BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 07/01/2002

I NO GLOBAL E LA SCHIAVITU'
(risposta a una risposta di Rodolfo Fioribello)

di Stefano Rosato

E' noto che per Aristotele (Politica, libro I) gli uomini, uguali per essenza, sono tuttavia diversi per natura, nel senso che, rispondendo ciascuno ad un'appropriata funzione, è possibile distinguere, fra loro, schiavi e padroni: lo schiavo è un oggetto di proprietà animato che, in assenza di processi produttivi automatizzati, esegue gli ordini del padrone, in quanto, in quest'ultimo, la parte razionale, spirituale, a differenza di quanto accade nello schiavo, ha il sopravvento su quella animale, la coordina, la utilizza come strumento; così può utilizzare lo schiavo come se fosse la propria parte animale. In presenza di processi produttivi automatizzati, però, non vi sarebbe in realtà bisogno di schiavi nemmeno per Aristotele, in quanto il comando e la sua esecuzione potrebbero essere impiegati senza bisogno di intermediari. Nella realtà, per tutto il tempo in cui i processi di produzione non sono stati automatizzati, la struttura sociale della schiavitù ha resistito, per decine di secoli, ininterrotta, anche all'interno degli Stati appartenenti alla civiltà occidentale. Nel sito http://web.genie.it/utenti/i/inanna/livello2/schiavi.htm è possibile trovare una serie di informazioni sulla schiavitù nel corso della storia, dalle quali si evince come fu proprio la rivoluzione industriale ad abolirla nel corso del XIX secolo, ma anche come la UN Research Institute for Social Development (UNRISD), appartenente all'ONU, abbia recentemente accusato la Mauritania, il Sudan e altri stati arabi (che caso!) di continuare, contro ogni norma di civiltà e di diritto internazionale, a ridurre in schiavitù le popolazioni dell'Africa nera. Nello stesso sito viene, inoltre, ricordato uno dei motivi addotti da Adam Smith come fondante rispetto al tema dell'abolizione della schiavitù, ovvero il maggior costo sostenuto dal datore di lavoro per uno schiavo rispetto a un salariato. Di fatto la schiavitù, in un sistema industriale avanzato, è decisamente antieconomica, poiché la manuntenzione della macchina è meno costosa di quella di esseri umani, da un lato, e perché l'occupazione di milioni di persone in attività che devono essere proprie delle macchine impoverisce il tessuto economico in generale, sottraendo ricchezze, energie, risorse, idee, allo sviluppo del libero mercato, dall'altro. In tutti i contesti socio-economici nei quali non si è assistito alla rivoluzione industriale continuano ad esistere, da migliaia di anni, forme sociali non libere, nelle quali alla schiavitù (normata o di fatto) si aggiungono la miseria e la povertà più nere, coinvolgendo una parte cospicua dell'umanità.

L'affermarsi della rivoluzione industriale ha comportato un violento conflitto di classe fra i liberali classici, sostenitori del minimo intervento possibile dello Stato in economia e delle massime garanzie di libertà ai cittadini, e i mercantilisti, che appartenevano a un blocco sociale precedente, che tentava, attraverso un deciso intervento dello Stato teso a favorire alcuni mercanti a scapito di altri, di lasciare inalterati per gli aristocratici tutti i diritti dell'ancien régime. Murray Newton Rothbard (Per una nuova libertà - Il manifesto libertario, Liberi libri, Macerata 1996, pp. 27-35) ha mostrato come questo conflitto fra liberismo e mercantilismo, fra liberismo e protezionismo, abbia attraversato la storia degli ultimi due secoli, producendo una relativa vittoria dell'istanza mercantilista e protezionista. Dico "relativa" perché, al di là dei tentativi delle forze dell'ancien régime di mantenere inalterata la propria posizione di predominio, si è comunque compiuto un processo storico di tipo liberale, che è stato solo in parte frenato da quelle politiche corporativo-conservatrici di welfare state che, non bisogna mai dimenticarlo, sono diventate di moda negli Stati occidentali a partire dall'azione politica di uno Junker prussiano. Questo freno posto alle istanze liberiste è stato relativamente più forte nell'Europa continentale che negli Stati Uniti (dove, comunque, è stato tutt'altro che assente, soprattutto da parte delle politiche roosveltiana e kennedyana, quindi del Partito Democratico), e costituisce una delle concause della debolezza economica europea rispetto agli Stati Uniti. Attraverso la politica corporativo-conservatrice tipica del welfare state le vecchie élites pre-industriali hanno mantenuto una presa sul sistema politico europeo e in parte anche americano, che ha rallentato la rivoluzione liberale. Questa politica è stata realizzata grazie ad un accordo con le forze socialiste, la cui istanza di assoluta illibertà è stata dimostrata da tutte le concrete applicazioni storiche del loro pensiero. Si pensi, in Italia, al caso Fiat o a quello Olivetti, e ci si renderà subito conto che questa alleanza fra notabili locali e forze di ispirazione socialista ha fortemente lavorato per la difesa dello status quo e ha consentito un massiccia presenza dello Stato nell'economia.

Tutto ciò per dire che quanto sostiene Rodolfo Fioribello nel suo articolo in risposta al mio sulla globalizzazione mi trova concorde, ma non sposta di una virgola il problema relativo al liberismo, che, in realtà, non è l'ideologia vincente nel mondo occidentale, ma una tendenza di fondo difficile da soffocare in toto ma che nemmeno si è per davvero compiutamente affermata. L'istanza liberale pura non ha dato luogo a schieramenti politici solidi in Occidente, oggi non esistono quasi da nessuna parte partiti liberali forti che governino paesi occidentali, i liberali, a torto o a ragione, hanno in genere teso a propagandare le loro idee in forme molto diverse da quella del partito politico e del controllo dello Stato. Tuttavia, ove più e ove meno, molte di queste idee hanno fatto breccia nel comportamento delle persone, hanno dato luogo a singoli atti di successo di tipo imprenditoriale, hanno contribuito ad arricchire la vita e la cultura dell'umanità, pur rimanendo nella loro intima essenza sostanzialmente élitarie (credo a causa del fatto che, come diceva Gide, liberarsi è cosa piuttosto semplice, il difficile è essere liberi).

Se leggiamo, sulla base della quantità di pensiero liberale applicato, le differenze fra il sistema sociale statunitense e quello europeo, comprendiamo perché milioni di persone europee siano emigrate verso gli USA e, invece, gli americani siano rimasti negli Stati Uniti e non emigrati verso la felice Europa del welfare state socialista e conservatore; se analizziamo i dati del PIL degli Stati Uniti e li rapportiamo a quelli europei tramite un'analisi storica, scopriamo che la crescita del benessere complessivo americano non ha paragone con quello europeo; oppure se ci chiediamo che fine avrebbe fatto l'Europa dominata dal nazismo (Germania), dal fascismo (Italia, Spagna, Portogallo, Grecia) e dal comunismo (Unione Sovietica, Ungheria, Germania dell'Est, Cecoslovacchia, Romania, Bulgaria, Polonia, Yugoslavia, Estonia, Lettonia, Lituania) senza l'intervento armato degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale e senza la guerra fredda, dobbiamo seriamente interrogarci su quale sia il mondo in declino di cui parlava Rodolfo Fioribello (invero un po' come Lukacs quando diceva che il capitalismo sarebbe caduto da solo, magari con l'aiuto di una piccola spinta). Naturalmente se applichiamo simili concetti e paragoni al rapporto fra Occidente nel suo complesso e Terzo Mondo, ci rendiamo conto delle enormi differenze di occasioni di vita fra i due mondi.

In una logica di processo storico di longue durée l'approccio no global alle tematiche dell'economia e dello sviluppo della civiltà si rivela particolarmente miope, in quanto finge di non vedere, naturalmente con la pancia piena e il sedere al caldo, che l'essenza del suo ragionamento è in realtà di natura moralistica e di chiara derivazione buonista e cattolica. Non è certamente qui il caso di addentrarsi nella mistura di caos culturale della quale si pasce il movimento no global (religiosità, pacifismo, orientalismo, anarchismo, tecnologia, socialismo, ecologismo, pauperismo, bobdylanismo, ecc…); è sufficiente far notare che la ricetta implicita prevista dai suoi sostenitori imporrebbe all'Occidente di spogliarsi delle proprie ricchezze, non importa in che modo accumulate, per distribuirle fra i popoli del Terzo Mondo, aiutandoli così non già ad uscire dalla miseria, ma a rimanerci vita natural durante. Sembra peraltro sfuggire, a questi giovini signori della teoria politica, che forse esistono dei motivi in base ai quali è per loro possibile chiedere ciò all'Occidente, e che questi motivi probabilmente coincidono con la superiorità economica, sociale, politica, civile, del modello occidentale, che produce e distribuisce ricchezza. L'esportazione di questo modello (nella sua parte veramente propulsiva e aperta, che è quella della teoria liberista, e non delle sue distorsioni protezioniste e socialiste) veramente potrebbe aiutare il Terzo Mondo ad uscire dalla sua situazione di crisi, peraltro millenariamente strutturale, nell'ottica di una completa globalizzazione di tutte le forme umane di scambio, di cui quella economica è solo una delle tante possibilità. Desiderare, invece, che tutti si comportino come se fossero buoni e donino liberamente ai poveri le proprie ricchezze può dar luogo a due differenti forme dell'agire politico: o davvero tutti, improvvisamente, diventano buoni, per miracolo, oppure vengono fatti diventare buoni, malgrado la loro volontà, da un governo di saggi e illuminati, che decide per tutti contro la loro volontà. Nel movimento no global sono presenti ambedue le tendenze, anche se temo che la seconda sia naturalmente maggioritaria.

Non comprendo nemmeno l'enfasi che i no global pongono (e che Rodolfo Fioribello riprende nel suo articolo) sulla limitatezza di un approccio economico-centrico al problema di un confronto fra modelli culturali differenti, come quelli dei paesi ricchi e dei paesi poveri. E' essenzialmente grazie alla rivoluzione industriale e alla creazione di un mercato di massa dei consumi che l'Occidente si è liberato dal giogo plurisecolare della superstizione e della dominazione da parte di infime minoranze, calpestatrici sistematiche di tutti quei valori che, per noi, coincidono con i concetti di civiltà e libertà. Senza di essa l'Occidente sarebbe ancora, come è per esempio gran parte del mondo arabo (che dovrebbe, in verità, essere eretto a proprio simbolo dai no global, ricco com'è di spiritualità e di istanze di rigetto rispetto all'orribile modello capitalistico occidentale), un mondo di schiavi, liberi forse solo di decidere se suicidarsi, sporchi, malati e ignoranti, invece che un mondo di consumatori, forse un po' rozzi, ma che oggi possono permettersi un tenore di vita che fino a solo un secolo fa era possibile per una minima parte della popolazione. Questa ricchezza economica è il valore fondante dell'Occidente, e ciò che ha consentito a grandi masse di avere accesso a benessere, consumi, sicurezza fisica e sociale, modelli culturali, altrimenti impensabili. Comprendo che il comportamento dell'impiegato massa all'ipermercato generi il ribrezzo di Fioribello (e certo anche a me non suscita un'immediata reazione di coinvolgimento emotivo di stampo positivo), ma mi è altrettanto chiaro che è preferibile vivere in mondo di consumatori di ipermercati che ingurgitano estrogeni che in uno di pellagrosi sottoalimentati: è un problema statistico, di cifre, basta analizzare i dati relativi alla life expectancy nel mondo occidentale degli ultimi cento anni per rendersene conto.

Alla fine, se lo depuriamo dalle sue assurdità di cattolicesimo buonista (nobili, forse, ma del tutto inapplicabili), il movimento no global pone il problema del governo della complessità in una logica politica che non si distanzia, per essenza, da quella del marxismo ottocentesco, ma se ne differenzia solo per grado. Per questo motivo la sinistra italiana nel suo complesso simpatizza col movimento no global, in quanto l'istanza finale che questo pone è del tutto intrinseca alla sua cultura.

Invece di pensare a come rafforzare l'intervento dello Stato in economia, magari estendendo il concetto su scala planetaria, dovremmo, caro Rodolfo, pensare a come farne il più possibile a meno, non dimenticando mai che la follia socialista è solo un corno del problema: è sempre all'erta, sempre desidera estendere il suo dominio, anche la cultura stato-centrica delle forze protezionistiche, che traggono il vero vantaggio, in tutti i regimi, dall'economia di Stato, e della cui capacità di occupare costantemente potere abbiamo sotto gli occhi innumerevoli esempi.


Sul tema della Globalizzazione vedi anche:

- Gianfrancesco Prandato, L'amico americano n. 11. Debiti; L'amico americano n. 14: Marche; L'Amico americano n. 15: Globali;
- Del consenso e del potere di Empire (recensione a Emire di Toni Negri)
- Renato Votta, recensione a Contro il Capitale globale, di Jeremy Brecher e Tim Costello
- Francesco Varanini, Per una critica del logo impuro
- Nicola Gaiarin, Variazioni sulla globalizzazione, Recensione a Filosofia e (critica della) globalizzazione, almanacco di Micromega, 5/2001


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