BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 27/05/2002

LIBERTA' E RESPONSABILITA'

di Stefano Rosato

“L’occidentale autentico è colui che della nostra civiltà accetta totalmente soltanto la libertà che gli viene data di criticarla e la possibilità che gli viene offerta di migliorarla” [1] .

Lo scopo di questo intervento è quello di riprendere alcune considerazioni contenute in Davide Storni, Liberismo. Mio liberismo, Bloom! 22 aprile 2002, e di sottoporle ad un vaglio critico che offra la possibilità di un chiarimento del nesso libertà/responsabilità. Vorrei, fin dall’inizio, ricordare che il concetto di responsabilità è un concetto originariamente liberale. Non a caso il concetto di etica della responsabilità, Verantwortungsethik, occupa uno spazio centrale nella riflessione kantiana. Se il soggetto economico-politico del liberalismo non fosse responsabile, conseguirebbe, da questa minorazione, la necessità che esso venga educato dallo Stato alla responsabilità e alla libertà; uno Stato siffatto sarebbe semplicemente tirannico e illiberale, in quanto esso si porrebbe come abilitato a definire quali cittadini siano responsabili e in qual modo debbano essere liberi, estendendo la sfera del proprio agire al di là del lecito (in quanto, per il pensiero liberale, lo Stato è il mero garante della validità dei contratti e dell’ordine pubblico). Ma se tale soggetto è responsabile, in quanto contrae liberamente un patto con i propri simili, alienando in direzione del garante (lo Stato) la quota più piccola possibile della propria libertà, in funzione della difesa dalle aggressioni interne ed esterne, allora tutto il suo agire è, per definizione, razionale [2] e di tutto il suo agire egli è pienamente e completamente responsabile. Il principio kantiano di giustizia retributiva è tutto fondato su questo concetto: lo scopo della pena non è la riabilitazione sociale del reo (la qual cosa presupporrebbe un’idea dello Stato pedagogo e quindi postulerebbe la tirannide come la migliore forma possibile di governo), ma la sua remunerazione, indipendentemente dalla valutazione di quali siano state le ragioni di un determinato agire, in quanto il reo, al pari di tutti gli altri soggetti contraenti il patto, è libero e responsabile. In questo senso libertà e responsabilità sono strettamente complementari: solo l’uomo libero può rispondere delle proprie azioni e solo chi può rispondere delle proprie azioni è libero.

I contesti non liberi presentano legislazioni che definiscono come reati una serie di azioni che i contesti liberi giudicano assolutamente legittime; pertanto opporsi a questi contesti e rifiutare i presupposti delle loro legislazioni è, dal punto di vista della teoria della libertà, non solo legittimo (nel senso che è aderente al diritto naturale o ai diritti dell’uomo), ma necessario, e il principio della disobbedienza civile è un principio cardine della dottrina liberale fin dai tempi di Thoreau. [3] Spesso, peraltro, è proprio negli Stati che pongono una forte enfasi sul concetto di educazione che si annidano i principali pericoli del totalitarismo: lo Stato totalitario è, in fondo, anche uno Stato che educa alla responsabilità, sulla base dell’assunto hegeliano per il quale la libertà altro non sarebbe che coscienza della necessità. Seguendo questo spunto hegeliano si giunge facilmente a sostenere che il ruolo dello Stato come educatore deve essere centrale nei processi di produzione del consenso politico e in quelli di stampo economico, e si scollega strutturalmente il concetto di libertà da quello di responsabilità: io divento, appunto, libero in quanto seguo la responsabilità che mi è affidata dallo Stato, cioè quanto più sono schiavo tanto più sono libero. In base alla logica hegeliana, lo spazio della libertà è del tutto azzerato in direzione di quello della responsabilità, intesa come la risposta sempre e comunque affermativa alla cogenza del comando imposto dagli apparati statali di dominio. Tuttavia questa risposta, questa responsabilità, sono unidirezionali, orientate solo verso l’adeguatezza di una data azione alla forma del comando che l’ha originata, e, al variare del contesto di dominio, essa viene completamente azzerata, come se quell’azione non fosse mai accaduta. Dal punto di vista della dottrina dello Stato assoluto, infatti, è del tutto legittimo dichiarare di aver commesso un determinato crimine sulla scorta degli ordini ricevuti e, pertanto, professarsi innocenti in quanto sudditi di quello Stato assoluto, e quindi obbligati all’obbedienza dalla sua stessa struttura. Il crimine, in questo senso, non è interno al contesto legale dello Stato assoluto, nel quale non si può dare crimine che non sia la disobbedienza, ma esterno ad esso, precedente la sfera giuridica. In altre parole, dove sia assente la libertà non vi può essere alcuna responsabilità in senso giuridico e tutte le azioni, purché adeguate alla logica del comando che le ha originate, anche le più efferate, sono legittime. La grettezza e la vuotezza del funzionario preoccupato di eseguire alla perfezione il proprio compito, la semplicità acritica del suo agire da schiavo che segue alla lettera gli ordini del padrone, sono la rappresentazione di quella banalità del male che, per Hannah Arendt, ha costituito il nucleo centrale dell’operato di Eichmann, della cui processabilità, almeno nei termini del diritto statale europeo, è lecito dubitare. [4]

La lotta per la libertà si configura, così, anzitutto come lotta per il riconoscimento della propria responsabilità e quindi come lotta contro l’apparato di dominio dello Stato assoluto. E’ per questo che la teoria liberale è severissima riguardo ai confini da porre all’arbitrio del potere statale, in quanto ogni limitazione della libertà individuale è anche una corrispondente limitazione della responsabilità individuale e quindi della certezza del diritto. Se nessuno è libero, infatti, nessuno risponde delle proprie azioni e nessuno può essere riguardato come l’aggressore di un altro. Un’eco di questa iperbole è reperibile nelle teorie socialiste del crimine, che affidano alla società, e non già al singolo che l’ha commesso, la responsabilità ultima del reato. Spogliando il singolo di qualunque responsabilità e perciò anche di qualunque libertà, le teorie politiche stataliste lo rendono un minorato in completa balia dell’autorità statale, che se ne fa carico come di una risorsa da educare in vista di una realizzazione futura (razziale o classista che sia), sottraendogli ogni autonomia e facoltà di giudizio, e, con ciò, impedendogli di fatto anche qualsiasi possibilità di interazione sociale che ecceda anche di poco quella propria all’animalità. L’assenza di responsabilità azzera le differenze fra i singoli soggetti, li rende tutti uguali e tutti vuoti, pedine incasellabili alla perfezione nei folder dei burocrati dello Stato totalitario.

La libertà, invece, esige responsabilità in tutti i casi in cui essa non voglia essere confusa con l’arbitrio o con il dominio del più forte sul più debole. La responsabilità si configura, anzitutto, come forma logica che consente di rispondere del proprio operato, e quindi come riconoscimento degli apparati minimi della giustizia e, nelle moderne società di massa, del loro coincidere con la struttura dello Stato liberale. Riconoscendo legittimità ai tribunali statali per dirimere le controversie in termini legali, io, di fatto, compio un atto di responsabilità, in quanto accetto di poter essere giudicato qualora qualcuno dovesse ritenere di essere stato da me danneggiato. Viceversa, ricorrerò ai quei tribunali qualora dovessi io ritenere di essere stato danneggiato da qualcuno.

In secondo luogo, il concetto di responsabilità coincide con quello di disobbedienza civile, cui si è sopra accennato. La responsabilità, infatti, è impossibile senza la libertà e qualunque azione tesa a limitare la libertà, foss’anche intrapresa da parte dello Stato, deve essere messa in radicale discussione da chi si pone in una prospettiva libertaria. In caso contrario, lo Stato, sottraendo libertà, sottrae responsabilità e si sostituisce a tutti i singoli, pensando di poterli e doverli determinare. Riappropriarsi degli spazi di libertà che dovessero essere stati sottratti dallo Stato è pertanto un atto di piena responsabilità.

Infine, non si danno libertà e responsabilità senza l’esistenza di una comunità, di una società all’interno della quale esse sono agite. Se, infatti, non vi fosse alcuna società ciascuno sarebbe libero come era nello stato di natura, totalmente scisso da vincoli di qual si voglia tipo, ma anche totalmente esposto alla violenza di tutti gli altri. Tuttavia, se la determinazione dello Stato come garante possiede, per la teoria liberale, solo quei caratteri minimi di cui ho parlato più volte, la definizione di eticità di un qualsiasi atto compiuto da un qualsiasi soggetto sarà affidata alla comunità alla quale appartiene, senza che essa abbia, peraltro, la possibilità di esercitare una forma giuridicamente fondata di coercizione nei suoi confronti. Rimane, pertanto, alla comunità, il diritto di discriminazione sociale, che non può essere messo in discussione dallo Stato in quanto ne eccede i limiti, e che deve essere riconosciuto dagli individui, pena l’espulsione de facto dal contesto sociale nel quale essi si trovano a vivere. La responsabilità, in questo caso, non è definita in termini giuridici, ma non per questo ha minor valore: si tratta di rispondere, al microcosmo in cui si vive, della compatibilità delle proprie azioni con gli standard comportamentali non scritti ai quali la comunità si riferisce nel suo strutturarsi. Tali modelli sono, ovviamente, diversificati a seconda delle singole comunità ai loro differenti livelli, in quanto ogni comunità che sia composta da più di due persone è, nel contempo, una comunità di individui e una comunità di comunità. Ciò comporta che ciascuna comunità, oltre a prestare attenzione alle relazioni che intercorrono fra i soggetti che la compongono, abbia relazioni complesse e discriminanti anche con tutte le comunità interne ed esterne con le quali entra o può entrare in contatto. In questo gioco di riferimenti reciproci, che, con l’avvento della tecnologia si è ulteriormente complicato in quanto la possibilità dei contatti con culture altre dalla propria si è infinitamente moltiplicato, si aprono spazi molto ampi per l’azione di discriminazione politica sia da parte di ogni singolo nei confronti delle comunità cui appartiene, sia da parte di ciascuna comunità con tutte le altre con le quali essa ha (o potrebbe avere) relazioni. L’azione politica della ricerca di un’etica dell’agire umano è quindi possibile al di fuori dei confini che devono essere posti alla sfera di influenza dello Stato, nel libero gioco di liberi uomini e di libere comunità e possiede un’efficacia decisamente superiore a quella che potrebbero avere regole pensate da sommi censori che detenessero, per garantirne l’applicazione, il monopolio della forza fisica in un dato territorio.



[1] Raymond Aron, L’oppio degli intellettuali, tr. Ideazione, Roma 1998, p.69.

[2] Cfr. Ludwig von Mises, Problemi epistemologici dell’economia, tr. Armando, Roma 1988, pp.55-58 e L’azione umana, tr. UTET, Torino 1959, pp. 11-14.

[3] Cfr. David Herbert Thoreau, Disobbedienza civile, tr. De Donato, Bari, 1968.

[4] Cfr. Hannah Arendt, La banalità del male, tr. Feltrinelli, Milano 1964. Ciò che, semmai, sembra sfuggire ad Arendt è che esistono relazioni strutturali fra lo Stato totalitario e il moderno Stato interventista, che si fonda su una deviazione dai principi liberali che pure hanno contribuito fortemente alla sua costituzione. In senso storico uno Stato liberale “puro” non è mai esistito e quindi non ha molto senso rimpiangerne crocianamente i fasti. Cfr. su questi temi e per una critica della posizione arendtiana Wolfgang Reinhard, Storia del potere politico in Europa, tr. Il Mulino, Bologna 2001, p.554. Non sfugge, infatti, a Reinhard che lo Stato interventista altro non è che “una mera variante debole dello Stato totale” (Ivi, pp.563-564).

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