BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 14/02/2011

Maria Cecilia Santarsiero

NASCITA E MORTE DEL MANAGEMENT

recensione di:
Francesco Varanini
Contro il management. La vanità del controllo, gli inganni della finanza, e la speranza di una costruzione comune
Guerini e Associati, 2010

Coraggio, rigore, realismo, ricchezza di storia e significati, capacità di rappresentare  e decodificare la complessità in gioco della realtà socioeconomica in cui viviamo, sono le prime parole e impressioni che mi ha suscitato la lettura del libro di Francesco Varanini, Contro il Management.Mr. Finance e la natura del management oggi
L’autore introduce il lettore ai contenuti più complessi partendo dal significato delle parole che ormai usiamo correntemente, avendone smarrito il senso primario e soprattutto la storia che ne ha determinato nascita ed evoluzione. Questo percorso di senso è una traccia utile per illustrare e capire come sono cambiati, a partire dagli Anni Trenta ad oggi, i rapporti tra la forza lavoro e chi la  dirige, tra il potere amministrativo e politico e la gestione dell’impresa, tra manager e imprenditore - e soprattutto tra economia e finanza.
Prezioso ne risulta il quadro storico ed economico di ricostruzione della nascita della figura del manager. La crisi degli anni Trenta,  le teorie ispiratrici di J.M. Keynes, la necessità di trovare risposte alla crisi che attanaglia l’America e l’Occidente, concorrono a fare emergere una nuova figura “di grande apertura mentale, in grado di governare organizzazioni complesse e capace di operare in autonomia, con visione strategica ma anche con attenzione alla pratica quotidiana (…) che considera virtù professionale e mandato etico l’operare in un quadro di regole definite dagli Stati e dagli organismi internazionali”.
Presto, però, questa missione entra in rotta di collisione con la necessità di creare sviluppo e risultati, e il management che era nato per guardare al di là si riduce a verifica della congruenza tra piani e risultati. In una parola, al controllo.
Arrivando ai nostri tempi, da controllore il manager è finito per essere un controllato da forze meno immediatamente identificabili rispetto al Padrone/Imprenditore, forze che l’autore riassume in una parola sola: Mr. Finance.
Il panorama economico rispetto agli anni Trenta è completamente cambiato, mentre allora erano gli imprenditori, gli industriali a detenere quote di azioni nelle banche, oggi sono le banche, i fondi finanziari ad acquistare quote di azioni delle aziende.
L’unico stakeholder che conta, afferma l’autore,  nell’organizzazione aziendale oggi è la comunità finanziaria che è la vera fonte di remunerazione del manager.   “La gran parte del tempo dell’Amministratore Delegato, è dedicata a tenere a bada gli investitori a blandirli, rassicurarli. Se i dati trimestrali o di bilancio non sono lusinghieri, l’investitore non sente ragioni”.Mr. Finance ha cambiato dunque il senso stesso del fare impresa, ne ha snaturato il suo fine, poiché il suo unico scopo è quella della difesa della propria esistenza, di un’accumulazione di ricchezza destinata solo a generare altra ricchezza.A mio parere, attraverso tali meccanismi,  si è spezzato,  interrotto, depotenziato il rapporto diretto tra chi produce e cosa produce, il legame  “sensibile e ispiratore” della avventura dell’impresa, dell’”intraprendere” come processo di trasformazione della realtà socioeconomica. Quel rapporto dettato dall’amore per ciò che si produce: che deve essere bello, innovativo, competitivo, duraturo,   che è l’amore per  quello che si fa e per le persone che aiutano a realizzarlo.Anche se può apparire scontato,  qui viene proprio bene citare una delle frasi di Adriano Olivetti in cui più mi riconosco : “E’ molto importante che si dia un fine al proprio lavoro, ma ciò implica aver risposto ad una domanda che non esito a definire una delle domande fondamentali della mia vita, profondamente discriminante per la fede che presuppone e per gli impegni che implica. I fini dell’industria si trovano semplicemente nell’indice dei profitti? O non vi è al di là del ritmo apparente, qualcosa di più affascinante, una trama ideale, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica?”Non è nostalgia per il passato, è solo che queste affermazioni pronunciate da uno degli imprenditori più illuminati della nostra storia  rimettono in corsa - accanto a budget, risultati, profitto,  ricchezza, velocità e competizione - parole come valori, trama, destinazione, vocazione.Divertente, sofisticata e irriverente la carrellata dei profili redatti da Varanini a rappresentare i manager di oggi, ve ne propongo i titoli poiché vale la pena di leggerseli direttamente: dal Manager come si deve al Cocco dell’analista finanziario, dal Complice al Miracolato, dal Lobbista che gioca in proprio al Cinico Umanista per finire con il Manager Cresciuto in Casa.
Come in tutte le semplificazioni, l’autore in questo caso corre il rischio di parzialità e integralismo illuminando solo gli aspetti più critici e discutibili, ma la rappresentazione che ne risulta costringe i manager attuali a fare i conti con una revisione critica delle proprie scelte e dei propri comportamenti.
Nella mia esperienza, come sicuramente credo in quella di Varanini,  non è mancato l’incontro con il Manager Appassionato, un manager non così frequente ma presente, che crede in quello che fa e sa fare scelte che mettono in discussione la propria carriera o la propria affermazione personale per rimanere fedele ai propri valori, alla propria visione di azienda e di società.   Gli albori della storia imprenditoriale italiana.
Raccontata come la trama di un film, agli albori della storia imprenditoriale italiana ecco i suoi attori protagonisti più importanti: la competizione tra  due modelli economici rappresentati dai profili di Carlo Feltrinelli e Alberto Beneduce. Competizione che si risolve in favore di quest’ultimo a causa della scomparsa prematura del primo, non senza conseguenze, racconta Varanini, sul modello di sviluppo economico del nostro Paese, di cui ancora possiamo vederne gli effetti.
Carlo Feltrinelli è portatore di un modello di impresa che ha la sua caratterizzazione primaria nell’avere come punto di riferimento la business community internazionale, tratta e negozia con il pubblico, ma non scende a patti. Beneduce,  invece, progetta un modello nazionale in cui il confine tra pubblico e privato è molto sottile, anzi così interconnessi da essere legati allo stesso destino, facilitando la strada a possibili e probabili collusioni. L’erede di elezione, secondo Varanini, di questo modello che ha al suo centro gli equilibri dei poteri è Enrico Cuccia.

Non poteva non mancare un riferimento al personaggio-imprenditore  Adriano Olivetti, ma anche in questo caso l’ approccio dell’autore è originale e fuori dalle conoscenze consuete,  illuminando Olivetti  attraverso la storia di Natale Capellaro, che a quattordici anni entra in azienda come apprendista operaio.   Capellaro è persona affascinata dal mondo dei calcoli, mondo molto più complesso di quello delle macchine. Diventa con il tempo operaio specializzato e in piena guerra un giorno viene scoperto mentre porta via dall’azienda materiali di laboratorio, per questo viene subito sospeso. Ma Adriano Olivetti, da uomo curioso, laterale e privo di pre-giudizi qual’è, vuole saperne di più e lo convoca. Da allora Capellaro diventa uomo strategico dell’innovazione delle macchine di Olivetti, il quale aveva non solo saputo distinguere un semplice furto da un eccesso di passione, ma soprattutto  lì dove gli altri si sarebbero fermati all’apparenza, lui era andato a vedere, ad ascoltare, trovando  la genialità lì dove si credeva di vedere soltanto disonestà e corruzione. E bene fa  Varanini a chiedersi: quanti manager oggi sarebbero disposti a fare altrettanto?Nel  ripercorrere la nostra storia di sviluppo socioeconomico, l’autore non poteva non fare  un riferimento alla piccola impresa di cui coglie lo spirito caratterizzante nella forte identità: “la piccola impresa cresce ed evolve nella misura in cui crescita ed evoluzione non allontanano da ciò che l’imprenditore soggettivamente vive come necessario e giusto”.  

Vano il management  
E’ questo il titolo di uno degli ultimi capitoli del libro, in cui l’autore rinforza il suo pensiero  ri-affermando che il manager, figura professionale auto-legittimata dal possesso dei propri strumenti di controllo e pianificazione, nel momento in cui ha accettato l’abbraccio mortale di Mr. Finance ha esaurito la sua funzione.
Serve quindi una nuova guida, un nuovo governo, una diversa cultura organizzativa fondata sull’assunto dell’azienda come costruzione comune. L’indicazione fornita dall’autore individua nel Project manager il manager del futuro, come colui capace di soddisfare gli interessi comuni, capace di fare in modo che ognuno degli attori compresenti – e non solo la lunga mano divoratrice di Mr. Finance – siano ascoltati, rappresentati e riconosciuti come parte di un insieme interconnesso.
Su questo punto, nutro delle perplessità, non so se in questa fase così complessa per le organizzazioni e la loro sopravvivenza, così caratterizzata da  cambiamenti e inciampi, da discontinuità e ricorso alle soluzioni del passato,  il Project Manager possa realmente corrispondere ad una nuova concezione di management.Non so dire sé sia sufficiente legare il proprio ruolo alla realizzazione di un progetto concreto cercando di rappresentare tutti i punti di vista-interessi  in gioco, per dare vita  ad una diversa cultura manageriale.
O, se forse, sia necessario ri-pensare proprio il modello di organizzazione e del fare impresa, la concezione strutturale del modello di sviluppo per aprire la strada ad una nuova e diversa interpretazione del modo di lavorare insieme.Preferisco, di quest’ultima parte del libro, quella in cui l’autore, coerentemente con l’impostazione generale, non fornisce ricette, non indica la strada né le verità da rincorrere; si limita a proporre in modo “vagabondo ed esplorativo”   alcune linee guida: scegliere una donna, ispirarsi alla cultura multietnica, portare alla luce risorse latenti attraverso la curiosità per la diversità, la contaminazione, il meticciato, affrontare il rischio e l’esperienza di imparare a nuotare tra le meduse…Per tutto ciò che ho letto, per la ricchezza delle informazioni-ricostruzioni, per le provocazioni che fanno riflettere e divertire, questo libro dovrebbe secondo me intitolarsi Per il management, poiché sarebbe auspicabile introdurlo nella formazione di coloro che nella costruzione del proprio progetto professionale cercano la loro felicità nel senso che al termine dà anche Enzo Spaltro: felicità come sentimento di costruzione, come esperienza di costruire qualcosa, di farlo per sé insieme agli altri. 

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