BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 26/11/2001

SULLA MANAGERIALITA' PUBBLICA

di Stefano Rosato

"government is not the solution to our problem. Government is the
problem
"
(Ronald W. Reagan, First Inaugural Address, 20 gennaio 1981)

Voglio tornare anch'io sull'articolo di Zanini apparso su Bloom! il 10 Settembre 2001 e intitolato: Avere la vision e poi sporcarsi le mani: ovvero Taylor aveva ragione, anzi tutto per dire che condivido quanto sostiene Davide Storni relativamente al fatto che, nella nostra esperienza manageriale interna alle aziende private, appare sempre più evidente il limite di un approccio culturale esclusivamente legato alla modellistica del razionalismo organizzativo e del tutto sganciato dal momento del sogno e del desiderio, che ci sembra, invece, centrale per comprendere il funzionamento di qualsiasi organizzazione. Ciò, ovviamente, non significa il rifiuto di una metodologia di stampo razionale, ma la presa d'atto della sua insufficienza per la comprensione dei fenomeni che sottendono l'agire umano, individuale o di gruppo, che possono essere inquadrati all'interno di una prospettiva polisemica e multiforme (perché dicono cose diverse e spesso contraddittorie in maniera diversa e spesso contraddittoria) solo nell'ambito di procedure teoretiche di tipo interdisciplinare, proprio perché l'organizzazione interna alle aziende per un verso sembra, nell'Occidente capitalistico, funzionare, mentre, da un altro punto di vista, mostra tutta la propria frammentazione e irriducibilità ad unum. Di più, proprio perché tale funzionamento nella discontinuità, nella rottura, nella frammentazione, è l'unico tipo di funzionamento efficace che oggi conosciamo.

In una celebre saggio della metà degli anni Quaranta, Individualism: True and False, contenuto nel volume Individualism and Economic Order e tradotto in italiano per i tipi di Rubbettino nel 1997 (Individualismo: quello vero e quello falso), Friedrich von Hayek mostra come la modernità sia attraversata da due differenti tipi di individualismo: quello falso (di origine cartesiana e poi illuministica, quindi francese), che si fonda sull'onniscienza della ragione individuale e dei modelli da essa creati, e quello vero (di derivazione lockiana, burkiana e poi smithiana, quindi anglo-scozzese, con la sola eccezione di Tocqueville) che invece costruisce, a ridosso della fallibilità umana, una teoria del sapere e dell'agire il cui centro è l'a-intenzionalità, per la quale l'esito di un'idea o di una pratica non è mai dato per scontato prima dell'accadere, e che, perciò, rifiuta la modellizzazione come forma gestionale della società, aprendo quest'ultima alla catallassi, al libero sviluppo della sua storia. Se il primo tipo di individualismo, quello razionalista, potesse, infatti, dimostrare di avere ragione, esso avrebbe diritto al governo degli uomini, in quanto sempre conoscerebbe il bene e il male, sulla base della propria superiorità teorica, il cui prodotto potrebbe essere usato come modello per una costruzione razionale della società e dei rapporti che intercorrono al suo interno. In tal senso la sociologia e l'economia sarebbero delle scienze esatte e il concetto di pianificazione socialista una verità dominante, da imporre al popolo da parte di quell'élite di "buoni e saggi" in possesso di tale verità (in quanto è evidente che non tutti gli uomini pensano e agiscono secondo ragione). Così, come accade nella vulgata buonista delle teorie socialiste, sempre pronte, nella realtà, a trasformarsi una volta preso il potere in durissime dittature secondo il proprio concetto, la società intera sarebbe ridotta a una produzione statale per il tramite di un'élite di razionalisti illuminati, il cui scopo ultimo sarebbe quello di educare le masse alla razionalità e alla bontà. Individualismo, in questo senso, sarebbe la religione della Dea Ragione e i diritti degli individui sarebbero anzi tutto i diritti di quegli individui sommamente razionali che governano lo Stato schiacciando su di esso tutta la società. Per l'altro tipo di individualismo, invece, l'impossibilità di conoscere l'accadere prima che esso sia avvenuto dimostra, invece, la necessità di una radicale separazione fra Stato e società, per la quale il ruolo del primo dev'essere quanto più possibile ridotto, affinché la società sia quanto più libera possibile nel suo dispiegarsi. Solo così la creatività umana e lo spirito attivo creato dalla necessità possono essere agiti al massimo grado, con benefici per tutti. E, detto per inciso, in questa seconda idea di individualismo è molto più presente che nella prima l'elemento del sogno e del desiderio come grandi raccordi fra il reale e l'immaginario, come veri e propri motori della storia, che, invece, il primo tipo di individualismo vorrebbe sacrificare una volta per tutte al definitivo trionfo della ragione.
Tutta la storia degli ultimi secoli è, in fondo, la storia della contrapposizione fra queste due concezioni dell'individuo e del suo mondo, fra l'idea liberale e quella totalitaria, che assume, di volta in volta, connotati differenti (socialismo, fascismo, integralismo religioso), che rimandano, in ultima istanza, alla conoscibilità della verità da parte dell'uomo, o meglio, di alcuni uomini, i quali, sulla base di questa supposta superiorità rispetto a tutti gli altri, avrebbero il diritto/dovere di governarli.

Secondo la concezione politica liberale, lo Stato è per sua natura oppressivo (un policeman, disse Ayn Rand), ed è pertanto necessario limitarne il potere a favore di quello della società. Negare il primato della società significa, infatti, o commettere un atto di arbitrio assoluto, un atto di dominio sull'esistente condotto sulla base della forza bruta, oppure, tramite il ricorso alla fondatezza del razionalismo, confidare nella capacità degli uomini (di alcuni uomini) di possedere la verità: questa pretesa, che è stata spazzata via dal relativismo della modernità, si configura come tipica dell'orda originaria e dei suoi tentativi di sistematizzazione del mondo in un cosmo nel quale sia sempre immanente la trascendenza, come selvaggia (laddove, invece e del tutto a sproposito, si parla fin troppo spesso di liberismo selvaggio). Tuttavia la dottrina liberale non riesce ad immaginare una pacifica convivenza senza lo Stato (lo hanno fatto solo gli anarco-capitalisti come Murray Newton Rothbard con argomentazioni discutibili, delle quali non è possibile, qui, far cenno), ma si interroga, in modo radicale, su quali ne debbano essere i compiti. Nel IX capitolo del Second Treatise on Government (1690), intitolato Of the Ends of Political Society and Government, John Locke si chiede:
"Se l'uomo nello stato di Natura è così libero come si è detto, se è l'assoluto padrone della sua propria persona e di ciò che possiede (possessions), uguale al più grande e soggetto a nessuno, perché rinuncia alla sua libertà (1), al suo imperio, e si assoggetta al dominio e al controllo di un altro potere? A ciò è ovvio rispondere che, sebbene nello stato di Natura tale imperio sia un diritto, il suo godimento è assai incerto e costantemente esposto all'aggressione (invasion) da parte degli altri; poiché, infatti, tutti sono re come lui, ciascuno è suo pari e la maggior parte non è stretta osservante dei precetti di equità e giustizia, il godimento della proprietà che egli ha in questo stato è incerto e insicuro. Ciò lo rende desideroso(2) di abbandonare questa condizione nella quale, sebbene libero, è pieno di timori e vive in situazione di costante pericolo; e non è senza ragione che tenti e desideri di unirsi in società con altri che già sono uniti, o abbiano in mente di unirsi per la mutua preservazione delle loro vite, libertà e sostanze, di ciò che chiamo, in generale, proprietà".

In questo passaggio lockiano, che è da sempre considerato uno dei grandi manifesti del liberalismo, sono già presenti tutti gli aspetti fondamentali della dottrina liberale dello Stato ed emergono, nettamente, le differenze concettuali con la teoria socialista. Lo scopo della comunità è quello di garantire, appunto, la "mutual preservation" delle vite (lives), delle libertà (liberties) e delle sostanze (estates) dei suoi membri, ovvero quello di evitare che ciascuno, e quindi tutti, essendo assolutamente libero e sovrano attenti alla proprietà degli altri con mezzi violenti. In altre parole, a differenza della dottrina socialista dello Stato, per quella liberale il compito di quest'ultimo si esaurisce in un'istanza di carattere assolutamente negativo: lo Stato non potrà mai dire a nessuno dei membri che lo hanno costituito quali siano le azioni da intraprendere in quanto ritenute giuste, ma soltanto quali siano le azioni da non intraprendere, in quanto ritenute ingiuste poiché lesive dell'altrui proprietà o libertà; dovrà vegliare affinché queste azioni non possano essere impunemente compiute da nessuno dei suoi membri e da nessun aggressore esterno, e in tale attività repressiva della violenza si sarà esaurito il suo potere e sarà stato soddisfatto il suo scopo che è quello di provvedere, tramite la difesa della proprietà di ciascuno (che si esercita con gli istituti della polizia, della magistratura e dell'esercito), al "common good". Nel saggio Man's Rights, contenuto in The Virtue of Selfishness (1964), Ayd Rand torna su questo concetto, sostenendo che il governo deve la sua origine alla necessità di proteggere i membri della comunità dai criminali, e la costituzione a quella di proteggere i membri dallo strapotere dello Stato, in quanto i diritti individuali precedono qualunque potere pubblico (3).

Questo excursus filosofico, peraltro non esaustivo della filosofia liberale, e che spero non sia stato troppo lungo e noioso, era tuttavia necessario al fine di introdurre il tema principale del quale vorrei qui discutere. Se lo Stato è un male necessario, come si evince chiaramente da quanto sopra detto, che priva ciascuno di una parte della propria sovranità, per consentire a lui e a tutti gli altri, di esercitare liberamente la parte residua, allora è necessario che i suoi confini siano nettamente delimitati. Lo Stato vive, infatti, a differenza di qualsiasi altra istituzione, di rapina: mentre ciascuno è assolutamente libero di non acquistare i prodotti di una qualunque azienda, con ciò costringendola, al limite, al fallimento, esercitando così il proprio libero arbitrio fino alla discriminazione privata, nessuno può rifiutarsi di pagare le tasse, che sono il sistema tramite il quale lo Stato esige un tributo per i propri servizi. Tale tributo è del tutto impositivo e rispetto alla sua esazione non esiste alcuna libertà. Ora si tratta di capire fino a che punto l'imposizione di quest'obbligo possa essere considerata come giustificata da parte di una teoria per la quale la verità è inconoscibile. Il mantenimento dell'ordine pubblico interno e la difesa da un'offesa esterna sono i limiti logici di tale imposizione. Lo Stato liberale, pertanto, si configura come impolitico; il suo scopo non è quello di garantire ai cittadini la felicità o condizioni di vita dignitose (concetti che presupporrebbero una chiara definizione, e quindi la conoscenza assoluta di che cosa sia la felicità o di che cosa si debba intendere per dignitoso, in altre parole la conoscenza della verità), ma semplicemente quello di proteggerli da atti diretti che impediscano loro, in senso oggettivo e limitandone la libertà o danneggiandone la proprietà, di utilizzare al meglio le proprie risorse per raggiungere ciò che ciascuno di loro ritiene essere la felicità o la dignità, purché ciò non avvenga tramite quegli stessi atti dai quali lo Stato li protegge. In tal senso, e vengo al tema posto da Zanini, ritenere che lo Stato debba occuparsi di economia, o fornire servizi sociali ai soggetti più deboli, non è altro che un'estensione della sua azione di rapina oltre i confini che ad esso devono essere consentiti da una logica di tipo liberale: chi infatti pagherà questi servizi resi ai soggetti più deboli? Dove troverà lo Stato le risorse necessarie per mantenere tutto l'apparato amministrativo che consente l'espletamento di tali mansioni? Derubando i soggetti più forti, i ricchi, contro la loro volontà, imponendo loro, tramite la tassazione, di prendersi cura dei problemi di altri, dei quali è del tutto legittimo, da parte loro, disinteressarsi. E ancora: chi deciderà della qualità dei servizi erogati dallo Stato? I poveri, che per questi servizi non hanno pagato nulla, e che, per esempio, potrebbero ritenere che una cattiva gestione delle istituzioni sia da addebitare alla scarsità dei fondi erogati? O i ricchi, che sono stati derubati? I più, rapinatori e rapinati in modo indistinto? O lo Stato stesso, in un momento di particolare schizofrenia, nel quale nulla garantisce che il suo giudizio sia oggettivo? E, all'interno di questo contesto di sostanziale avalutatività, come si configurerà la struttura amministrativa deputata all'erogazione dei servizi? Sarà una struttura al cui interno vige l'etica della responsabilità o nella quale invece non è in alcun modo evidenziabile alcuna precisa responsabilità, sia essa individuale o collettiva? E, all'interno di tale struttura, sarà possibile introdurre concetti di managerialità, con o senza "abuso di anglicismi manageriali impropri"?

E' possibile cercare di dare una risposta a queste domande proprio partendo da quest'ultima espressione, che Zanini, nel suo articolo, attribuisce al proprio capo. Il manager è colui che conduce un'azienda, o una sua parte, sulla base della fiducia di uno o più azionisti, con l'obiettivo di far rendere tale azienda o tale sua parte al meglio, nel breve o nel lungo periodo, secondo il mandato ricevuto. Da tale manager ci si aspetta che risponda del proprio operato all'azionista o al datore di lavoro, in quanto tale operato influisce del tutto o in parte, in maniera diretta e consequenziale, all'andamento dell'impresa, per la cui vita le decisioni manageriali sono fondamentali. In ciò il manager si distingue nettamente dall'impiegato d'ordine o dall'operaio (4), le cui decisioni non sono invece fondamentali per l'esistenza dell'impresa. Il livello decisionale del manager è tale per cui un suo errore potrebbe comportare un danno per l'azionista e per l'impresa nel suo complesso, e questa è la ragione ultima del suo livello di stipendio (e della sua licenziabilità, contrattualmente sancita). Un danno all'impresa, nel breve o nel lungo periodo, si traduce sempre in una perdita economica (diretta, oppure indiretta come perdita di occasioni e di opportunità) misurabile per l'azienda o l'azionista. La responsabilità è appunto la capacità di rispondere delle errate decisioni che hanno comportato quella perdita: se l'uomo non fosse fallibile, infatti, sarebbe irresponsabile, in quanto non potendo sbagliare non avrebbe nulla di cui eventualmente rispondere. In ultima analisi il responso della correttezza o dell'erroneità di una decisione viene sempre affidato al mercato, ai consumatori, che soli e liberamente possono decidere della bontà di un prodotto o di un'idea (5). In un'economia non di mercato non esistono decisioni economicamente scorrette perché non vi è nessuno che possa ad esse opporsi; nell'economia socialista pianificata, per esempio, prezzo e livello della produzione sono predefiniti da enti esterni alle aziende, i cui manager sono pertanto infallibili quanto alla resa economica delle proprie decisioni. La decisione del manager capitalistico è invece sempre molto rischiosa e vi è bisogno che chi la prende sia ad essa preparato, sia dal punto di vista razionale che da quello psicologico. Ora, è possibile che tale processo decisionale, che è appunto razionale ma non solo, avvenga nell'ambito del contesto pubblico? Io credo di no, perché, in ultima istanza, non vi è un mercato a giudicare della bontà o meno di una decisione che intervenga in un qualsiasi punto di un processo produttivo. L'azione del manager pubblico è sempre potenzialmente invalutabile; egli è pertanto sempre irresponsabile, nel senso sopra esposto del termine: non vi è necessariamente qualcuno al quale possa rispondere del proprio operato, in quanto non esiste né un mercato come ambito del suo agire né un azionista o datore di lavoro al quale rendere conto delle proprie decisioni.

Ma, si potrebbe obiettare, anche il manager pubblico in realtà risponde ad un azionista, che, in ultima istanza, è il responsabile politico del settore presso il quale egli opera. Prescindendo qui del tutto da considerazioni relative all'illogicità della sindacalizzazione del management pubblico (i dirigenti dello Stato sono iscritti al sindacato, scioperano, si riconosce loro il lavoro straordinario in termini orari, ecc...), ciò che rende per davvero lo rende irresponsabile è il criterio sostanzialmente monopolistico dei servizi erogati dallo Stato, il fatto che gli utenti non siano liberi di scegliere fra erogatori fra loro concorrenti (6). Il mercato non può quindi rifiutare il servizio erogato dallo Stato, in quanto non ha alternative rispetto a quel servizio. L'unica cosa che realmente può fare il mercato è di rifiutare in toto l'attività di un amministratore, non rieleggendolo alla successiva tornata elettorale. Proprio per questo, l'eventuale reazione negativa del mercato nei confronti dell'uomo politico non avviene, per lo più, in tempo reale, ma ha un effetto ritardato, da un lato, e, quando e se avviene, non si riferisce generalmente alla valutazione di un servizio o prodotto specifico, ma riguarda un ambito più generale che spesso esula dall'analisi dell'operato di una sola persona, dall'altro. Per queste ragioni anche l'operato del manager pubblico è necessariamente più di tipo politico che strettamente economico, in quanto deve tenere conto di una serie di variabili molto diverse da quelle di cui si occupa il manager privato. Da questo punto di vista, si può ritenere che, fra le due figure, resti comunque uno scarto considerevole anche qualora si consideri il carattere per così dire non totalmente privato del business nel contesto europeo, in cui la gran parte degli Stati ha una costituzione formale che nasce da una mediazione fra istanze politiche differenti, ivi inclusa quella di matrice socialista.
Infine, fra la posizione tutta politica espressa dal capo di Zanini, che ritiene che l'inserimento delle teorie manageriali nell'ambito pubblico non sia del tutto funzionale al sistema, e quella di Zanini, per il quale la declinazione razionalistica dell'attività manageriale ne esaurisce l'ambito di efficacia, io preferisco la prima, in quanto è preferibile un management pubblico sostanzialmente inefficiente a un management pubblico iperefficiente, la cui azione corretta e precisa dal punto di vista manageriale potrebbe far correre il rischio di generare il desiderio di un'infinita estensione dell'azione di rapina da parte dello Stato.


Note:
1 "Why will he part with his freedom", dove nel concetto di "part with" è implicito il concetto di (con-)divisione, separazione, ma anche quello di concessione. In altre parole l'uomo, assolutamente libero nello stato di Natura, è "in-dividuo", non separato da sé stesso e dalla propria libertà; laddove lo Stato introduce questa separazione, quest'alienazione del Soggetto da sé stesso. Tuttavia l'atto di istituzione dello Stato è ancora un atto assolutamente libero, una sorta di concessione del Soggetto. Da ciò nascerà la necessità che lo Stato sia limitato, in quanto nasce appunto come una specifica "concessione", limitata, per definizione, nei mezzi e nei fini.

2 "Willing", dove, ancora, è implicito il concetto di volontarietà dell'assoggettamento al potere dello Stato.

3 "Ce n'est pas la Propriété qui est conventionnelle, mais la Loi." Fréderic Bastiat, Proprieté et Loi, in Journal des Économistes, 15 maggio 1848.

4 Come è stato ormai dimostrato, in realtà nemmeno l'operaio sfugge più all'assunzione manageriale di responsabilità, ora che è sparito l'operaio massa, sostituito dal tecnico specializzato, le cui decisioni influiscono in modo diretto sul processo di produzione. Cfr. A. Negri, L'inverno è finito, Castelvecchi, Roma 1996.

5 Il vecchio adagio per il quale il consumatore non sarebbe libero di decidere in quanto non meglio definibili persuasori occulti lo avrebbero "traviato" rispetto alle sue libere scelte nasconde, ancora una volta, il demone del totalitarismo socialista: dovremmo forse vietare la pubblicità? rendere impossibile a chiunque sostenere: "il tal prodotto mi piace da impazzire e voglio riempirmene la casa"? annullare qualunque libera circolazione delle idee? rendere illegali le ricerche di mercato, tese a comprendere le preferenze della clientela? o, forse, affidare allo Stato tutta la produzione in ogni settore merceologico, in modo monopolistico, cosicché non vi sia più bisogno di pubblicizzare alcunché?
Io, personalmente, sono abbastanza lontano da una prospettiva di tipo consumistico, provo un profondo orrore per gli ipermercati (condivido sicuramente lo spirito dell'articolo di Rodolfo Fioribello, Contro gli ipermercati, Bloom!, 25 maggio 2001), ma non credo minimamente che le mie predilezioni estetiche e di consumo debbano valere anche per tutti gli altri, così come desidero che le loro non debbano valere per me. E quando dico questo, quando uso l'espressione "debbano", non mi riferisco ovviamente a una realtà di fatto, a un mercato, ma ad un'eventuale legge dello Stato che dovesse imporle.

6 Scenario che, peraltro, renderebbe del tutto inutile la presenza dello Stato fra essi, almeno di non rivelare del tutto il suo carattere di rapinatore. Se, infatti, lo Stato erogasse servizi che producono utili, non sarebbe comprensibile l'affidamento ad esso di tali servizi, in quanto la società sarebbe naturalmente interessata a farsi carico di un impresa redditizia. Ne consegue che lo Stato può solo erogare servizi in perdita, che vengono regolarmente pagati da qualcuno con le tasse.


Sul tema della Globalizzazione vedi anche:

- Gianfrancesco Prandato, L'amico americano n. 11. Debiti; L'amico americano n. 14: Marche; L'Amico americano n. 15: Globali;
- Del consenso e del potere di Empire (recensione a Emire di Toni Negri)
- Renato Votta, recensione a Contro il Capitale globale, di Jeremy Brecher e Tim Costello
- Francesco Varanini, Per una critica del logo impuro
- Nicola Gaiarin, Variazioni sulla globalizzazione, Recensione a Filosofia e (critica della) globalizzazione, almanacco di Micromega, 5/2001

 

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