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Pubblicato in data: 03/02/2003

L'ARGUZIA DELL'AVVOCATO

di Stefano Rosato

In questi giorni i rotocalchi straripano di necrologi e commemorazioni dell’Avvocato Giovanni Agnelli. Vorrei anch’io salutarlo qui , ricordandone il tratto che, a mio giudizio, è stato quello che lo ha maggiormente contraddistinto nel corso della sua vita: l’arguzia. Sì, perché Giovanni Agnelli era arguto in ogni suo dire, continuamente attento all’analisi linguisticamente determinata della situazione, con un’apertura oculare cui nulla sfuggiva, e, poi, con la capacità di individuare sempre e comunque, in poche, brevissime frasi - tipiche di chi possiede il dono della sintesi -, il momento ironico di ciò che aveva elaborato e di cui stava parlando. Proverò ad illustrare questa sua caratteristica interrogando criticamente alcune sue affermazioni contenute nel film-intervista “Agnelli” trasmesso da RAI 3 nel corso del pomeriggio di venerdì 24 gennaio 2003, giorno della sua morte. [1]

Enrico Berlinguer viene definito da Giovanni Agnelli come un uomo “arcaico, del Mezzogiorno (come Moro), che non guidava l’automobile (cosa che, data l’epoca, sembrava davvero strana)”. L’analisi, spietata, non è rivolta solo e tanto all’uomo, ma ha un preciso connotato politico (come si deduce dal riferimento ad Aldo Moro che, come vedremo, non è affatto casuale). Il socialismo, infatti, così come il cattolicesimo politico di cui Moro fu un esponente di primissimo piano nel secondo dopoguerra italiano, sono ideologie ottocentesche, arcaiche, che scontano tutta la loro crisi programmatica e la loro sconfitta socio-politica lungo l’arco del Novecento, al di là (o proprio a causa) dell’intenzione gentilomistica e paternalistica che le supportava. L’abbandono congiunto, in tutti i paesi occidentali, del mito della proprietà collettiva e di quello di una forte presenza dell’aspetto religioso e dei suoi codici etico-sociali nella vita pubblica, è dovuto alla straripante vittoria del modello capitalistico con la sua immensa offerta di benessere a basso costo, nemico mortale per il primo e causa di tormentate riflessioni e contorcimenti viscerali per il secondo. Quando, poi, si considera il fatto che i principali rappresentanti di queste due ideologie in Italia decisero, negli anni Settanta - sia pure con motivazioni e obiettivi di medio periodo assai differenti -, di lavorare a un progetto politico comune (rispolverando, almeno per quanto riguarda il Partito Comunista Italiano, l’arcadica lectio gramsciana dell’unione di operai e contadini), diviene evidente l’appropriatezza dell’aggettivo “arcaico” per definirne la posizione politica. La precisazione che collega il concetto di “arcaico”a quello di “uomo del Mezzogiorno” specifica questo ragionamento nella direzione dell’approfondimento analitico della posizione economico-politica di Enrico Berlinguer. Il Mezzogiorno agricolo dei proprietari terrieri [2] è contrapposto al Nord della grande borghesia industriale: è la campagna contro la città, il sole della vita misera e spensierata contro il duro lavoro [3] svolto in mezzo alle nebbie padane. Il Mezzogiorno è un programma politico per il quale il ruolo dello Stato dev’essere onnipervasivo, mentre per il Nord lo Stato è un ente fra gli altri con cui intrattenere rapporti di mediazione al fine di limitarne al massimo l’influenza o di ridurla, rovesciandone lo statuto ontologico, a proprio vantaggio, scegliendo il tempo e le modalità dell’azione. Questa costellazione concettuale ha avuto sviluppi storici assai significativi, in particolare tramite la creazione di un diffuso sentimento anti-meridionale e anti-romano, che è esploso in termini politici dopo la liberazione di forza lavoro viva da parte del mondo industriale, “ristrutturato” dall’introduzione dei processi di automazione della produzione, che ha dato luogo al fenomeno dell’indipendentismo del Nord, poi mitigato nella forma del federalismo, sostenuto da una piccola borghesia industriale che di quella di cui faceva parte l’Avvocato Agnelli è sicuramente ancora un’incerta caricatura, ma rispetto alla cui rappresentanza si è dovuta, e non per caso, seriamente interrogare la parte migliore del centro-sinistra all’indomani della sconfitta elettorale del 1994. [4] Arcaismo e centralità della questione meridionale, tradotta nei termini di una vera e propria invasione dello Stato nella vita delle comunità locali (allo scopo, ovviamente, di liberarle dalla secolare oppressione di mafie e notabilati, per la sinistra, e di guidarle verso un’emancipazione graduale, senza dimenticare i valori specifici della tradizione di appartenenza – e quindi anche di mafie e notabilati - , per il centro cattolico), sono le due facce della medaglia di un medesimo gesto politico: quello che rifiuta di accettare che la libertà sia sostanzialmente una conquista di chi la pratica [5] , e non una concessione di chi rinuncia, in tutto o in parte, all’esercizio di un potere sedimentato. A questa carenza strutturale di libertà corrisponde l'evidenziazione del fatto che Berlinguer non guidava l'automobile. Dalla velocità futurista agli scorrazzamenti narrati da Jack Kerouac in On the Road, dalla scena della morte di Isadora Duncan descritta da Max Aub in Delitti esemplari alle tele di Tamara de Lempicka, il secolo ventesimo è legato strettamente al tema della velocità e a quello della libertà raggiungibile per il suo tramite. L’auto sportiva, poi, con il suo sapore e il suo fascino monegaschi, illustra il nuovo tipo di uomo raffinato che si impone a partire dagli anni Venti: uomo metropolitano, che ama la notte e il vizio, i grandi vini e le belle donne fatali. Capace di un incredibile sprezzo del pericolo, l’uomo veloce che guida le auto sportive, uomo cosmopolita, diviene un fenomeno di costume nella figura del grande pilota con Tazio Nuvolari, fino a culminare nello spericolato centauro della Formula Uno: Fangio, Ascari, Farina, Moss, Graham Hill, Jim Clark, e poi Lauda, Hunt, Gilles Villeneuve, Piquet, Prost, Mansell, il mitico Senna, Michael Schumacher rappresentano la libertà come labilità della vita. Proprio perché non possono mai dimenticare che la vita è eminentemente labile, essi sono liberi, non hanno bisogno delle metafisiche di chi si crede immortale o sogna di potere un giorno diventarlo, ma godono appieno del fatto di bruciare, bruciare, bruciare, come gialle candele romane. La sobrietà berlingueriana, con il suo tratto iconograficamente oscuro, che ci parla di una politica altrettanto buia (se, nell’impero dei segni, anche il look possiede un suo preciso e ineludibile significato), si contrappone al joy [6] del pilota capitalistico, metafora di tutto un modo di essere e di una nuova forma della conoscenza e della critica dell’esistente eretto a feticcio, di una gaia scienza. La rottura programmatica, etica, esistenziale ed estetica del Partito Comunista con la generazione degli anni Settanta è tutta inscritta nell’incomprensibile (per il P.C.I.) bisogno che la rivoluzione fosse una festa [7] e non un’azione rigidamente organizzata dei reggimenti proletari.

Di Luciano Lama, invece, Agnelli dice che era “simpatico, un amico”. Il concetto di simpatia, di idem sentire, è qui utilizzato come una nuance, da parte di chi ha anche asserito di “avere pochi amici comunisti, anzi nessuno”. Charles Coburn, celebre caratterista del cinema americano degli anni Trenta e Quaranta, in Heaven Can Wait (1943) diretto da Ernst Lubitsch e sceneggiato dal grande Sam Raphaelson, dice al proprio figlio e alla nuora, che lo rimproverano di aver regalato una rilevante somma di denaro al loro figlio, giovane libertino (nel film impersonato da Don Ameche), mentre con loro si è sempre dimostrato parco di attenzioni monetarie: “A voi vi amo, lui mi è simpatico”. E’ in questo senso che viene qui assunta l’idea di simpatia, denotando lo spazio dialogico che si apre fra persone che hanno qualcosa in comune, in questo caso essenzialmente la chiarezza delle reciproche posizioni, non mascherate da infingimenti e tatticismi. E ciò è stato possibile, fra Agnelli e Lama, perché quest’ultimo aveva assunto una posizione social-democratica, di accettazione, sia pure critica, delle dinamiche del capitale, perché rappresentava l’altra sinistra, quella che avrebbe poi dato vita all’escalation della modernizzazione socialista di stampo craxiano e martelliano, rinunciando per sempre alla follia del comunismo. In questo senso Lama rappresenta una forma di Realpolitik, che è l’esatto contrario della sognante mitologia comunista di Berlinguer e Natta, a tal punto svincolata dalla realtà da portarli a teorizzare il compromesso storico con la Democrazia Cristiana a causa del timore che l’Italia potesse fare la fine del Cile di Allende! Senza realismo non sarebbe possibile alcuna sim-patia politica, perché la posizione dell’avversario risulterebbe astratta, quasi magica, lontana dalle cose umane.

Questa laicità traspare anche nella risposta alla domanda dell’intervistatore sui Papi, che, più o meno, suona così: “I Papi? Mah, diciamo che li ho conosciuti”, nella quale l’oggettivazione del quid da conoscere è anche un’oggettivazione della laicità come distanza critica dall’oggetto. [8] Non vi è posto per nessun’aura sacrale, per nessun mistero, per nessuna arcana religiosità (quanta distanza, ancora una volta, dall’innamoramento berlingueriano per Maria Goretti). Ma il richiamo al sacro, nel moderno, ha sempre implicato il tentativo di superare quella scissione fra soggetto e oggetto che, del moderno, è anche il gesto inaugurale che testimonia di un’avvenuta dannazione. E si tratta di un tentativo reversivo, che non si preoccupa minimamente di far propria la lezione nietzscheana che riconosce la necessità di attraversare fino in fondo l’epoca moderna, facendo ancora un passo in là nella decadenza, e, quindi, aprendola nella direzione del post-moderno. A quest’apertura, invece, ha condotto lo sviluppo del capitalismo, del suo sistema di libertà e di riconoscimento dei diritti degli individui, della sua lucida laicità che si condensa in quella mistura di realismo e ironia che costituisce l’arguzia.



[1] Chiedo scusa all’Avvocato Agnelli, alla RAI TV e ai curatori del programma sopra citato se le parole che riporto in questo scritto non sono del tutto identiche a quelle dell’intervista. Ciò è dovuto a due motivi. Non possedendo una registrazione dell’intervista mi devo affidare al ricordo e a qualche appunto preso durante la trasmissione. In secondo luogo, in alcuni casi sono costretto a “manipolare” il testo per spiegarne certi passaggi enfatici, altrimenti impossibili da percepire nella parola scritta, laddove, invece, sono evidentissimi nel discorso proferito a voce.

[2] Potrebbe non essere vano chiedersi quanto della posizione berlingueriana, soprattutto in termini di questione morale e anti-modernismo, sia da ascrivere, certo inconsciamente, non tanto allo strutturale conservatorismo proprio alla tradizione del radicalismo riformista ma a quello, sicuramente più tattico e più lucido, dell’aristocrazia agraria.

[3] Anche e soprattutto quello degli operai nelle fabbriche.

[4] Cfr. Massimo d’Alema, Un paese normale. La sinistra e il futuro dell’Italia, Mondadori, Milano 1995.

[5] Cfr. Ulrich Beck, I rischi della libertà. L’individuo nell’epoca della globalizzazione, tr. Il Mulino, Bologna 2000.

[6] Mutuo  il concetto di joy dalla tradizione trobadorica. Cfr. Mario Mancini, La gaia scienza dei trovatori, Pratiche, Parma 1984.

[7] Per una tematizzazione sofisticata della festa è imprescindibile la lettura di Furio Jesi, La festa, Rosenberg & Sellier, Torino 1977.

[8] Al medesimo disincanto appartiene la rilevazione fatta dall’Avvocato Agnelli dell’”alto tasso di fertilità” della propria numerosa famiglia.

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