BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 01/01/1998

FABBRICA, AZIENDA, IMPRESA.
PER UNA NUOVA SEMANTICA DEL LAVORO
di Stefano Rosato

Race de Caïn, aux ciel monte et sur la terre jette Dieu!
(Ch. Baudelaire, Abel et Caïn)

Il nuovo scenario
L'epoca alle cui soglie siamo si annuncia sovraccarica di un'energia e una tensione rivoluzionarie,con le quali non é più possibile differire il confronto.
La fine del taylorismo prodotta dall'innovazione tecnologica a partire dagli anni Settanta, con conseguente "liberazione " di forza lavoro, il passaggio dal paradigma fordista alle scommesse e alle incognite del postfordismo, le sempre meno praticabili dinamiche sociali di massa legate al welfare state e alle sue strutture di garanzia, la redistribuzione di un sapere non più fissabile come esperienza vissuta (Erlebnis), ma come esperienza sempre in via di farsi, perennemente on the road (Erfahrung), impongono una ridefinizione concettuale e categoriale di tutto l'esistente. In questo senso, secondo l'insegnamento nietzscheano, é sempre più necessario trasvalutare i valori, ricondurli, oltre il loro essere definiti nei termini di una valorizzazione data, verso un orizzonte nuovo e diverso di senso, che ne oltrepassi la crisi in un gesto di assoluta apertura verso il futuro degli uomini del futuro.
Tuttavia questo passaggio, proprio per il carattere dell'epoca, per la sua logica, come si vedrà, strutturalmente portante, non potrà non tenere conto di una serie di dinamiche in atto, faticosamente acquisite, e non potrà pertanto presentarsi, all'interno della propria forte ricollocazione di valori, né come la falsche Bewegung di un pensiero regressivo, che teorizzi sordidi ritorni ad arcaiche semplicità sociali, né come la fissazione in forma di delirio del sogno utopico di una società pur sempre amministata, quantunque dalla parte del "giusto". Ambedue queste tentazioni alla resistenza nei riguardi dell'innovazione ci sembrano pericolosamente presenti all'interno della cultura critica della diversità, e rispetto a tutte e due l'epoca reagisce nella forma di una negazione-riappropiazione delle forme cave, proponendo quella dialettica in stato d'arresto di cui già parlava Walter Benjamin.
Ciò possiede per la considerazione filosofica la doppia valenza di non incorrere in errori e disastri del passato (sia nel senso dell'irrigidimento conservativo delle forme sociali raggiunte sia in quello della realizzazione di orizzonti di senso mostruosamente immutabili), da un lato, e di superare-non-superare la potenza del conflitto sempre in atto, come Hohenzeit del dispiegarsi della vita. Passando dal concetto generale alla sua applicazione sul terreno dell'economia, sembra ormai chiara una decisa tendenza dell'epoca verso la liquidazione della centralità del momento economico nella regolamentazione dei rapporti di forza tra le classi, ma senza che ciò comporti buffe ed impossibili concertazioni di natura semicorporativa o sognanti Eden ricostituiti di uomini sempre (e sempre tutti) uguali. Cercheremo di illustrare questo passaggio attraverso un'analisi dei concetti chiave del mondo del lavoro, per orientarli verso una rinnovata semantica che sia in grado di mettere in luce, come aspetto vincente, la nuova forma di relazione sociale instaurata dall'era della tecnologia avanzata.

La fabbrica
Il primo termine cui mette conto occuparsi per tentare di inquadrare il complesso fenomeno della semantica del lavoro possiede, per cosi dire, un portato originario. Fabbrica occupa uno spazio all'interno dell'area di significato del fare, e designa il luogo in cui un'azione umana impone il proprio potere di trasformazione sulla natura inerte, su ciò che è ancora non oggettivato.
Tale luogo si presenta, tuttavia, come non indifferente rispetto alla logica che ne permea il momento organizzativo. Fino al moderno, ovvero fino alla fase industriale della trasformazione della materia, la fabbrica e i suoi operai non sono mai comprensibili se non all'interno di una cultura diffusa in cui la modificazione organizzata dell'esistente e dell'inerte possiede una valenza di natura sacrale. Per esempio, l'artigiano che pratica un'ars è maggiormente apparentabile all'artista che all'artigiano moderno. Inoltre l'azione di trasformazione della materia non è vissuta come violenza di un attivo su un passivo, anzi, secondo l'espressione di Tommaso d'Aquino, ars imitat naturam eius modus operandi. Dal punto di vista di un'analisi del linguaggio è possibile reperire, nelle lingue antiche, molteplici esempi di scarti semantici di questi termini chiave rispetto al moderno. Per esempio il verbo greco che indica il fare è poiœw, da cui deriva il sostantivo poÐhsiv, poesia.
La fabbrica,quindi, in quelle che Guénon e Coomaraswamy denominerebbero "società tradizionali", è un'organizzazione in cui la trasformazione della materia in manufatto avviene all'interno di uncontesto per il quale l'efficacia di tale trasformazione è possibile, solo e soltanto, laddove l'operatore sia ammesso ai segreti di un'ars il cui scopo ultimo è proprio la trasformazione spirituale dell'operatore stesso, il compimento di un'Opera di ordine sostanzialmente intellettuale. Esiste a questo riguardo tutto il problema della scelta, della selezione, dell'elezione, di artieri ed operai, che tali possono essere perché il magister li ha designati al compito, all'interno di strutture organizzate di tipo iniziatico, nelle quali si presiede non soltanto al ciclo produttivo, ma anche e soprattutto alla realizzazione dei soggetti che vi prendono parte, allo sviluppo delle risorse umane.
L'odierno capomastro non è che la debole eco dell'antico magister della corporazione dei costruttori, che nella storia ha preso il nome di Massoneria (dal francese maison). Per ragioni molto complesse, che non è possibile qui indagare, il moderno smantella questo ordine antico della produzione, il cui modello organizzativo si segnalava per l'emergere di un sistema di rimandi e
corrispondenze di natura simbolico-spirituale. Nell'ordine antico era impensabile il concetto di sfruttamento, proprio perché il centro del ciclo produttivo rimandava ad un Altro, tuttavia sempre presente, per ogni singolo soggetto, solo nell'atto corrispondente al proprio mestiere, al quale il soggetto stesso era chiamato per natura. Il passaggio al moderno, che si configura, come ha mostrato Benjamin, in un processo di allegorizzazione dei simboli, sottrae terreno e sostanza all'ordinatamente gerarchizzato kÙsmov precedente: il pater, garante della corrispondenza dell'ordine umano con quello divino, vertice iniziatico del sistema di potere interno alla famiglia (che spesso nel Medioevo si contraddistingue per una plurigenerazionale appartenenza alla medesima corporazione), diventa il padrone della fabbrica, dell'opi-ficium, in cui la spiritualità della produzione è azzerata a favore di una bruta materialità. Ancora, il paternalismo dei padroni ottocenteschi altro non è che il residuo assai depotenziato di quell'originaria gerarchia iniziatica.
È stato mostrato come il processo iniziatico antico conduca chi ne prende parte al superamento dei limiti intrinseci del principium individuationis (Guénon). Proprio perché il centro del processo produttivo nella fabbrica antica era di natura spirituale, la completa realizzazione in esso del soggetto lo liberava dalla propria chiusa individualità, restituendolo all'‹qov della comunità, con la quale non è difficile immaginare come potesse finire per con-fondersi. L'araldica dello stemma, del marchio, elimina la valenza specifica del singolo individuo, lo rende parte, sovente inseparabile, della comunità cui appartiene. Il che sembrerebbe vigere al di là di qualunque distinzione di classe, come spiega Marx nei Manoscritti economico-filosofici del '44, a proposito del von nobiliare che non indica il possessore della terra, ma il suo posseduto. Questa nichilizzazione del soggetto è precisamente ciò che rimane dell'antico processo di produzione nel moderno. La fabbrica capitalistica ottocentesca trasforma il plusvalore dell'attività lavorativa da profitto per la comunità gerarchicamente organizzata e garantita, a profitto per il pater divenuto padrone, senza che vi possa essere più alcun ritorno per coloro che a tale processo hanno sacri-ficato la propria individualità. Si potrebbe dire che la fabbrica resti il luogo della de-individuazione, ma che, in esso, non si costruisca più alcuna comunità dotata di senso, ma soltanto un aorgico cªov di massa, che paga il prezzo della rimanente individualità del padrone. L'operaio-massa della fabbrica ottocentesca aliena la propria individualità a favore del capitalista e, una volta compiuto questo gesto, finisce per appartenere a una comunità dagli occhi vuoti. In ciò consiste, precisamente, il suo fare.

L'azienda
Vista dall'altro lato di una non metaforica barricata, l'azienda è il problema della fabbrica come sua conduzione. La conduzione dell'azienda, ovvero delle cose da guidarsi, comincia a quel livello della gerarchia (caporeparto) in cui inizia a ri-manifestarsi il principium individuationis, e prosegue verso l'alto attraversando tutta la schiera impiegatizia, il cui compito è quello di garantire la regolarità amministrativa del meccanismo di regolamentazione dello sfruttamento operaio.
Etimologicamente azienda proviene dallo spagnolo hacienda, apparentabile a faccenda, dal lat. facienda, che significa le cose da farsi. Azienda avrebbe cosi a che fare con la vita attiva,
contrapposta alla vita contemplativa, azione contro pensiero. In questo senso l'azienda è sempre tutta interna alle sue forme, incapace di dialettizzarle, di metterle in crisi: è perciò che la crisi dell'azienda si configura immediatamente come la sua fine. L'assenza di pensiero costituisce l'azienda come mera operatività, meccanismo ripiegato su se stesso, luogo sovrano del dispiegarsi delle forze mitiche del diritto e dell'ordine. In tal senso tratteggiamo qui un duplice significato di azienda: essa è, da un lato, l'insieme della cose da farsi e da coordinarsi, appunto l'agenda, ma dall'altro è anche l'insieme delle attività stesse di coordinamento. L'enfasi del concetto di azienda è comunque quasi del tutto incentrata su questo aspetto traslato del suo significato; ciò assume assai spesso, in un'epoca in cui il lavoro materiale cede sempre più il passo al lavoro non operaio, i tratti molto marcati di un'assoluta e assolutamente inconsistente autoreferenzialità: l'azienda diventa il coordinamento delle attività di coordinamento, e in ciò parrebbe consistere il suo massimo livello teoretico, che si esplica nella figura del manager. L'originaria attività di coordinamento insita nell'azienda, strutturandosi storicamente nelle forme di una gerarchia rigida e non democratica, alla quale si può accedere soltanto per cooptazione, rivela la necessità di forte controllo sociale dell'operato dei comparti produttivi. I controllori, veri e propri sottufficiali e ufficiali di funzioni militarizzate, alienano al padrone la propria libertà di pensiero in cambio di una parvenza minima di riconoscimento individuale (che, nelle fasi più recenti, si estrinseca nel concetto deviato di risorse umane, poste a lato e in conflitto con le risorse non umane), che, nel processo di compimento dell'ascesa del capitalismo come forma sociale imperante nell'Occidente, si configura, in maniera ridicola, in un differente accesso a soglie di reddito "elevato", peraltro da spendersi e realmente speso in panem et circenses. Ciò appare con la massima efficacia e devastazione morale nella ricorrente espressione: "Siamo uomini d'azienda", che implica un'assoluta rinuncia al proprio livello di pensiero e conflittualità, in direzione di una supina e prefreudiana accettazione della logica del comando violentemente imposta dalla gerarchia. Questa dinamica dell'agire sociale si è sviluppata in modo ipetrofico negli ultimi vent'anni, fino a riguardare un numero enorme di occupati, e quindi fino a coinvolgere una rete di relazioni sempre più vasta. Oggi questo modello ci sembra essere entrato in una fase di crisi mortale, il cui esito non potrà che essere il centro logico di qualsiasi politica futura.
Come già nella fabbrica della fine degli anni Settanta assistiamo, e sempre più, nei prossimi anni, assisteremo, a un processo di automazione molto spinto che non investe, ora, il processo di produzione, ma quello di coordinamento delle attività e di presa delle decisioni, dove i nuovi esponenti del lavoro non operaio si avviano a svolgere un ruolo centrale, in quanto la qualità delle loro analisi sempre più sofisticate orienta il processo decisionale in maniera diretta. D'altra parte, il nuovo orientamento delle competenze necessarie allo svolgimento di questi lavori di tipo intellettuale, produrrà, da un lato, una contrazione degli occupati di ogni singola azienda (a parità di condizioni attuali) e, dall'altro, il formarsi di meccanismi di reciproca interferenza di soggetti e di gruppi attivi, con la conseguenza che l'istanza di un controllo sociale sull'attività degli operatori diverrà essa stessa automatizzabile almeno in parte, per un verso, e sempre meno utile ed efficace, per l'altro. A quest'altezza si apre logicamente un nuovo scenario di forte conflitto sociale tra i vecchi ceti dominanti e i nuovi soggetti, il cui esito non è affatto scontato: come ha sostenuto Pierre Lévy, lo spazio antropologico del sapere (che dovrebbe essere quello aperto dalla nuova epoca, in cui il momento economico non sarebbe più centrale) è, almeno per una sua parte, quella politicamente più rilevante della costruzione di rapporti di forza diversi fra i gruppi sociali, una possibilità, un'opportunità tutta da giocare.

L'impresa
Al concetto di azienda intesa come mente regolatrice del corpo prima fisico e poi virtuale della fabbrica, contrapponiamo l'impresa, definendola come l'insieme delle cose da pensarsi e delle loro relazioni. Impresa, da in-prehendere, prendere dentro, prendere insieme, è concetto anzitutto collettivo.
Nell'impresa non vi è alcuno spazio per il manager e la sua solitudine di ruolo (pur essendovi molti spazi per le singole solitudini e il loro eventuale incontro); l'impresa, luogo della collaborazione e della massima creatività, è ricchezza di tutti e di ciascuno; essa mantiene il momento dell'azione, ma non come tempo lavoro dell'applicazione di un già pensato, in quanto la sua propria forza è appunto il pensare. In questo senso, come si diceva sopra, pensiero e azione non sono disgiungibili, sia in quanto ogni azione è supportata da un pensiero, sia in quanto ogni pensiero è esso stesso, per il fatto di essere, azione. Nell'impresa saltano perciò le gerarchie e i ruoli rigidamente codificati: nel libero disporsi della sua creatività, l'impresa ha tanti leaders, o meglio linkers, quanti sono i singoli momenti del suo pensare-agire. Proprio per la complessità e la sofisticazione dei processi che l'attraversano, essa non può avere coordinatori fissi e dati una volta per tutte. L'impresa si configura, pertanto, come una forma di mondanizzazione del politeismo.
Che ciò possa realizzarsi senza uno scontro sociale fra gli uomini del futuro, e soggetti dell'impresa, e gli attuali alienati in posizione di privilegio, i managers, è ovviamente impossibile. L'unica arma che il management, la nomenklatura, sembra oggi possedere è quella del rallentamento del processo innovativo che coincide con l'affermarsi dell'impresa. Tale battaglia è si di retroguardia, ma se essa dovesse passare a livello economico e politico, oltre ad avere delle ottime possibilità di riuscita, rallenterebbe drasticamente e con conseguenze disastrose il pieno manifestarsi delle potenzialità di sviluppo implicite nell'epoca. Il meccanismo della concertazione come modalità di regolamentazione e annullamento del conflitto è la chiave di volta dei rapporti sociali all'interno della fabbrica e dell'azienda fordiste. L'impresa postfordista assume invece, contro la concertazione e la cultura della mediazione, una cultura forte dell'affermazione, della dialettica e quindi del conflitto. Il conflitto e il suo cum come valore fondante dell'impresa la differenziano dagli altri luoghi precedenti in quanto essa, per esistere, abbisogna delle singole individualità e del loro orizzonte di desideri, pensieri, esperienze, ecc..., ma anche di una loro coesione che dovrà essere, di volta in volta, ridiscussa. In questo senso la nuova attività lavorativa (ma si tratta di un lavoro che si appropria di mezzi ed opportunità, che supera sé stesso in direzione della libertà, tanto più quanto più in esso trovano spazio quei conflitti che erano banditi dalla fabbrica e dall'azienda) ci si precisa come precaria, flessibile, transeunte, variabile. Ciò impedisce l'idealismo dello stato edenico, l'altra faccia, antiaziendalista, dell'aziendalista "fine della storia".
Nel passaggio da azienda ad impresa salta anche, come abbiamo già detto, la centralità quasi metafisica del momento economico come regolatore dei rapporti sociali. Proprio la decisività del momento teoretico, del pensiero e della vision, pone in secondo piano l'elemento economico, e quindi il profitto. Questo è, peraltro, un tema generale nello spazio antropologico del sapere, ove, la forte innovazione tecnologica, dovrà per necessità riorientare gli investimenti sociali e i consumi, nella direzione di una forma della qualità che è cosa assai altra dalla forma della quantità attuale. Questo concetto non può essere messo fra parentesi immaginando provvedimenti tampone dalla praticabilità limitata nel tempo, come lo sviluppo delle organizzazioni no profit e dell'economia sociale, come propone, per esempio John Rifkin, ma affrontato come nodo strutturale, come chiave di volta di un nuovo patto sociale, per il quale il centro dell'agire politico-economico non sia l'idiozia accumulativa, ma la qualità complessiva della vita, del singolo individuo e delle comunità. Rispetto a questi passaggi l'impresa svolgerà, e, in parte sta già svolgendo, un ruolo fondamentale di accelerazione del processo. E all'inevitabile scontro che in essa prenderà corpo ci dobbiamo fin d'ora preparare.

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