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Pubblicato in data: 31/03/2003

LE RAGIONI DELLA PACE, LE RAGIONI DELLA GUERRA

di Stefano Rosato

  1. La nuova struttura della guerra

Prima di analizzare criticamente le posizioni, assai differenti, di coloro che dissentono da questa guerra e di coloro che invece la appoggiano, è indispensabile vagliarne alcuni aspetti strutturali, tramite i quali è, a mio giudizio, possibile mostrarne tutta la specificità e la novità nel panorama delle forme belliche conosciute. L’esito di tale analisi, inoltre, non sarà ininfluente nell’orientare il ragionamento in direzione di uno dei due estremi che costituiscono la polarità nella quale si stanno separando, in tutto il mondo, sia gli esperti di fatti politici che la gente comune.

Fra tutti i commenti ascoltati in televisione o letti sui giornali in questi primi giorni dell’intervento americano e inglese in Iraq, mi ha particolarmente colpito un’analisi di Edward Luttwak, autorità mondiale in tema di strategia geo-politica, secondo la quale questa guerra presenta elementi di assoluta novità rispetto a quelle del passato. Più propriamente, infatti, come notava il giornalista di Repubblica Magdi Allam, si tratta di una caccia all’uomo a tutti gli effetti. I rischi insiti in questo tipo di operazione militare sono quelli propri, in realtà, a un’azione di polizia: secondo Luttwak, infatti, i veri pericoli non provengono dal potenziale bellico iracheno, ma dalla capacità dei soldati di Saddam di tendere imboscate e tranelli. Il tutto all’interno di un sistema mediatico globale, per il quale il livello di comunicazione fra le forze di offesa e quelle di difesa è presumibilmente molto elevato.

E’ interessante, poi, notare il fatto che la strategia complessiva di difesa dell’Iraq è totalmente rivolta all’interno e priva di efficacia nei confronti dell’esterno: a una polizia segreta spietata ed efficiente corrisponde un esercito allo sbando, soprattutto dal punto di vista organizzativo. Ma, come spesso accade nei regimi totalitari, l’interno è più importante dell’esterno. Secondo Hannah Arendt la principale differenza fra una dittatura, come il fascismo, e un regime totalitario, come il nazismo, risiede nel fatto che gli esponenti della prima, una volta giunti al potere, tendono ad occupare i gangli portanti dello Stato, ponendo il partito in secondo piano, mentre quelli della seconda restano consapevoli dell’importanza assoluta del partito, del quale non cedono mai il governo a personaggi di secondaria rilevanza, come lo Starace nostrano. In questo senso, il potere totalitario si disponde per cerchi concentrici, intorno a un centro forte che, alla fine, è il dittatore medesimo. [1] L’operazione di disvelamento delle strutture del potere nazista e staliniano ha richiesto analisi molto complesse, che si sono svolte in un arco temporale ampio, [2] prima che si potesse giungere a una comprensione sufficiente del fenomeno, proprio per la quantità di ramificazioni concentriche del potere, il cui scopo era quello di occultare e quindi proteggere il centro. [3] La forma reticolare delle diverse organizzazioni della polizia segreta irachena, ognuna delle quali annovera anche fra i propri compiti quello di sorvegliare tutte le altre, presenta, inoltre, alcuni tratti in comune con le organizzazioni poliziesche di tipo ottocentesco, per le quali il controllo sociale, teso al disciplinamento, passava attraverso complessi rapporti fra le svariate forze di polizia e quelle della malavita, all’interno di una vera e propria rete umanamente intermediata, che non aveva come scopo il governo dinamico del processo della riproduzione sociale, ma il suo diretto e brutale controllo. Quest’ultimo aspetto differenzia, nella sostanza, le logiche delle strutture di potere pre- e post-globalizzazione, dove l’enfasi introdotta da tale processo storico non risiede più nel controllo capillare tipico di una società disciplinare, ma si dispone come governo di quel movimento rizomatico nel quale dev’essere fatto rientrare, a pieno titolo, tutto il dinamismo sociale. E’ proprio per questo che, nell’epoca della globalizzazione, oltre a saltare in modo immediato e deflagrante la ragion d’essere dei vecchi Stati-nazione, viene anche meno, con essi, la possibilità teorica del totalitarismo. Il dinamismo sociale sul quale si fondano i meccanismi che presiedono al funzionamento delle società globalizzate non può essere sottoposto a disciplinamento, in quanto la globalizzazione ne è l’esatto contrario. [4]

Ma, se la struttura di potere del regime iracheno presenta evidenti parallelismi con quelle dei totalitarismi novecenteschi, a loro volta perversi derivati dei meccanismi di disciplinamento e controllo sociale tipici degli Stati-nazione ottocenteschi – dei quali sono, a mio giudizio, uno dei possibili esiti logici nella società massificata -, è allora necessario analizzare queste analogie più in profondità. Lo Stato-nazione allude, comunque lo si voglia considerare, a un gesto di chiusura dell’interno nei confronti dell’esterno, in quanto nasce da una delimitazione del sacro dal profano. Questa chiusura traccia, letteralmente, il confine fra interno ed esterno, fornendo un formidabile strumento per la definizione del Sé come separato dall’Altro. Le tecniche del disciplinamento dei meccanismi di produzione e riproduzione sociale possono realmente svilupparsi al loro massimo grado solo dopo che quest’istituzione, lo Stato, ha definito i rapporti teoretici fra interno ed esterno, fra Sé e Altro. Quel minimo di differenza che è ancora tollerata nello Stato-nazione ottocentesco dev’essere intesa come possibile solo in quest’ambito di chiusura.

Questa è la ragione per la quale lo Stato-nazione è strutturalmente predisposto al totalitarismo, come la tradizione liberale ha sempre saputo, cercando di articolare delle strategie difensive che eludessero il verificarsi di questa possibilità. Solo che, nel completo denudamento della ragion d’essere più intima della forma Stato, il totalitarismo azzera radicalmente tutte le micro-differenze che lo Stato ottocentesco lasciava sussistere, sia pure sottoposte a un rigido controllo disciplinare. In altre parole, ciò che il totalitarismo disvela è la necessità di omogeneizzazione del Sé su cui si fonda lo Stato-nazione. Nei regimi totalitari il falso assunto in base al quale il tempo di lavoro e il tempo libero presentano ritmiche di esercizio fra loro diverse (presupponendo in realtà che esista un’univoca definizione del Sé che ne certifichi la legittimità e una struttura di controllo sociale che ne determini rigidamente il sistema di regole e l’ubi consistam applicativo) viene totalmente smantellato in direzione del vero volto della forma Stato: quello dell’uniformità di tutti gli spazi e di tutti i tempi. Per ciò quanto non è uniformabile (e, ovviamente, l’estensione di questo concetto rischia di mostrarsi come infinita) dev’essere semplicemente cancellato. Anche dal punto di vista iconografico, e non a caso, l’uniforme è sempre uno dei simboli cardinali del totalitarismo e in uniforme ama sempre farsi vedere il tiranno. Ma poiché l’uniformità è uno dei tratti più caratteristici della tribù arcaica, [5] è possibile arrivare a ritenere il totalitarismo come una modalità di emersione di quelle pulsioni ancestrali di stampo tribale che, come il rimosso, costituiscono l’altra faccia della civiltà, o, in termini rigorosamente freudiani, ne evidenziano il disagio. In questo senso è possibile leggere la storia dello Stato esattamente come la storia di quell’istituzione che, nel moderno, accompagna in negativo il movimento di liberazione individuale iniziato nell’Umanesimo e nel Rinascimento. Il culminare dello Stato-nazione nella forma totalitaria sarebbe, dunque, un esito assolutamente naturale nell’evoluzione della forma Stato, del tutto intrinseco alla sua struttura nativa, e non una sua vera e propria perversione. In questo senso lo Stato-nazione e lo Stato totalitario che ne è la massima espressione sono semplicemente due limitrofe modalità di emersione della nuova barbarie (con, in più, la complicazione dovuta al fatto che i totalitarismi contemporanei, a differenza del nazismo e dello stalinismo, utilizzano i mezzi messi a disposizione di chiunque dallo sviluppo del capitalismo globale. Per esempio, molti appartenenti ai gruppi di potere che governano con modalità totalitarie o semi-totalitarie i propri paesi hanno studiato nelle università occidentali: in tal senso si potrebbe parlare di barbarie globale).

A questa barbarie si oppone l’Impero come figura che non pone più differenze fra interno ed esterno, fra Sé e Altro, ma apre tutto lo spazio al dispiegarsi del conflitto e della diversità fra singoli soggetti, come tali e come membri di singole comunità fra loro interconnesse in una serie di rapporti unificanti e differenzianti al tempo stesso. Se l’icona dello Stato (totalitario e non) è la barbarie, quella dell’Impero è l’alta tecnologia che nasce dall’incontro di tutte le esperienze che, nel suo ambito non più delimitato secondo la logica interno-esterno, trovano modo di rappresentarsi ed esprimersi ciascuna per sé e ciascuna in dipendenza da tutte le altre. Se lo Stato-nazione, con la sua territorialità altra da quella degli altri Stati-nazione, è fisicamente centrato sul concetto di materialità, essendo un derivato del Nomos der Erde di schmittiana memoria, [6] l’Impero come massimo sviluppo del sistema di mobilità capitalistica al tempo della globalizzazione è, invece, centrato sul concetto di immaterialità. L’Impero è la fine dell’Europa e delle sue categorie interpretative del reale, è il non luogo da cui si dipartono le direttrici di un potere democratico che ha molti elementi di potenza, interni alla sua capacità di essere lo spazio immateriale di incontro delle moltitudini, è il concetto nuovo che coordina e plasma la relazione fra materiale e immateriale in un’accezione affatto diversa da quella tradizionale della cultura ottocentesca. [7] La polarità fra Impero e barbarie era già intrinseca al concetto di modernità, solo che, nel moderno propriamente detto, la vittoria era toccata alla barbarie dello Stato-nazione.

In ultima analisi, questa guerra si configura come il radicale conflitto fra la tecno-civiltà dell’Impero e la barbarie dello Stato-nazione fondato sul diritto della terra e sulla tribalità ad esso sempre sottostante.

  1. Le ragioni della pace

In tutto il mondo, negli ultimi giorni, un’enorme massa di persone manifesta a favore della pace contro l’intervento anglo-americano in Iraq. Le ragioni di questi manifestanti sono molteplici, come molteplice è la loro appartenenza politica, sociale, culturale. E’ possibile, tuttavia, semplificare questa complessità, isolando tre matrici fondamentali nell’attuale movimento pacifista. [8]

Il primo blocco, il più direttamente interessato al conflitto in atto in quanto geograficamente e culturalmente omogeneo all’Iraq, è costituito dai manifestanti islamici di molti Stati arabi. E’ abbastanza evidente che, in questo caso, l’espressione “pacifisti” non può non suonare come ironica. Durante queste manifestazioni vengono, per esempio, raccolte firme a favore della Jihad (ovviamente non si tratta, qui, della Jihad in senso mistico, o Grande Jihad, che è un processo di realizzazione spirituale interiore o esoterica, ma della Piccola Jihad, tutta esteriore, essoterica e materiale). [9] La composizione socio-economica di questo blocco mostra i tratti tipici della miseria e dell’ignoranza che albergano nelle periferie delle grandi città arabe, come Il Cairo, dove tribalismo e fanatismo religioso governano i processi di formazione del consenso politico. Più che di pacifismo si tratta di bellicismo violentemente antiamericano, di un movimento di resistenza al dispiegarsi della logica imperiale del capitalismo globale, cavalcato e fomentato dai centri del potere religioso e politico, ovvero da quelle élite il cui interesse vitale primario consiste nel mantenimento di una situazione diffusa di povertà e disperazione, consustanziale al loro modello di convivenza. Chirac e Saddam Hussein vengono accostati come simboli positivi, mentre Bush e Blair sono i simboli negativi. L’importanza di questo blocco sociale non deve essere sottovalutata, perché esso testimonia di un disagio profondo, al quale non riesce a fornire che una risposta parziale, violenta, arcaica, con la quale è, peraltro, necessario fare i conti. Il modello islamico riesce ad arrivare allo Stato-nazione senza troppe difficoltà, mantendendo sostanzialmente inalterata la struttura tribale sottostante, che, come si diceva, non è incompatibile con la forma Stato (anzi, spesso, storicamente, ne ha costituito le fondamenta), ma rifiuta radicalmente la prospettiva imperiale, in quanto, qualora la accettasse, dovrebbe mettere in discussione i propri presupposti ideologici e aprirsi alla vastità e complessità del mondo, laddove oggi si presenta come difensore della massima chiusura su base etnico-religiosa. Alcuni Stati arabi seguono con estrema coerenza il modello islamico (Iran), mentre altri se ne distaccano nella doppia direzione dell’accettazione di molte porzioni del modello occidentale (Giordania e, per alcuni versi, Egitto) o del rifiuto di qualsiasi alterità su una base non direttamente religiosa (Iraq). Se si eccettuano gli Stati arabi più filo-occidentali, in tutti gli altri, al di là del fatto che la religione svolga o meno un ruolo diretto e immediato nella formazione della struttura statale, si è comunque in presenza di Stati-nazione fortemente predisposti all’emersione della componente totalitaristico-tribale nascosta (e quindi ri-velata) dalla forma Stato. A questi elementi totalitaristici si aggiungono interessi economici concreti da parte delle élite dominanti, politiche e religiose. La ricchezza prodotta dall’estrazione e dalla vendita del petrolio non è distribuita, come accadrebbe in regimi liberali di stampo capitalistico, ma accentrata nelle mani di pochissimi individui, spesso apparentati, in una logica di clan, con i detentori del potere.

Il secondo blocco di nemici della guerra è costituito dagli appartenenti alla Chiesa cattolica, che svolge un ruolo di fondamentale importanza per la definizione degli equilibri diplomatici a livello mondiale. In questo caso sono proprio gli esponenti di punta della Chiesa ad essersi esposti in prima persona, a partire dal Pontefice, in una campagna antibellica il cui vero obiettivo è, in realtà, il modello di sviluppo del capitalismo occidentale. Il pontificato di Giovanni Paolo II è probabilmente il più significativo, politicamente parlando, di tutto il Novecento. L’azione politica del Papa, molto complessa e articolata, si è svolta in due precise e distinte fasi, ognuna accompagnata da una differente ideologia: fino alla caduta del Muro di Berlino essa si è fondata su una fiera opposizione al modello socialista e ai suoi disastrosi esiti in termini umani, morali, economici e sociali; dopo la caduta del Muro, invece, il suo avversario è stato il modello capitalistico occidentale. Il ragionamento di fondo è più o meno questo: l’assenza di Dio o la sua sostanziale irrilevanza per la logica capitalistica contravviene al naturale bisogno di Dio dell’uomo, e, pertanto, il modello capitalistico non offre quelle garanzie di spiritualità che, per la Chiesa, devono essere poste a fondamento dell’accettabilità di qualunque tessuto sociale. Paradossalmente, questa posizione è più vicina di quanto potrebbe sembrare ad uno sguardo superficiale a quelle più determinate in senso religioso del mondo islamico. Anche in questo caso, peraltro, il pacifismo appare circonfuso da una ben precisa patina politica. Infatti, la posizione della Chiesa di Roma rispetto all’intervento in Serbia non è stata improntata allo stesso pacifismo assoluto che, invece, la contraddistingue riguardo a questa guerra. La Chiesa gioca abilmente le sue carte tattiche a seconda delle convenienze del momento, pur essendo, come si è detto, chiaramente identificabile, nel suo operato, una decisa strategia di fondo antioccidentale e soprattutto antitecnologica. La presa di distanza nei confronti dell’Occidente in generale e degli Stati Uniti in particolare è emersa, con somma precisione, a ridosso di questioni chiave della nostra epoca come la manipolazione genetica, la cui legittimità è stata risolutamente negata dalla Chiesa, anche relativamente a un utilizzo non scriteriato e scientificamente controllato del codice genetico, teso non a clonare l’uomo in quanto tale, ma solamente ad intervenire su cellule malate e a risolvere, così, problemi medici che, da millenni, affliggono l’umanità. In questo modo, l’antiamericanismo della Chiesa cattolica riafferma l’idea di una nuclearità dell’uomo indipendente dallo sviluppo tecnologico, di un uomo pre-faber, la cui spiritualità precede, non essendone d’altronde minimamente intaccata, la capacità di inventiva e di scoperta scientifica. Quest’uomo del tutto decontestualizzato, assoluto, per certi versi astratto e trascendente, dev’essere, rigorosamente, contrapposto a quello relativo e immanente dell’era imperiale del capitalismo occidentale. In senso psicologico, siamo di fronte a un poderoso bisogno di certezza e saldezza, da un lato, e al libero gioco di un’incertezza e fragilità che sono tuttavia in grado di relazionarsi nella ricchezza di un gioco dialettico, vitale perché multisemico, dall’altro. [10]

Il terzo blocco di strenua opposizione alla guerra è, naturalmente, costituito dalle cosiddette sinistre di origine socialista o comunista, nel cui ambito devono essere fatti rientrare anche i pacifisti laici, i verdi, i disobbedienti, i santi non credenti, gli umanitaristi di tutte le coloriture politiche, e così via. Socialisti e comunisti, insieme a tutti gli accoliti della new age ecologista e umanitaria (fatta eccezione per Amnesty International e poche altre associazioni per davvero bipartisan), non hanno mai sprecato una parola o, se è per questo, un’ora del loro prezioso tempo nelle piazze e lungo i viali nei quali amano tanto bazzicare, per denunciare le atrocità compiute dai sovietici in Afghanistan o quelle castriste a Cuba. Anzi, risulta dai pettegolezzi relativi alla vita privata dei parlamentari italiani che qualcuno di loro intrattenga, con Fidel Castro, rapporti personali amichevoli e passi a Cuba le proprie vacanze, ospite di un dittatore liberticida che ritiene ragionevole e democratico arrestare e condannare, a pene, peraltro, non propriamente simboliche, qualunque cittadino del suo paese sia trovato in possesso di un libro americano, di un dollaro americano, o, ultimamente, di un computer (in questo caso non è necessario che si tratti di hardware di fabbricazione statunitense).

Fino a un paio d’anni fa, per il centro-sinistra europeo nel suo complesso (con le ragguardevoli eccezioni, fra gli esponenti di primissimo piano, di Lionel Jospin e Sergio Cofferati), Bill Clinton e Tony Blair costituivano altrettanti esempi del necessario rinnovamento delle forze “progressiste” del mondo occidentale, quasi fossero i liturghi di una nuova politica. Il fatto che i due leader democratici anglosassoni siano totalmente favorevoli all’intervento armato in Iraq è dovuto a una spiacevole coincidenza? E’ del tutto casuale oppure possiede delle ragioni di fondo? Come mai la sinistra non ne parla e non si interroga su questo chiaro schieramento politico? La sinistra italiana è diventata sostenitrice di un pacifismo ad oltranza, dopo aver partecipato all’operazione militare contro la Serbia, che, al di là dei formalismi concernenti un diritto internazionale molto incerto, la cui logica basica è nata nell’epoca dello strapotere degli Stati-nazione ed è quindi, al giorno d’oggi, ampiamente superata, presenta molti punti di contatto con l’attuale intervento bellico. In realtà, per il tramite dell’adesione all’intervento Nato in Serbia, si è compiuto un passaggio di sdoganamento internazionale della sinistra italiana al governo. Non si deve, infatti, dimenticare che, essendo allora Presidente del Consiglio Massimo D’Alema, il ruolo dei DS in quel governo era fondamentale, e che la storia del principale partito della sinistra italiana ha registrato, in termini formali, lo strappo dal bolscevismo dell’Unione Sovietica solo a partire dal 1979. Probabilmente, se oggi fosse al governo, la sinistra non cercherebbe la posizione isolazionista che, in quanto opposizione, può più facilmente permettersi, ma si sforzerebbe di trovare un’unità di intenti con altri paesi (la Francia e la Germania) e, quindi, pur rifiutando la guerra e le sue ragioni, non si opporrebbe, come sostiene, alla concessione del diritto di sorvolo del territorio nazionale e all’uso delle basi militare con funzione logistica. La principale ragione ideologica all’origine dell’attuale posizione della sinistra post-comunista è un diffuso senso antiamericano: non si cancellano decenni di pesanti manipolazioni e falsificazioni teoriche nello spazio di pochi anni di governo, non ci riesce nemmeno il Labour Party, che pure è in una situazione molto diversa da quella della sinistra italiana.

Quindi, in tutti e tre i blocchi, certo per ragioni diversissime, ma con in comune un punto negativo e decisivo, l’antiamericanismo è alla base della scelta per la pace.

Il punto in comune, negativo e decisivo, è costituito dal ruolo che, nel pensiero dell’integralismo religioso e della struttura sociale islamici, nell’ideologia cattolica e in quella comunista, è occupato dal concetto di libertà. In tutti questi casi, infatti, la comunità, non importa in qual senso intesa, precede e fonda il diritto degli individui, non esiste una vera dialettica fra individuo e comunità, in base alla quale si giunga a stabilire che una data comunità ha bisogno, per esistere, proprio degli individui che ne fanno parte e viceversa, come accade invece nel modello americano correttamente inteso e non ridotto a squallida e mistificante caricatura. Nella logica di questi blocchi politici c’è sempre qualcosa da anteporre al tema della libertà: la proto-comunità islamica del racconto originario, la salvezza da raggiungere nel Regno dei Cieli o il Regno dei Cieli da instaurare sulla terra. Se la libertà è un processo storico complesso e faticoso che, per sussistere, ha bisogno delle contraddizioni che si manifestano nel corso del suo sviluppo, allora le filosofie che preconizzano e desiderano la fine della storia, e, così facendo, assurgono ad altezze mistiche e ultraterrene, bruciando il tempo nell’eternità, sono statutariamente filosofie contro la libertà. L’eternità esige che la libera scelta segua la logica della necessità, e, pertanto, libertà ed eternità non sono compatibili, laddove per libertà si intenda autodeterminazione dell’individuo contro le necessità dell’eterno. La ragione profonda delle attuali invocazioni pacifiste è la trascendenza misteriosa di un Deus Absconditus da ri-velare con tutta la faziosità apostolica della quale i suoi seguaci sono capaci. Di più, trascendenza e faziosità saldano indissolubilmente posizioni politiche che, a prima vista, sembrerebbero invece del tutto inconciliabili.

  1. Le ragioni della guerra

Nessuno che sia sano di mente preferisce la guerra alla pace, secondo i canoni della cultura occidentale contemporanea. La guerra è portatrice di distruzione, lutto e dolore, mentre solo in tempo di pace si può sviluppare la cooperazione fra gli uomini, che reca con sé ricchezza e libertà. Tuttavia, talvolta, è necessario fare la guerra perché ci possa essere la pace. Ciò dipende dal fatto che, sempre secondo la nostra cultura occidentale, la pace non è un bene in sé, ma, perché essa sia apprezzata, è necessario osservarne le qualità intrinseche, la specificità. Se ipotizzassimo un regime di pace (assenza di guerra) durante il governo di un dittatore, ci colpirebbe più la dittatura che la pace. La presenza di una dittatura è sempre un pericolo per la pace, anche nei momenti in cui quella dittatura non ne infrange il codice, ed è probabile che, qualora Chamberlain avesse ascoltato le motivazioni addotte da Churchill a favore di un tempestivo intervento contro Hitler negli anni Trenta, si sarebbe potuta evitare la Seconda Guerra Mondiale. [11] Nel caso particolare di Saddam Hussein, siamo in presenza di un regime totalitario che, oltre ad aver già scatenato una guerra invadendo il Kuwait, si è anche gravemente macchiato di crimini contro l’umanità massacrando, con sistematicità ed efficienza, centinaia di migliaia di esseri umani. Di fronte ad azioni di questo tipo l’umanità nel suo complesso non può e non deve rimanere silenziosa. Se questa fosse l’unica ragione di questa guerra, si tratterebbe comunque di una ragione sufficiente per giustificarne l’opportunità in senso complessivo. La libertà è, per la cultura occidentale, il valore supremo.

Tuttavia vi sono anche ragioni specifiche che giustificano l’intervento anglo-americano in Iraq. La motivazione più importante non può essere compresa se non riferendosi nuovamente all’attentato alle Twin Towers, che ha mostrato la vulnerabilità degli Stati Uniti proprio a causa del fatto che in America, più che in qualsiasi altro paese al mondo, la libertà è il valore supremo. Dal punto di vista tecnico, gli attentati compiuti da Al Qaeda sono stati possibili anche a causa della facilità di mobilità negli Stati Uniti, dove prendere un aereo con rotta interna è semplice quasi quanto prendere un autobus della Greyhound. Effettuare severi controlli sui passeggeri dei voli interni comporterebbe un rallentamento e una riduzione della mobilità, che, per il cittadino medio americano, è un presupposto fondamentale per svolgere i compiti richiesti dall’esistenza quotidiana. Per molti versi quell’attacco è stato un attacco al cuore della civiltà e del modello di sviluppo capitalistico. La complessità esecutiva di un’operazione di quel genere, d’altro canto, lascia supporre che l’organizzazione del commando non sia stata curata dal solo Bin Laden, ma che i servizi segreti di alcuni paesi arabi abbiano prestato la loro collaborazione ed esperienza.

Da questa ovvia constatazione all’identificazione presuntiva di quali servizi siano stati coinvolti nell’attacco il passo è brevissimo. L’Iraq è uno Stato che ha ospitato e forse ancora ospita campi di addestramento per terroristi, come recentemente ha lasciato capire lo stesso Saddam, minacciando una reazione globale qualora fosse stato attaccato dagli anglo-americani. La presenza e la diffusione dei gruppi che si riconoscono, a vario titolo, nella Weltanschauung del fondamentalismo islamico costituisce evidentemente un grave rischio per la stabilità e la serenità occidentale. Le perquisizioni condotte dalle polizie di molti paesi all’interno di spazi prossimi ai luoghi di culto islamici hanno portato, molto spesso, al rinvenimento di materiale soprattutto propagandistico inneggiante alla lotta armata nei confronti dell’occidente in generale e degli Stati Uniti in particolare. Tutti gli elementi in nostro possesso mostrano la presenza di un fronte islamico articolato, basato sul fondamentalismo religioso e sull’appoggio più o meno diretto di alcuni Stati, fra i quali anche l’Iraq. L’intervento anglo-americano segue una sua logica precisa, all’interno della quale si situa subito dopo l’operazione Enduring Freedom e subito prima di altre azioni di polizia militare che ancora non sono, ovviamente, note (si è parlato, tuttavia, di Siria e Iran). E’ in questa cornice che deve essere valutato l’attacco all’Iraq, che ha come scopo ultimo quello di fermare la dittatura di Saddam, instaurando, al suo posto, un governo democratico.

In conclusione, ciò che è realmente in discussione è il governo complessivo delle relazioni politiche a livello globale. [12] L’entrata in crisi, probabilmente definitiva, dell’ONU, intesa come incapacità di dirimere le controversie internazionali, più che rendere illegittima la guerra (come vorrebbe un’interpretazione tutta giuridica del problema, fatta propria soprattutto dalla sinistra italiana, che dove vede un giudice ritiene sia in corso una festa), pone il problema dell’obsolescenza di un meccanismo di governo dei rapporti internazionali che fonda la sua ragione fondamentale sull’esistenza e sulla tutela degli Stati-nazione. Il diritto di veto di alcuni di questi rischia di rendere, nei fatti, “illegale” qualunque intervento di protezione dei valori e delle logiche di base della civiltà occidentale, che è, tra l’altro, la sola creatrice delle Nazioni Unite. Ma l’equilibrio sottostante ai diritti di veto è un derivato della Guerra Fredda, che presupponeva la divisione del mondo in sfere di influenza contrapposte, fra i sostenitori del socialismo e quelli del capitalismo liberale.

Poiché il modello socialista è, fortunatamente, stato condannato dalla storia, senza che per esso sia più possibile alcun processo d’appello, il meccanismo complessivo dei diritti di veto dev’essere rivisitato e superato una volta per tutte. Nel contempo ciò non sarà mai possibile finché continueranno ad esistere regimi dittatoriali o totalitari. La loro presenza, infatti, renderebbe insicura e vischiosa qualsiasi procedura democratica di definizione del consenso globale, poiché farebbe correre a tutti il grave rischio di consegnarsi nelle mani di poteri assoluti. Oggi il modello di sviluppo capitalistico ha uno spasmodico bisogno che nessun paese al mondo sia governato con modalità diverse da quelle democratiche. In altre parole, il nostro modello non può più permettersi di non essere globale, ha bisogno di spazi d’azione, di mercati, di luoghi fisici e virtuali nei quali dar libero corso al processo di mobilità del capitale (soprattutto umano). Questa è la struttura dell’Impero, per il quale, come dicevo all’inizio, non può più esistere nulla di esterno, nessun confine, nessun limite. La resistenza di modelli economico-politici arcaici, violenti e illiberali non è un accidente della storia, ma costituisce tutto ciò che il nuovo millennio dovrà strategicamente superare negli anni a venire. La presa d’atto dell’ineluttabilità di questo scontro non esime, tuttavia, nessuno dallo schierarsi per un modello o per l’altro. Gli inglesi e gli americani si sono, oggi, schierati dalla parte della libertà e della ricchezza contro la schiavitù e la miseria.



[1] Cfr. Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, tr. Edizioni di Comunità, Milano 1996.

[2] Cfr. Hannah Arendt, La banalità del male, tr. Feltrinelli, Milano 1964.

[3] Faccio notare, per inciso, che una simile struttura di potere è, fra le altre cose, tipica delle forme arcaiche di civiltà, come ha notato Claude Lévy-Strauss negli studi tesi a ricostruire le modalità che presiedono le logiche di riproduzione sociale delle tribù aborigene. Cfr. Claude Lévy-Strauss, Il pensiero selvaggio, tr. it. Il Saggiatore, Milano 1979.

[4] In particolare, è un grave errore confondere il pensiero unico, che a detta di alcuni costituirebbe la caratteristica chiave dell’epoca della globalizzazione, con il non pensiero tipico dei sistemi totalitari.

[5] “Tutto il corpo sociale è animato da uno stesso movimento. Non esistono più individui. Essi diventano, per così dire, i pezzi di una macchina o, meglio, i raggi di una ruota, di cui il girotondo magico, misto di danze e di canti, sarebbe l’immagine ideale, probabilmente primitiva [...] Questo movimento ritmico, uniforme e continuo, è l’espressione immediata di uno stato mentale, in cui la coscienza di ciascuno è assorbita da un solo sentimento, da una sola idea, allucinante, quella dello scopo comune. Tutti i corpi hanno la stessa oscillazione, tutti i volti la stessa maschera, tutte le voci lo stesso grido; senza contare la profondità dell’impressione prodotta dalla cadenza, la musica e il canto. Vedendo in tutti i volti l’immagine del proprio desiderio, ascoltando da tutte le bocche la prova della sua certezza, ciascuno si sente trascinato, senza possibilità di resistenza, nella convinzione di tutti. Confusi nell'impeto della danza, nella febbre della loro agitazione, essi formano ormai un solo corpo e una sola anima. E’ solo in questo momento che il corpo sociale può dirsi veramente realizzato. Le sue cellule, gli individui, vengono a trovarsi, infatti, altrettanto poco isolati, forse, delle cellule dell’organismo individuale.” Questa è la celebre descrizione di una festa primitiva data da Henry Hubert e Marcel Mauss in Saggio di una teoria generale della magia, in Marcel Mauss, Teoria generale della magia e altri saggi, tr. Einaudi, Torino 1965, p.136.

[6] Cfr. Carl Schmitt, Terra e mare, tr. Adelhi, Milano 2002 e Il Nomos della terra nel diritto internazionale dello “jus publicum europaeum”, tr. Adelphi, Milano 1991.

[7] Cfr. Antonio Negri e Michael Hardt, Impero, tr. Rizzoli, Milano 2002.

[8] Escludo, da quest’analisi, le posizioni immediatamente tacciabili di interessi materiali diretti nella scelta se partecipare o meno all’azione di polizia anglo-americana in Iraq, come quella della Francia. Si tratta, infatti, di posizioni la cui matrice ideologica è improntata al più bieco opportunismo, e che, perciò, non meritano alcun commento politico.

[9] Sui concetti di Grande e Piccola Jihad, cfr. René Guénon, Simboli della Scienza sacra, tr. Adelphi, Milano 1975.

[10] Si deve riconoscere, d’altro canto, che il pensiero cattolico non è necessariamente schiacciato su questa posizione di cattiva metafisica. Nelle loro splendenti formulazioni in forma di romanzo Anatole France e André Gide hanno fornito inequivocabili prove della possibilità di esiti convincentemente eterodossi e liberi del pensiero religioso di matrice cattolica.

[11] In questo caso si sarebbe fatto ricorso a una guerra di tipo preventivo.

[12] La miopia dell’interpretazione economicistica del conflitto iracheno, fornita da alcuni commentatori di sinistra, è essenzialmente centrata sul mancato riconoscimento di questo passaggio politico decisivo. Non voglio, qui, negare che dietro il problema del governo vi siano anche ragioni di carattere economico, ma solo che esse possiedano natura di esclusività nel definire la questione. In questo senso, quando uso l’espressione “modello di sviluppo capitalistico”, ne intendo un’accezione ampia, politica, culturale ed economica.

 

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