BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 01/04/2002

DELLA GERARCHIA

di Stefano Rosato

Nell’era dell’Impero, questioni come quelle poste in Il Festival di Sanremo e l’empowerment da Marco Poggi (Bloom!, 25 marzo 2002) sono centrali e il confronto con esse non è solo interessante, ma è anche necessario. La riappropriazione degli spazi decisionali e di definizione delle strategie da parte del lavoro vivo, contro le logiche della gerarchia, il suo farsi im-presa, collettività, comunità fatta proprio da quei singoli individui, fusi fra loro nella logica di un progetto, di un’idea, di una missione, ma non confusi, ancora separati in questa unitarietà, e dunque liberi per quanto l’uomo possa esserlo, diviene, proprio mentre scriviamo, il tema dominante nel campo della politica, dell’economia, del sapere. La gerarchia ha, come unico scopo, quello di perpetuare sé stessa, di estendere il ciclo storico del proprio dominio oltre quello della propria vita. Nella società disciplinare descritta mirabilmente da Michel Foucault in tutta la sua lunga ricerca, la gerarchia aveva un compito organizzativo preciso e forte: quello di rappresentare la struttura della riproduzione sociale nel suo complesso all’interno di un ambito definito. Questo compito era proprio a tutte le gerarchie, da quella del lavoro a quella del sapere, da quella militare a quella della politica. Esistevano, poi, meccanismi di regolamentazione del conflitto fra le gerarchie della società civile  e il ruolo rivestito dallo Stato nel promuoverle e nel gestirle, nell’ambito di un movimento dialettico di natura hegeliana che contribuiva a creare la forma sociale della borghesia onesta fatta di notabili, contrapposta alla volgarità dell’incivile massa. Il ruolo della gerarchia non si limitava alla definizione delle modalità di produzione e alla trasmissione del comando lungo le linee della propria disposizione, ma era veramente centrale soprattutto nelle operazioni di riproduzione sociale e nella formazione delle pratiche del disciplinamento che, con quella riproduzione, erano una cosa sola. Tuttavia, il suo senso si esaurisce del tutto all’interno di una società aperta come quella attuale, nella quale i tempi delle singole attività si compenetrano in continuazione, in un gioco di infiniti rimandi, come un sentiero fatto da giardini che si biforcano. Le singole gerarchie saltano perché la loro ragione originale, quella di disciplinare, di volta in volta, contesti determinati, viene meno in senso strutturale, in quanto tutti i contesti divengono indeterminati, ibridi e fluidi.  La struttura di potere dell’azienda vigeva in azienda e quella della famiglia in famiglia: che cosa succede di queste due gerarchie in uno scenario nel quale, per esempio, una quota crescente del prodotto è generata da home workers? Nell’epoca del lavoro immateriale si impoverisce la figura del manager, intesa in senso lato: nei gruppi di dirigenti di azienda, negli erogatori di sapere nel sistema scolastico, nei politici, è sempre più evidente un’assenza radicale delle forme di conoscenza che, oggi, sono decisive nella gestione dei processi economici, culturali e politici. Questo concetto si rappresenta con la massima chiarezza qualora si ponga attenzione al livello di competenza tecnologica posseduta dai soggetti sopra elencati. Il manager tipico pensa che la tecnologia sia un mero strumento, un supporto che potenzia la capacità di agire, un medium, e non una forma della produzione umana che cambia, in profondità, la struttura del pensiero e del corpo. Egli rifiuta, in altri termini, che debba essere ridefinita la logica immanente alle forme del potere e del sapere, come se fosse possibile mantenere intatti tutti i presupposti ideologici nel passaggio dalla fase storica precedente a quella attuale. Il manager è l’esponente principale di un nuovo pensiero debole e pre-tecnologico, quello dell’uomo perenne, che non interagisce con lo sviluppo della storia e non è toccato dai suoi grandi cambiamenti, ma resta “puro” (si tratta, ovviamente, di una purezza tutta vagheggiata e non già reale, pensata in modo astorico, come se non fosse il prodotto di una dinamica sociale). Gli si contrappongono tutte le pratiche alternative di cui è intessuta la nostra società, tutte le ibridazioni dei fanatici del piercing e dei tatuaggi, dei transgender e dei cyborg, degli uomini-macchina, dei maniaci di internet, degli hackers dai capelli verdi come quelli dei punk. Tutte nuove figure, molte delle quali stanno alterando le dinamiche immanenti ai processi di produzione e di riproduzione sociale, negando la scissione del tempo in comparti separati e amministrati, riunificando gli spazi economici, culturali e politici in un unico luogo senza confini e senza chiusure.

In questo senso le vecchie gerarchie sociali non sono più solamente obsolete, ma corrono seriamente il rischio di essere dei rallentatori dei processi di innovazione e quindi, nelle aziende, di contrastare gli obiettivi di crescita del capitale. L’establishment della vecchia scuola ha un impatto frontale sul processo di produzione delle decisioni, ma tale impatto non ha uno scopo operativo; semmai, in esso, si configura la logica tipica della vecchia gerarchia di eludere il momento del rischio e del gioco, proteggendosi rispetto agli esiti del proprio agire, con il rinviare al gradino immediatamente superiore della scala sociale interna la fase in cui si compie l’assunzione della responsabilità. Questa lentezza che causa inevitabili ritardi, sempre più gravi in una fase storica di violenta accelerazione temporale, è tanto più critica quanto più, per contro, cresce la dinamicità del lavoro vivo e la sua capacità di dare risposte just in time a tutti i problemi che ad esso sono sottoposti. La gerarchia configura il proprio ruolo nella forma del lavoro morto, nel doppio senso sottinteso dalla sua inutilità e dannosità nello sviluppo dei processi economici, culturali e politici, e dal fatto che la sua azione diviene mortificazione della forza produttiva espressa dal lavoro vivo. Il fenomeno della riappropriazione degli spazi da parte del lavoro vivo viene, così, ad assumere una valenza strategica per lo stesso capitale, che incomincia a favorirlo e a seguirne con attenzione gli andamenti. Ciò che chiamiamo knowledge management ha l’obiettivo specifico e unico di valorizzare e accrescere il contributo erogato dal lavoro vivo alla formazione dei contesti e delle modalità del business. Peraltro, anche le dinamiche di mediazione fra capitale e forza lavoro viva presentano almeno due complessità di fondo. La prima riguarda il bisogno che il capitale ha di una forza lavoro difficilmente inquadrabile e disciplinabile, che maneggia gli strumenti di controllo meglio di lui, che possiede idee più sofisticate e articolate e con la quale non è semplice trattare, in quanto essa ha interessi che travalicano strutturalmente gli interessi del capitale. Per ovviare a queste difficoltà si possono pensare modalità innovative di remunerazione e di gestione del tempo di lavoro, tenendo conto del fatto che quest’ultimo non può più essere tenuto distinto dal tempo libero, che ricreino la relazione fra capitale e lavoro a un livello più elevato e più libero, da ambo le parti. Il secondo punto di attenzione è relativo al ruolo decrescente che riveste l’importanza del capitale nei processi della produzione immateriale. Il capitale stesso, in un certo senso, si sta smaterializzando, in quanto è sempre più l’idea ad avere valore e, nella catena del valore, gli elementi intangibili assumono una rilevanza progressiva. Quanto più detta tendenza si svilupperà, tanto più sarà possibile realizzare tipologie di attività nelle quali il capitale originario sia fortemente ridotto o anche assente, e dove emerga con chiarezza la potenza espressiva e creativa del lavoro vivo, all’interno di contesti che non prevedano più il momento economico come centrale. Nei campi della politica e della cultura questa linea di sviluppo potrebbe dar luogo a prospettive di organizzazione temporanea e completamente degerarchizzata, mettendo in serio imbarazzo le strutture tradizionali, come i partiti o le università, cioè i centri di detenzione del potere.

Tuttavia, queste possibilità, alcune delle quali sono in fase di sperimentazione in laboratori economici, politici e culturali, vengono contrastate dai soggetti titolari di privilegi di vario stampo, che, qualora esse si affermassero, vedrebbero drasticamente ridotto, se non azzerato, il proprio grado di potere. Essi, pertanto, cercano ad ogni costo di rallentare o annullare il processo di liberazione del lavoro vivo, perpetuando i rituali di definizione del comando, all’interno della forma vuota della gerarchia. Avendo necessità che di loro si abbia necessità, i vecchi gerarchi stanno compiendo il tentativo di iper-gerarchizzare e burocratizzare i processi vitali, in tutti gli ambiti nei quali hanno un qualche spazio di azione. Vi è un intero blocco sociale, quello dei notabili, che combatte una battaglia disperata per il mantenimento della propria posizione di predominio, stringendo patti di alleanza con il potere politico, che è, in assoluto, la componente più arcaica della vecchia gerarchia. La prospettiva liberale, liberista e libertaria possiede, rispetto a questo blocco sociale, un portato decisamente più eversivo di quella socialdemocratica, proprio perché rifiuta a priori quell’alleanza della quale, invece, la seconda è parte integrante. Secondo questa prospettiva, che è anche quella di chi scrive, non vi è alcun rigetto del collettivo, del network, a favore di un’interpretazione della vita tutta individualistica, ma soltanto del concetto di una sua formazione forzosa, rigida, non dinamica e non mobile, in qualche modo imposta dall’esterno e non liberamente generata come autoproduzione da parte del lavoro vivo, nella massima distanza da qualsiasi forma di gerarchia.

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