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Pubblicato in data: 04/03/2002

Nicola Gaiarin

Dal maiale al capitale

recensione a:
Il maiale e il grattacielo,
Marco d’Eramo

Feltrinelli, Milano 1999

 

 In un libro affascinante, che spiega come sia ancora possibile mostrarsi critici nei confronti degli eccessi del capitalismo e rimanere tuttavia intelligenti, Marco d’Eramo ha indagato e portato alla luce alcuni paradossi della società contemporanea. Il Maiale il grattacielo. Chicago: una storia del nostro futuro - questo il titolo del libro, pubblicato da Feltrinelli nel 1995 - si avventura in un ambizioso e stimolante viaggio attraverso i paradossi di una città emblematica. Chicago, la patria di McDonalds e del Primo Maggio, della sociologia urbana e degli anarchici di inizio novecento, viene sezionata dall’occhio attento di uno studioso che inverte i presupposti abituali delle letture antropologiche. In questo caso il viaggiatore, provenendo dal vecchio mondo, accetta la sfida dell’altrove assumendo lo sguardo paradossale del “meno civilizzato”. L’osservatore veste i panni, almeno in una logica iperliberista, del “primitivo”: è l’abitante di una terra antiquata e arretrata che tenta di rivolgere la lente d’ingrandimento verso il paese del grande sogno del capitale, gli Stati Uniti. D’Eramo legge la storia di Chicago andando in profondità, rivelando la  stratigrafia, le faglie, gli spostamenti lenti, le emergenze improvvise che hanno consentito a una grande città americana di diventare quello che è. Cerca di raccontare una storia del nostro futuro, mostrando una delle possibili direzioni di sviluppo che si aprono di fronte alle città contemporanee. Lo fa con dati, grafici, numeri. Si sforza di essere il più possibile oggettivo. D’Eramo è un fisico di formazione, e il suo gusto per la precisione riesce a ridurre al minimo l’interferenza dei pregiudizi dello scienziato riguardo all’oggetto osservato. Ma, si potrebbe dire, proprio perché è un fisico, D’Eramo assume l’interferenza, l’influenza dello sguardo dell’osservatore come dato primario. La storia del nostro futuro immaginata attraverso l’incontro con Chicago è anche “solo una storia”, un punto di vista possibile, una forzatura. Un modo di anticipare il futuro sapendo che estraendolo, come il Dio di Leibniz, dal palazzo dei possibili, si ottiene l’effetto contrario. Descrivere e raccontare sono anche modi per esorcizzare e rendere impossibile quello che si descrive.

 D’Eramo osserva Chicago dall’interno, dopo averci vissuto per più di un anno e aver attraversato in tutte le direzioni lo spazio fisico della metropoli. Il suo non è certo uno sguardo ingenuo, non finge di non sapere e non cancella il proprio punto di vista parziale. Da sociologo, oltre che da fisico, D’Eramo assume il peso e la responsabilità di uno sguardo localizzato, in situazione, carico di una memoria personale e collettiva molto forte. Dietro l’osservatore forse c’è Marx, ma di sicuro c’è la consapevolezza di una crisi che mina alla base tanto il marxismo quanto ogni forma semplificata di liberismo. Il problema non è tanto quello di individuare una logica universale o globale: a d’Eramo non interessa l’Impero. La macchina imperiale è troppo grossolana e imprecisa per render conto della complessità del mondo reale. Di fronte alla polverizzazione delle esperienze che caratterizza ogni singola metropoli, le chiavi di lettura si devono moltiplicare senza convergere necessariamente in un quadro teorico unificato. Forse occorre ripartire dall’analisi dettagliata, dalle mille variabili che rendono difficile decifrare anche solo la storia di un palazzo o di un’azienda. Ben vengano le analisi imperiali, ma forse servono solo per rispondere a un bisogno rimosso di teoria. D’Eramo assume fin dall’inizio la profondità di uno sguardo riflessivo, e perciò può permettersi di lasciare spazio alla ricchezza descrittiva. La storia di Chicago è soprattutto l’intreccio di una miriade di storie eterogenee. Il futuro non ha un solo vettore, le frecce si scontrano, cambiano direzione, invertono senso di marcia.

 Anche rivolgendo lo sguardo al passato, in ogni caso, le cose non migliorano granché. La storia di una metropoli non è un percorso ininterrotto e rettilineo, è piuttosto una sovrapposizione di piani frammentati. Le linee evolutive sono discontinue, frattali, piene di biforcazioni. Dove ci si attende una connessione si trova una faglia, dove le distanze sono più evidenti si verificano sorprendenti risonanze. Sono queste le piste, le tracce sepolte seguite da d’Eramo. Le stesse tracce che spiegano perché negli States ci siano così pochi cognomi di origine tedesca (la risposta si nasconde tra le pieghe della feroce persecuzione antitedesca scatenata dallo scoppio della prima guerra mondiale) o perché la scuola economica di Chicago abbia fatto incetta di premi nobel (e di posti nell’amministrazione Reagan). Ma il viaggio nella fantascienza contemporanea di Chicago è anche un viaggio attraverso gli splendori e le miserie del capitalismo. La natura “ferroviaria” del capitale, che ha portato a immense deforestazioni e a devastazioni di lunghissima durata (dallo sterminio dei bisonti alle deportazioni degli indiani) si traduce, nel giro di due secoli, in un’avventura archeologica. Il traffico su rotaia, con le sue linee parallele che coprivano gli USA, lascia il posto alle rotte decentrate del capitalismo automobilistico, più fluido e imprevedibile. Eppure anche l’epopea del vagone ferroviario conteneva i germi di un intrico caotico di flussi contrastanti: le difficoltà di fissare orari unificati, gli scontri tra linee e società private concorrenti, gli incidenti ferroviari causati dalla corsa al ribasso nei prezzi e dalla binarizzazione selvaggia del paese (nel 1909 negli Stati Uniti morivano, in incidenti ferroviari, 19 persone su un milione, mentre in Austria la percentuale era venti volte minore, attorno a 0,99 per milione) contribuivano a gettare le basi per uno sviluppo straordinario ma pagato a prezzo esorbitante.

È in una di queste avventure archeologiche che si scopre la ragione del titolo. Il maiale è infatti il fondamento dell’economia di Chicago. Non un maiale semplicemente macellato, ma un’entità definita in modo preciso e rigoroso, una quantità matematizzabile, un oggetto sezionato con precisione chirurgica. Sulla matematica del maiale e sulla razionalità della sua lavorazione è nata la ricchezza della città. Il meatpacking, localizzato soprattutto nella zona Sud di Chicago, è l’emblema del maiale industrializzato: la carne confezionata, conservata, distribuita, spedita in giro per gli States è il simbolo della forza economica di Chicagoland. E proprio nella Windy Town si compie la sublimazione del sezionamento scientifico del suino. L’aspetto aereo e astratto della carne impacchettata è trova la sua realizzazione nei futures, beni ideali, forward contracts che permettono di vendere oggi raccolti o derrate future, scommettendo sull’aumento o la diminuzione dei prezzi, ma portando all’estreme conseguenze la possibilità di fissare un’equivalenza della merce. Sul transito dei futures prospera la Chicago del duemila, erede immateriale della Packingtown ottocentesca. Da qui nasce l’esigenza di determinare standard perfettamente misurabili per derrate alimentari o per carichi di legname. Fissare standard significa stabilire discontinuità, individuare equivalenze, creare codici comuni. In questo modo, però, si gettano le basi per quella che è una delle caratteristiche più deleterie della spinta globalizzante, vale a dire la cancellazione delle differenze tra i prodotti. Stabilire categorie di equivalenza significa escludere di fatto dal mercato tutto quello che non rientra in queste categorie. Le mele non conformi a standard di misura vengono gettate, tutto ciò che si allontana dall’ideale e dalle categorie di giudizio non può rientrare nel circolo di equivalenze del mercato, e quindi non conta, è deleterio.

 A rendere interessante il libro per il dibattito attuale è però un altro elemento. Nella sua acuta lettura degli eccessi capitalisti d’Eramo individua uno dei tratti distintivi di quello che si potrebbe chiamare integralismo del capitale. L’autore non cerca e non offre soluzioni facili: si sforza piuttosto di lavorare sulle distinzioni, evidenziando la dimensione microstorica e microsociologica che caratterizza i singoli casi analizzati. E tuttavia emerge con forza la natura paradossale delle rivendicazioni totalizzanti della logica del capitale. Nel momento stesso in cui denuncia, a ragione, la natura ideologica dei presupposti marxisti, il capitalismo deregulated compie una petizione di principio. Rivolgendo contro di esso le obiezioni di un pensatore “amico” come Karl Popper, si potrebbe constatare l’impossibilità di falsificare la logica del capitale. La presunta scientificità capitalista si infrange contro una fiducia cieca nel suo destino storico. Ma la credenza nel potere assoluto dell’individuo e nelle possibilità di autoregolazione del capitale porta a contraccolpi di dogmatismo sconcertanti. Le complicità che legano la logica del socialismo reale a quella del capitalismo presente e futuro è sconcertante: “Se il miracolo non avviene è perché non si è pregato abbastanza; se il comunismo non si è realizzato è perché c’era poco comunismo. Se nell’economia di mercato imperversano miserie e abomini, non è perché c’è qualcosa di sbagliato, ma perché non c’è abbastanza mercato, perché troppi ostacoli si contrappongono alla perfetta realizzazione della competizione, pura, trasparente e immacolata. La ricetta di ogni integralismo è "Encore un effort": il mercato funziona male, dunque ancora più mercato” [1] . Il mercato non può sbagliare, il suo radioso destino è già scritto, credere in esso è solo questione di fede.

 Ma l’effetto perverso di questa epifania del sacro postmoderno è ben più evidente in una altro contesto: “Ora l’America, in quanto "terra promessa del capitalismo”, … ha portato all’estremo limite l’individualismo e l’eguaglianza formale. Ma le stesse necessità del capitale hanno riprodotto e nutrito un sistema castale, una frammentazione in sottosistemi olistici” [2] . Sottosistemi in cui la logica immunitaria e aggressiva della comunità separata porta alla nascita di divisioni etniche, sottogruppi di censo e di razza, città private difese da guardie armate, paradisi per anziani dove i pensionati vivono su roulotte e case mobili dopo aver pagato mutui per tutta la vita. A colpire i difensori del capitalismo avanzato dovrebbe essere soprattutto la natura semireligiosa di queste forme di appartenenza. Certamente non spetta allo stato il compito di dare significato e di offrire valori ai singoli cittadini. Il vuoto di valori non si può colmare con un intervento dall’alto. Ma la vertigine del capitale sembra dare origine a movimenti opposti: un nuovo fondamentalismo di casta, non opposto ma strettamente legato alla spinta del capitalismo stesso, nasce dalla progressiva realizzazione della terra promessa. Perciò, continua d’Eramo, “La logica del capitale appare in questo senso cannibalica, poiché, in base alle sue necessità, essa incrina e distrugge alcuni valori cardine che stanno alla base dell’ideologia capitalista, quelli che costituivano lo “spirito del capitalismo” di cui parlava Max Weber” [3] . Sono queste contraddizioni, che certo non ricadono interamente sulle spalle del mercato, a dar vita alla progressiva balcanizzazione di alcune aree del pianeta. L’alleanza tra globalizzazione, rete dei saperi, circolazione dell’informazione, rinascita delle rivendicazioni particolariste, non è esterna alla logica del capitalismo (come, ingenuamente, sembrano credere i No Global, continuando a ragionare in termini di contrapposizioni frontali), ma ne fa pienamente parte [4] .

 Molte delle argomentazioni proposte da d’Eramo permettono anche una lettura critica delle rivendicazioni “libertarie” portate avanti in questi mesi dal popolo di Seattle. Le moltitudini antimperialiste, bloccate su una posizione di demonizzazione del capitale, dimostrano di attribuire al “nemico” lo stesso alone sovrannaturale intravisto dai suoi sostenitori. In questo senso, uno dei capitoli più interessanti del Maiale e il grattacielo, riguarda la grottesca commistione di rivendicazioni sociali e rivalse religiose che contraddistinsero il movimento dei Black Muslims. Un personaggio come Malcom X, legato a deliranti e improbabili teorizzazioni sulla natura maligna dell’uomo bianco e sul carattere magico del potere che ha causato la sottomissione del popolo nero ai diavoli bianchi, risulta perfettamente integrato nel contesto di un sistema di vita come quello americano, in cui prosperano - accanto alle punte più avanzate della ricerca e della tecnologia - antidarwinismo, sette cristiane, predicatori televisivi e un sospetto innato nei confronti delle applicazioni della scienza. La spinta rivoluzionaria incarnata dall’icona Malcom X sembra andare a braccetto con la fede cieca nel mercato o con l’utopia del presunto potere di autoregolazione del capitale. Non siamo poi molto distanti dal miscuglio di new age, radicalismo politico, rivendicazioni legittime, senso di rivalsa e ecumenismo cattolico che caratterizza alcune frange del movimento No global (uso il termine in modo volutamente vago e impreciso). L’esplosione dei valori e la disgregazione del senso di appartenenza danno luogo a forme di comunità svuotate di ogni fondamento reale. Mostrando lo sviluppo di una pericolosa paranoia identitaria nel cuore del “razionalismo” del mercato, d’Eramo mette in guardia anche contro le risposte troppo semplicistiche al problema. È sulle contraddittorie alleanze tra posizioni opposte che vale la pena di riflettere, senza necessariamente prendere parte per uno schieramento o per l’altro. Altrimenti si corre il rischio di perpetuare la lettura della scuola di Chicago, che faceva del tessuto sociale uno spazio fisico, un territorio suddiviso in mondi lontani in perenne conflitto tra loro (e la società multietnica americana, sotto molti aspetti un modello da seguire, è anche il luogo in cui comunità sradicate inventano nuovi steccati e perpetuano antichi conflitti). L’orizzonte di senso di ogni forma di darwinismo urbano è uno strano ibrido tra positivismo e superstizione: fiducia cieca nel progresso e necessità di definire la propria identità rispetto ad un nemico sempre più vicino e minaccioso.

 Le vie d’uscita o le soluzioni possibili di fronte a una simile impasse teorica e pratica non si trovano operando divisioni nette o giocando con le logiche di parte, ma mettendo a punto strategie di riflessione e azione capaci di assumere la responsabilità dei paradossi della situazione attuale. Tra le altre cose, Il maiale e il grattacielo è anche un tentativo di rileggere la dimensione sociale come luogo di relazione e non come campo di battaglia tra schieramenti opposti. Solo la piena comprensione della natura riduzionistica e contraddittoria delle categorie di riflessione tradizionali (destra/sinistra; globale/locale; capitalismo/marxismo, ecc.) potrà permettere di elaborare una nuova logica, capace di riflettere in modo realmente efficace sulla natura contraddittoria e stratificata del nostro tempo. È quello che ha provato a fare d’Eramo, cercando di mostrare quella che nella quarta di copertina viene definita come la “straordinaria forza rivoluzionaria, sovversiva, del capitalismo puro”.



[1] Marco d’Eramo, Il maiale e il grattacielo, Feltrinelli, Milano 1999 p.333.

[2] Cit. p. 268.

[3] Ibid.

[4] Su questi aspetti paradossali d’Eramo si è soffermato nel suo libro successivo, Lo sciamano in elicottero.Per una storia del presente, Feltrinelli, Milano 1999.

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