BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 06/02/2006
Stefano Rosato

Oltre la gerarchia
recensione di:
Davide Storni ,
La persona finalmente!
,
Guerini E Associati, Milano, 2005

“Forse la voglia di cambiamento e la follia sono la stessa cosa?”

(Stephen King, Colorado Kid, tr. Sperling & Kupfer, Milano, 2005, p.142)

 

Introduzione

Il generale movimento della globalizzazione, a cui esordi la nostra epoca sta assistendo, impone, come è stato da più parti, anche sulle pagine di Bloom!, evidenziato, una profonda rivisitazione del complesso categoriale per il cui tramite siamo soliti interpretare il mondo e gli eventi che in esso accadono. Tale modifica concettuale dovrà essere applicata a tutti i campi del sapere umano: dalla filosofia alla politica, dalla scienza all’etica, dalla sociologia all’economia. È, infatti, una tipicità dei cambiamenti di epoca, dei passaggi da un paradigma evolutivo a un altro, la ridefinizione degli schemi di lettura e delle singole visioni che riguardano le cose umane.

È stato mostrato (1) come il movimento della globalizzazione comporti, quale suo primo e necessario corollario, il venir meno dell’efficacia e dell’efficienza degli strumenti operativi e di controllo che dispiegavano la loro presa – nel senso foucaultiano di generare un relazione dialettica fra potere e sapere – sulla società disciplinare. Quest’ultima, infatti, per funzionare, abbisognava dell’esistenza di una catena verticale e rigida di comando, che potremmo definire gerarchia, all’interno della quale si esercitavano, contemporaneamente, le dinamiche del controllo sociale e la trasmissione degli ordini (da quelli socio-comportamentali a quelli costituiti). La generale apertura delle forme di relazione sociale in senso orizzontale porta con sé la necessità della messa in discussione della verticalità gerarchica, al fine di verificarne l’attuale efficacia e di modificarne, eventualmente, direzione dispositiva e meccanismi di funzionamento. Resta vero, anche nel mondo globalizzato, che qualunque contesto umano organizzato necessita, al proprio interno, di differenziazione e quindi di ruoli, e che questi ruoli si dovranno dislocare sia orizzontalmente che verticalmente; tuttavia si può sostenere, senza tema di smentita, che la gerarchia che è stata propria al mondo moderno, dove ancora sussista, produce più danni di quanti non siano i problemi che è in grado di risolvere. Ne consegue l’obbligo di metterne in discussione i presupposti fondativi, qualora si voglia costruire una teoria – o, più semplicemente, seguire una prassi – che sia in grado di orientare l’agire di comunità organizzate nel senso dell’efficienza e dell’efficacia. Delle modalità concettuali di rielaborazione del sistema relazionale umano all’interno di organizzazioni complesse, aventi come scopo il profitto derivante da attività di business, e dell’illustrazione di alcune, preliminari, ma pur significative, esperienze applicative di dette modalità si occupa appunto La persona finalmente!

Crisi della gerarchia

La persistenza del concetto di gerarchia nel mondo moderno partecipa al più generale processo di allegorizzazione degli antichi simboli sacrali che costituisce, secondo Walter Benjamin (2) , uno dei più importanti tratti distintivi della modernità stessa. Gerarchia, infatti, deriva dal greco tardo hierarkhía < hierárkhēs, il quale ultimo termine designa il capo (arkhós) delle funzioni sacre. In questo senso è possibile sostenere che il concetto di trasmissione, implicito anche nella moderna accezione di gerarchia, derivi la propria efficacia dal fatto che tutti i membri della catena del comando partecipano, regolarmente, all’autorità che deriva dall’Uno (arkhós significa, fra l’altro, ‘essere il primo’), dal Principio. Durante il sopra accennato processo di profanazione della sacralità simbolica, tuttavia, tale Principio scompare, nel senso che viene totalmente mondanizzato, mentre la logica intrinseca alla meccanica gerarchica rimane immutata e continua a riferirsi a una trascendenza che non c’è più. Ciò comporta un forte livello di autoreferenzialità della gerarchia e dei suoi membri ed è proprio a questa radicale infondatezza (o falsa fondatezza) che, nella storia del pensiero politico ed economico degli ultimi quattro o cinque secoli, si è opposto quel movimento libertario che ha dato origine al liberalismo, prima, e al capitalismo, poi. L’inefficacia di questa autoreferenzialità nell’attuale scenario economico-imprenditoriale viene, con estrema precisione, identificata da Davide Storni ne La persona finalmente!, con particolare riguardo alla vita aziendale: “[...] la struttura gerarchica persegue un duplice scopo: da un lato quello di tramite fra il potere centrale e i settori operativi, attraverso la gestione dei sistemi di comunicazione e controllo, dall’altro quello di mantenimento e perpetrazione del proprio potere, sia nei confronti dei controllati che del potere centrale” (p. 40). Questa tendenza autonomistica e autoreferenziale è talmente forte da rendere inefficace la stessa esecuzione del comando proveniente dal vertice aziendale (3) , tramite la messa in opera di una serie di strategie bloccanti che vanno dal profondere energie verso il mantenimento dello status quo al mascheramente dietro al tecnicismo e all’adozione di prassi di gestione delle risorse umane che, sotto le parvenze di una bonarietà di stampo paternalistico, ne impediscono qualunque sviluppo in termini evolutivi (pp. 40-41). Ciò che sta in mezzo fra il vertice e la base della piramide aziendale, ovvero il middle management, finisce così per assumere una capacità di interdizione sostanzialmente assoluta, tanto relativamente ai messaggi che provengono dall’alto, quanto a quelli che, al contrario, si muovono a partire dal basso. Se, da un lato, sembrerebbe indispensabile porre mano a un nuovo modello organizzativo che sia in grado di rimuovere l’ostacolo costituito dal middle management, creando così una relazione diretta fra il vertice e la base, bisogna, dall’altro, riconoscere tutta la difficoltà di un’operazione di tal fatta, almeno per ciò che riguarda i contesti socio-economici europei, dominati dalle logiche del welfare state e da sistemi di guarentigie un po’ datati, ma non per questo meno solidi. Appare, pertanto, più appropriata una strategia di aggiramento del problema.

Il cambiamento

A certe condizioni, ovvero con un ragionato supporto delle strutture aziendali preposte alle innovazioni portanti e alla generazione di un sistema di valori condiviso, quali lo Sviluppo Organizzativo e la Formazione, è possibile, per Storni, far leva sullo spirito imprenditoriale delle persone che si trovano a operare all’interno dell’organizzazione. Bisogna sgombrare il campo dalla falsa credenza che lo spirito imprenditoriale sia una caratteristica solo di pochi e riflettere, semmai, sul fatto che “l’abnorme dimensione del genitore normativo nelle organizzazioni è causa di un processo di infantilizzazione delle persone che tendono a reagire di conseguenza, limitando il proprio apporto a quanto l’organizzazione chiede loro di fare, regredendo allo stadio di «dipendenti»” (p. 74). Tutto il mondo dell’impegno sociale, del volontariato, dell’associazionismo dimostra, in modo inconfutabile, che, in contesti differenti da quelli nei quali vige un rigida istanza regolamentativa di matrice gerarchica, lo spirito imprenditoriale dei singoli si attiva da sé, senza sforzo e con risultati, in molti casi, assai interessanti o, addirittura, sorprendenti. Invece, all’interno di un gran numero di aziende, “la centralità del concetto di gerarchia è tale che molto spesso [esse] tendono a investire energie ingenti solamente allo scopo di gestire le relazioni gerarchiche” (p. 200), in modo tale che “la gerarchia è divenuta un valore in sé, tanto da competere con i fini istituzionali dell’organizzazione” (p. 199). Le criticità causate da questo drammatico dominio delle anime morte, grave già per sé stesse, si elevano al quadrato in un’epoca storica nella quale dinamismo e velocità dei processi decisionali e di innovazione sono valori portanti ed essenziali per qualsiasi tipo di attività di business e il concetto di cambiamento assume, sempre di più, la funzione di una costante. Diviene, pertanto, fondamentale la capacità manageriale di attivare lo spirito imprenditoriale delle persone. Ciò può essere fatto, secondo Storni, tramite la costituzione di un modello partecipativo fondato sul dialogo e sull’ascolto, all’interno del quale venga favorito e facilitato un “apprendimento diffuso e continuo” da parte di tutte le persone che sono coinvolte nel processo di cambiamento (pp. 159-161). Tramite il ricorso allo strumento dell’empowerment è, infatti, possibile liberare forze sopite o non attivate nell’esperienza lavorativa dei singoli, aiutandoli a spostare l’attenzione dal concetto di bisogno a quello di sogno e di desiderio (pp. 24-38) e a elaborare in proprio piani di sviluppo individuali finalizzati al rafforzamento delle competenze tecniche e relazionali (pp. 89-101). Tali piani individuali di formazione, una volta definiti, comporteranno, per l’azienda, la necessità di una gestione delle risorse umane “una a una”, proprio perché, in essi, emergerà quella singolarità nucleare e irriducibile che, in senso letterale, costituisce l’individuo (pp. 119-130). In questo modo, facendo cioè ricorso alle energie e alla facoltà individuali, l’azienda riuscirà più agevolmente a gestire quel processo di cambiamento che, qualora fosse invece percepito come totalmente esogeno (4) , non potrebbe che incontrare forme di resistenza passiva, fino a cementare una paradossale alleanza di carattere difensivo fra la gerarchia e il lavoro vivo. Laddove, invece, si riuscisse a evitare il crearsi di questo potenziale accordo difensivo, ci si troverebbe in presenza di un sistema aziendale molto più articolato e complesso – e quindi molto più difficile da gestire – ma anche decisamente più ricco di aperture al nuovo e al possibile che ancora, per definizione, non sono, cioè maggiormente orientato al futuro e dunque in grado di assecondare e financo di anticipare il cambiamento.

Verso un nuovo modello organizzativo

L’apertura di questi nuovi spazi di possibilità impone, infine, alla riflessione di soffermarsi su due aspetti di fondamentale importanza per la riuscita del progetto di rinnovamento del quale si è fin qui parlato: la nuova managerialità, soprattutto di vertice, che dovrebbe istituire l’intero processo (accettando, fra l’altro, di subire essa stessa una serie di modifiche), e il nuovo modello organizzativo che comunque, al di là di quanto ho sostenuto in precedenza riguardo all’opportunità di aggirare l’ostacolo costituito dal middle management e dalla sua cultura intimamente conservatrice, andrebbe abbozzato almeno a grandi linee.

Per ciò che concerne il primo di questi due aspetti, nel suo libro Davide Storni offre preziosi spunti e svariate suggestioni, pur senza metterlo al centro di un ragionamento tematico in senso stretto. Il ruolo del vertice aziendale dev’essere quello di stabilire la vision e la mission dell’azienda, quello di dar voce a un sogno collettivo la cui pratica realizzazione la possa rendere un’azienda di successo nel proprio specifico campo d’azione, e quello di creare le condizioni in base alle quali questa progettualità possa trovare un’operatività. In quest’ottica non solo non è negativa, ma è, anzi, auspicabile, una “guida forte dell’organizzazione” (p. 160), una conduzione del gioco che garantisca la possibilità a tutti i componenti dell’impresa di trovare il proprio ruolo e di recitare la propria parte. Ancora una volta, nella strutturazione dell’agire umano in forma di collettività orientata a uno scopo, si evidenzia la decisività del momento della leadership, intesa, in questo caso, come capacità del manager e del capitano d’industria di creare consenso (e perciò partecipazione) intorno ai fini ultimi dell’organizzazione e alle modalità del loro raggiungimento. Capacità di visione, di ascolto e di governo della complessità, desiderio di auto-cambiamento e disponibilità nei confronti dell’innovazione e della sperimentazione, forte fiducia verso i collaboratori (motivata anche dal fatto che un intero sistema di formazione e circolazioni di informazioni sia stato, nel frattempo, messo in campo), che si estrinsechi nella figura operativa della delega: queste dovrebbero essere le caratteristiche principali della nuova managerialità, la cui urgenza sarà tanto più pressante quanto più subiranno un’accelerazione le dinamiche di innovazione della società civile genericamente considerata. Tuttavia, lo sforzo operativo e di istituzione di relazioni di questa nuova managerialità rischierebbe di essere vano, o almeno incontrerebbe, sul proprio cammino, ostacoli non facilmente sormontabili, se non fosse accompagnato da un ridisegno del complessivo modello organizzativo che dovrebbe, a mio giudizio, riguardare sia lo snellimento dei livelli gerarchici, sia una generale ridefinizione dei ruoli gerarchici all’interno dei gruppi di lavoro operativi (penso ai concetti di linkership e di leadership tematica e quindi non permanente). L’esperienza di Storni sul campo ha evidenziato (cfr. pp. Xxx-xxx) come la pratica dell’autogestione da parte di piccoli gruppi sia in grado di portare all’azienda risultati decisamente più proficui di quelli ottenibili attraverso il dominio della logica intrinseca alla catena del comando. Questo tema non viene compiutamente sviluppato da Storni, anche perché richiederebbe di por mano tanto alla natura, per così dire, costituzionale dell’azienda quanto al sistema esterno di garanzie di ordine giuslavoristico. Peraltro gli esempi di gestione autonoma di piccoli gruppi che vengono presentati al lettore sono particolarmente convincenti e fanno riflettere sull’opportunità di rivolgere, in un futuro non troppo remoto, l’attenzione a ridosso di un’ipotesi di azienda degerarchizzata almeno per quanto attiene alla forme intermedie della catena del comando.


1 - Michael Hardt e Antonio Negri, Impero, tr. Rizzoli, Milano, 2002.

2 - Cfr. Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco (1928), tr. Torino, Einaudi, 1980.

3- Quando, tecnicamente, ve n’è uno. Si potrebbero citare esempi di aziende nelle quali la gerarchia medesima occupa tutto lo spazio del potere, anche quello normalmente destinato al vertice. Questo assolutismo gerarchico, in assenza di un leadership caratterizzata da una seria capacità di vision, azzera, a favore del rispetto di un rigido formalismo burocratico, qualsiasi creatività e iniziativa.

4- “La resistenza al cambiamento non esiste. [...]È però vero che molte volte di fronte a un cambiamento indotto da forze esterne, rispetto al quale non si possiede una strategia vincente, le persone reagiscono cercando di resistere [...]. In questo caso uno dei modi più comuni di reagire è proprio quello di opporre una resistenza più o meno attiva, nel tentativo di posporre e/o minimizzare gli effetti negativi del cambiamento, o più semplicemente per vendicarci in qualche modo di chi ci ha condotti in questa spiacevole situazione” (p. 131). È interessante notare come sia proprio il livello intermedio della gerarchia, cioè il middle management, il più refrattario al cambiamento: esso partecipa, infatti, ad alcuni privilegi del vertice, senza però correre i rischi ai quali è sottoposto quest’ultimo. D’altronde è noto che la piccola e la media borghesia sono, in tutti i sistemi sociali, i ceti naturalmente più conservatori.

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