal si rivela un maestro nella gestione dell'ambiguità e nella simulazione.
È perfettamente consapevole dell'importanza del change management,
ma sa anche che implementare il cambiamento comporta una serie di rischi da
valutare attentamente. In primo luogo, per comprendere il cambiamento bisogna
mettere a punto una strategia efficace in termini di intelligence. Il
futuro re Enrico si distingue dai leader analizzati in precedenza per la sua
abilità nel raccogliere e decifrare informazioni. La sua è una
leadership dinamica, flessibile, capace di interpretare i dati di una situazione
e di trasformare le ambiguità in risorse. Sa bene che il leader deve
modificare il proprio ruolo per non restare intrappolato al suo interno. Per
questo, alla vigilia di una battaglia decisiva, si traveste da soldato (per
anni ha frequentato il popolo, e ora sa imitare perfettamente l'accento e gli
atteggiamenti dei soldati) e va a parlare con i suoi uomini per capire quello
che realmente pensano di lui. Una leadership dinamica sfrutta le informazioni
raccolte attraverso canali non convenzionali e costruisce in questo modo una
vision efficace.
L'analisi delle strategie del principe Hal permette a Corrigan di offrire un
modello di leadership proiettato verso il futuro. La vision diviene uno
strumento motivazionale insostituibile. Dare forma al cambiamento vuole dire,
innanzitutto, trovare e comunicare un significato. Hal riesce a motivare i propri
uomini dando senso alle loro azioni e mostrando che, di fronte al cambiamento,
le gerarchie non possono essere rigide: a differenza dei leader analizzati in
precedenza, il principe Hal lavora fianco a fianco con il proprio staff. Fa
capire di essere parte della squadra e delega funzioni chiave a chi gli sta
attorno. Soprattutto, motiva gli altri assumendosi la piena responsabilità
delle proprie scelte.
L'ultima parte del libro di Corrigan è dedicata ad un altro aspetto della
leadership: il rapporto con le attività di background. Dietro le quinte
dell'organizzazione spesso operano individui le cui intuizioni possono rivelarsi
decisive. Lontano dalla board room di un'azienda nascono interazioni,
scambi di informazione, piccole dinamiche conflittuali che possono passare inosservate
rispetto alle decisioni del senior management. L'importanza di queste "sottotrame"
consiste proprio nella loro posizione marginale. Prestare attenzione al proprio
staff può rivelarsi una risorsa insostituibile, ma Shakespeare ci insegna
qualcosa di più. Ci possono essere persone la cui relativa indipendenza
rispetto alla gerarchia dell'organizzazione fornisce un formidabile valore aggiunto
in termini di previsione del cambiamento.
È il caso, ad esempio, del Fool, il buffone di corte del Re
Lear. I buffoni all'epoca avevano la funzione, importantissima, di "dire
la verità al potere". Stavano accanto al sovrano e con i loro indovinelli
fornivano una contestazione ironica delle sue scelte. Il rapporto del Fool
con il sovrano si caratterizzava come un rovesciamento parziale delle decisioni
dell'autorità. Il buffone contesta il leader offrendogli, attraverso
battute e giochi di parole, un punto di vista alternativo sulla situazione.
Questa forma di contestazione rafforza le scelte integrandole con una prospettiva
inedita. Re Lear fallisce perché, in un certo senso, non dà ascolto
alle parole del suo buffone e rimane agganciato a un solo punto di vista. Il
principe Hal, invece, diventa un grande sovrano perché ha saputo ascoltare
i suggerimenti e le lezioni di un altro straordinario personaggio comico: Falstaff,
furfante memorabile, ma anche inimitabile maestro di saggezza popolare. Sono
gli individui come Falstaff e il Fool, che si muovono lontano dal cuore
dell'organizzazione, ad offrire punti di vista inediti sulle situazioni e ad
aiutare i leader a prefigurare scelte alternative all'interno di un ambiente
turbolento.
L'incontro tra mondi distanti è perfettamente riuscito e la strana coppia formata da Shakespeare e dal management non è più tale. I nessi pazientemente ricostruiti da Corrigan aprono prospettive stimolanti, suggerendo spunti per una lettura incrociata di esperienze che sembravano inconciliabili. Eppure questo libro ci offre una occasione ancora più sorprendente: ci consente di ritrovare un autore che troppo spesso rimane sepolto nelle biblioteche o viene avvicinato, a teatro, con un misto di sospetto e timore reverenziale. In fondo, ci ricorda Corrigan, anche Shakespeare era un manager: doveva mandare avanti una compagnia di attori, occuparsi di contratti, stare attento ai gusti del pubblico. Chissà allora che l'immagine iniziale non fosse poi tanto lontana dalla realtà: Shakespeare, sotto il palco del Globe Theatre, intento a scervellarsi su attività di background, change management e organizzazioni snelle.