BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 10/03/2003

ESUBERI E OLTRE: ALCUNE CONSIDERAZIONI

di Stefano Rosato

Prima di dire ciò che ho da dire [1] devo specificare che, nella mia formazione professionale e personale, il ruolo occupato da Paolo Caglieris è stato centrale. Paolo è stato la prima persona che mi abbia assunto per un lavoro di qualsiasi tipo (con un colloquio di assunzione se non altro bizzarro, nel quale abbiamo parlato di Adorno e Heidegger), che mi abbia introdotto all’interno di un’azienda, spiegandomene i meccanismi di funzionamento, che mi abbia stimolato a metterne sempre e comunque in discussione i presupposti strategici e operativi, tutti, foss’anche soltanto per un esercizio di carattere meramente intellettuale. L’affetto e l’amicizia e la stima che ho per lui devono pertanto fare i conti con questa paternità; per questo a volte, come è ovvio, provo per lui anche la “rancura/che ogni figliuolo [...] ha per il padre”. [2]

La scuola di Paolo Caglieris è stata una scuola molto difficile, per alcuni aspetti addirittura rigida. I ritmi lavorativi erano al limite del possibile, le gratificazioni poche, le certezze assenti. Una sorta di battesimo del fuoco per chi, come me allora, muoveva i primi passi nel mondo del lavoro. L’approccio di Caglieris era maledettamente quantitativo, molto attento alle tematiche dei costi, dell’organico, della struttura organizzativa correttamente dimensionata (per correttamente si deve intendere “minimamente”). Il sentimento era un lusso, del tutto omesso dalle nostre pratiche lavorative quotidiane. Il senso di elezione era molto forte, ci si sentiva parte di un gruppo di persone deputate a gestire processi importanti nella vita dell’azienda, decisivi per la razionalizzazione delle attività e lo sviluppo del business. Nel contempo l’etica che ci supportava si configurava propriamente come etica della responsabilità: in tal senso, il quantitativismo di Caglieris potrebbe essere oggi riletto come una metafora dei limiti dell’approccio umanista ai problemi delle aziende, ovvero come un’apertura all’etica anglosassone che costituisce l’essenza profonda del capitale. E che apre il proprio percorso gnoseologico con il gesto di umiltà che sempre comporta l’analisi quantitativa. Caglieris costituiva, poi, il nostro filtro nei confronti della cosiddetta “alta” direzione, nel senso che si batteva per portare avanti le ipotesi di lavoro e i progetti che, sotto la sua egida, avevamo edificato, spesso pagando un prezzo personale decisamente elevato per non essere capace di flessibilità (cioè, nel nostro specifico caso, di piegarsi al primario interesse di sopravvivenza insito in ogni gruppo sociale, anche e soprattutto quando eccede radicalmente le ragioni della sua esistenza), rimanendo strettamente legato ai paradigmi della ragione.

Solo a partire da un metodo razionalmente orientato, infatti, è possibile recuperare e valorizzare al meglio l’aspetto umano del lavoro, la sua ricchezza costitutiva, l’essenziale dote libertaria che lo potrebbe accompagnare e che spesso, invece, ne rimane distante. La filosofia del lavoro vivo è, a mio avviso, totalmente compatibile con lo sviluppo etico del capitale, anzi è, ad esso, consustanziale, perché il capitale, all’origine, non è altro che lavoro vivo. [3] Che cosa sarebbe, se ciò non fosse vero, lo spirito imprenditoriale che costituisce l’inizio di ogni attività liberamente produttiva? Spirito di rapina? Traviamento dell’essenza umana, altrimenti divina? La ragione, dunque, intesa come ragione pratica, consiste nello studio, e nella messa in opera, delle metodologie necessarie alla realizzazione delle idee pensate dallo spirito imprenditoriale, e nella minimizzazione dei rischi in esse impliciti. Tale operatività potrà poi essere più o meno strategica, in base al livello di delega posseduto dal gestore dell’impresa, ma dev’essere sempre sottoposta all’interesse dell’azienda nel suo complesso.

L’utilizzo di questa particolare forma di ragione è lo specifico strumento tramite il quale il management assolve ai propri compiti. Un approccio direttamente sentimentale condurrebbe, invece, alla distruzione dell’impresa che si deve condurre a buon fine. Il manager è pagato per raggiungere obiettivi di business, per gestire l’azienda che gli è affidata, in tutto o in parte, nel miglior modo possibile, massimizzando l’utile e quindi la remunerazione del capitale dell’azionista. Qualsiasi azione contraria a questo scopo non possiede alcuna legittimità all’interno del contratto fra il management e la proprietà e si pone, per ciò stesso, al di fuori dei confini etici che costituiscono la cornice entro la quale deve funzionare il meccanismo della gestione capitalistica.

In questo quadro dev’essere ricompreso il problema degli esuberi, che, sia detto per inciso, non è tanto un problema odierno, ma si presenterà come centrale nel prossimo futuro a causa dei radicali cambiamenti imposti dallo sviluppo tecnologico, che potranno essere assorbiti dai sistemi sociali solo a patto di una coraggiosa e definitiva messa in discussione delle forme giuridico-politiche che presiedono alla definizione delle relazioni industriali e alla normalizzazione dei rapporti di lavoro. Il basso dinamismo sociale imposto dai modelli centrati sul welfare state è all’origine della scarsa competitività, intesa ovviamente in senso generale e diacronico, dell’Europa occidentale nei confronti degli Stati Uniti e, affinché tale sfacelo non divenga perpetuo, dovrebbe essere quanto prima oltrepassato in direzione di un lassez faire estremo. Ma, al di là di queste considerazioni di carattere politico, mi preme mettere in evidenza il fatto che l’impresa come figura economica non può e non deve possedere una valenza sociale immediata, la quale può esistere solo come effetto e mai come causa dell’agire economico.

La mancata comprensione di questa verità elementare è all’origine del disastro logico e pratico di tutti gli esperimenti di costruzione economico-politica che, con più o meno forza, si sono storicamente riferiti alla teorizzazione socialista. Una gestione dell’azienda che non tenga conto del fatto che l’essenza di questa non è sociale se non in senso indiretto,  ovvero che, in essa, la socialità non esiste come fine, ma solamente come mezzo, non può che essere fallimentare. Pertanto, laddove vi sia un chiaro disallineamento dei costi rispetto al processo di produzione, è preciso dovere del manager quello di porvi rimedio, tramite operazioni di down-sizing della struttura organizzativa.

E’ tuttavia conveniente, almeno all’interno di alcuni settori merceologici (sostanzialmente di quelli nei quali l’apporto delle cosiddette “risorse umane” si presenta come decisivo per la vita dell’azienda), che, nel compiere tali operazioni di taglio dei costi, si tenga debito conto del loro impatto sulla socialità diffusa dell’impresa. L’interazione di quest’ultima con la forza lavoro, infatti, ne determina sovente il tasso di riuscita e un clima “terroristico” di attenzione ossessiva alle problematiche di costo rischia di essere controproducente. Pur essendo del tutto legittima e indiscutibile nell’ambito della teoria e della pratica capitalistica (la cui forma di produzione e riproduzione è, fra quelle conosciute nelle moderne società di massa, l’unica che riesca ad essere foriera di un benessere generalizzato), l’operazione di definizione e di risoluzione del problema dei costi e in particolare degli esuberi appare come inevitabilmente delicata.

Ma tale delicatezza, ed è bene ricordarlo, non può e non deve, per la considerazione manageriale, disporsi in termini sentimentali, altrimenti si accetterebbe implicitamente l’adagio socialista relativo alla valenza sociale diretta dell’impresa, e il manager finerebbe per rispondere del proprio operato non più al consiglio di amministrazione, ma alla comunità nel suo complesso.



[1] A proposito del contributo di Paolo Caglieris, Gli esuberi in azienda, Bloom, 24/02/2003.

[2] Eugenio Montale, Giunge a volte, repente, in Ossi di seppia, vv. 27-28.

[3] Quest’originaria eticità, vitalità, umanità dello sviluppo industriale capitalistico non può essere compresa, ed è quasi banale affermarlo, se non ci si libera del tutto dai perniciosi influssi delle semplificazioni teoriche di stampo marxista, che non interrogano la realtà fino in fondo, fino all’estremo, ma si limitano a un’interpretazione delle cose immodificabile dallo scorrere della storia, irrigidita una volte per tutte nella ricerca di un senso già implicito, dall’inizio, in una forma di pensiero legata alla catena. In questo senso dovrebbero essere rianalizzate e ricomprese le critiche alla filosofia idealistica, da quelle di Schopenhauer e Nietzsche a quelle di Bataille e Aron.

 

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