BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 13/01/2003

LA PACE E I NO GLOBAL

di Stefano Rosato

Nel suo Firenze e i no-global (Bloom! 25/11/2002) Stefania Jannuzzi, con uno stile elegante, pacato e suadente, sostiene la positività della presenza dei manifestanti al forum di Firenze, in quanto essa ha comportato una battuta d’arresto della quotidianità, una rottura dello scorrere uniforme del tempo nel mondo amministrato, [1] unitamente alla sparizione, quasi allo scioglimento, di tutte le tensioni di solito presenti nell’atteggiamento di autoaffermazione degli impegnatissimi manager fiorentini. Leggendo le frasi di Jannuzzi, verrebbe fatto di pensare che un temporale abbia lavato le scorie post-capitalistiche di una città d’arte, restituendole la serenità quasi olimpica di una grande cultura rinascimentale e riconducendola entro uno spazio e un ritmo “a misura d’uomo”. Se di misura d’uomo si può parlare ciò è perché l'uomo è misura di tutte le cose. Questa consapevolezza attraversa il mondo classico per giungere fino al Rinascimento dell’Uomo leonardiano, che può essere misura di tutte le cose in quanto in Lui alberga una luce (Wie ein Morgenstern - Quasi stella matutina, si sarebbe tentati di dire con Meister Eckhart) che ne certifica l’origine sacrale. Cosmizzazione dell’uomo e umanizzazione del cosmo, sono una cosa sola col movimento della logica simbolica che collega la Terra al Cielo in un continuo gioco di corrispondenze, in base al quale l’Uomo è l’Adam Qadmon della Qabbalah, in qualche modo l’unico vero garante del corretto utilizzo e della giusta trasmissione della gnosi primigenia. Nella completa affermazione dell’Umano si sostanzia l’importanza storica del Rinascimento; nel fatto che questa “U” rimanga maiuscola, il suo limite, la sua necessità di riferirsi a un che di trascendente per giustificare il proprio theorein. In questo senso il Rinascimento è bifronte, come Giano: da un lato apre la modernità con l’affermazione dell’uomo, dall’altro questo uomo è radicato nella cultura sapienziale di un passato remoto riconosciuto come mai oltre-passato. “A misura d’uomo” è la contraddizione, il sottile equilibrio, il miracolo di stabile instabilità, che si venne ad instaurare fra queste opposte tendenze. Tale equilibrio fu sempre precario, anche se la prevalenza dell’aspetto moderno si impose progressivamente fino a dominare l’intero orizzonte nel giro di due o tre secoli. Quando l’ultimo rinascimentale vero e proprio, Goethe, morì, fu come se una luce si fosse spenta (quella dello sguardo sacro), un occhio si fosse chiuso. [2] L’infrazione di questo equilibrio ha separato le possibili posizioni (anche politiche) in una polarità che da mezzo millennio domina la storia, e che si potrebbe banalizzare nei concetti di conservazione e progresso.

Per il conservatore il passato è sempre superiore al presente, incarna in sé il portato proprio a un’aurea aetas, è il principale punto di riferimento nel mezzo delle tempeste dell’odierno. L’elemento sacrale del passato è costantemente messo in opera nel sistema di riti che accompagna il vivere conservatore: ogni gesto, ogni parola, ogni pensiero presentano un rimando verso gesti, parole e pensieri degli antenati [3] . Tutto ha un significato preciso che non può essere revocato in dubbio, pena l’uscita dallo stream della saggezza certificata. La scepsi è la peggiore nemica della conservazione. Ma se la scepsi è la forma logica tramite la quale siamo in grado di accrescere la conoscenza, allora, per una filosofia radicalmente conservatrice, il solo sapere possibile è quello degli antenati; inoltre, poiché questa sapienza non può che costituirsi al di fuori della storia (altrimenti il suo scopo ultimo, in un qualche momento, dovrebbe essere diverso da ciò che è, per statuto), essa dev’essere una parente strettissima della filosofia perenne. In questo senso ciò che propriamente si apprende non è un quid contenutistico, ma qualcosa che ha a che fare con quanto si conviene di chiamare stile. Non si viene educati a “cose”, “pensieri”, “azioni” che valgano per sé stesse, ma a un certo modo di essere, che, fino al Rinascimento incluso, costituisce il punto d'arrivo dei percorsi esperienziali e sapienziali di stampo iniziatico. Questo movimento iniziatico - che, tuttavia, presenta molti dei tratti tipici di una falsche Bewegung – costituisce il centro della possibilità di azione del conservatore, la strada maestra che deve condurre all’approdo della realizzazione spirituale, il quale, alla fine, si mostrerà come coincidente con il punto dal quale si era partiti. [4] Ciò non significa, ovviamente, che di volta in volta non si possano dare singole forme di conoscenza empirica diverse da quelle del passato, ma solo che la loro interpretazione ufficiale (e quindi la loro messa in circolo all’interno della rete relazionale comunitaria) non può avvenire al di fuori della cornice della sapienza originaria. Si parla, non a caso, di auctoritas.

L’altro polo della moderna Ur-theilung [5] è costituito, si diceva, dal tipo del progressista, la cui condanna è stata mirabilmente espressa in molti luoghi della letteratura mondiale. Lo streben del Faust goethiano nel suo impossibile tentativo/desiderio di colonizzare il mare; il mito di Sisifo nella rilettura di Albert Camus, con tutte le sue circonvoluzioni e i suoi blocchi logici, come, per esempio, il riconoscimento del fatto che l’”assurdo ha senso solo nella misura in cui gli venga negato il consenso”; il corto circuito fra verità e illusione che costituisce il centro della riflessione nel Don Chisciotte di Cervantes, sono alcuni possibili esempi della criticità della condizione dell’uomo moderno, criticità che ne attraversa tutti gli ambiti di azione e di pensiero, da quello esistenziale a quello politico, da quello filosofico a quello scientifico. Al contrario del conservatore, il tipo del progressista puro è svincolato da qualsiasi passato, muore e rinasce di continuo [6] da ceneri che si dissolvono rapidissimamente. Egli non ha storia, ma neppure si può dire che il suo sia un eterno presente di tipo divino, proprio perché il suo tempo si brucia senza lasciare traccia, non ammette compresenze e contemporaneità, è un tempo, appunto, perduto [7] la cui ricerca si rivela impossibile. Parallelamente a quando accade al conservatore riguardo alla conoscenza (che non può ricevere alcun contributo teoretico che non sia la riproposizione o lo svelamento/adattamento di concetti precedenti), per il progressista ciò che non ha alcun significato è il passato (storico o protostorico che sia: il primo perché esaurisce il suo senso nel generare il presente e non ha valore se non per questo; il secondo in quanto diviene una mera impossibilità, ovvero un che di pre-umano).

Poiché, tuttavia, né il conservatore né il progressista possono disporre realmente del loro oggetto (rispettivamente lo ieri aulico e il domani raggiante), il presente moderno si gioca tutto nell’alternativa tra un passato definitivamente silenzioso e un futuro non ancora balbettante, nella quale esso occupa uno spazio la cui radicalità coincide con l’assenza, con il vuoto. Fare i conti con questo vuoto è appunto ciò che compete alla saggezza moderna, il cui culmine consiste forse nello sguardo sull’abisso di nietzscheana memoria o nell’ormai inattuale dialettica negativa di Adorno. In altre parole, si tratta di non lasciarsi incantare dall’uno o dall’altro degli estremi del problema, ma nemmeno dai più o meno solidi tentativi di oltrepassarne la radicalità, assumendo, invece, su di sé tutta la problematicità di questo conflitto, come il Cristo, eroe che soffre per tutta l’umanità.

Questo cui ho appena accennato è il grande tema intrinseco alla modernità, la sua primaria istanza di libertà, in quanto la sua posizione e l’accettazione della sua insolubilità aprono la strada all’avvento dell’Übermensch, di Colui che conosce l’essenziale ironia della verità (José Ortega y Gasset). Nello stesso tempo, ciò che chiamiamo moderno è anche, paradossalmente, una sequenza di strategie per uscire dalla ricchezza di questo dubbio, che, di fatto, si riducono a due: riportare in auge i fasti dell’età felice passata oppure anticipare la venuta di un futuro nel quale il conflitto sia superato. E spesso, nello sviluppo della loro logica, queste due strategie finiscono per coincidere con una riaffermazione del Rinascimento, considerato, da ciascuna, come l’ultimo momento [8] in cui il conflitto non produsse lacerazioni e non per ciò che esso fu, forse l’ultimo momento in cui l’uomo si dimostrò capace, quasi strutturalmente, di portare su di sé la complessità del conflitto, senza ridurlo al silenzio della pacificazione, ma arricchendolo di tutta la bellezza della contraddizione.



[1] Il concetto di “mondo amministrato” deve tenere, ovviamente, in considerazione anche il fatto che una componente decisiva di questa amministrazione è proprio quella che presiede al governo del tempo, sia in quanto tempo di lavoro, sia in quanto tempo libero.

[2] Questa metafora è tratta dall’analisi fatta da Massimo Cacciari (Goethe alchimista dei colori) delle differenze fra l’approccio di Goethe e quello di Schopenhauer alla teoria dei colori, contenuta in A.A.V.V. Humanismus? Goethe e dopo, a cura di Umberto Curi, Arsenale, Venezia 1994.

[3] Per il concetto di antenati, in francese ancêtres, e il loro ruolo nelle società tradizionali, il rimando obbligatorio è a Mircea Eliade, Le sacré et le profane, Gallimard, Paris 1990.

[4] Che il movimento iniziatico abbia i tratti di un falso movimento è stato dimostrato con la massima efficacia da Carlos Castaneda nel finale di Viaggio a Ixtlan. Si veda, ovviamente, anche l’intera opera di René Guénon, in particolare Aperçus sur l’initiation, Chacornac - Ed. Traditionnelles, Paris 1946.

[5] Mutuo questo termine, che si potrebbe tradurre, alla lettera, con “partizione originaria”, dallo scritto del 1795 di Friedrich Hölderlin, Urteil und Seyn, al quale rimando per un approfondimento di questo concetto nell’ambito dell’idealismo tedesco.

[6] “Ma chi sa quanti me stesso sarebbero morti in me stesso”. Così Guido Gozzano ne L’ipotesi.

[7] Sia nel senso che è stato smarrito, sia nel senso che è un tempo dannato.

[8] Questo essere termine del Rinascimento dev’essere inteso con una metrica temporale diversa a seconda che lo si analizzi dal punto di vista della strategia conservatrice o di quella progressista di gestione/abolizione della modernità. Per la prima la parola “ultimo” designa il momento a partire dal quale lo sfacelo si produce, per la seconda il momento a partire dal quale il conflitto si compone. Ciò che conta, è che sia il prima che il dopo, per le due strategie, contengono, di fatto, l’assenza del conflitto, e quindi l’assenza dell’assenza, una pienezza scevra di dubbi, luogo della sparizione definitiva della scepsi e della sua ricchezza teoretica.

Pagina precedente

Indice dei contributi