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Pubblicato in data: 18/02/2002

LA LOTTA CONTRO IL MOSTRO

di Stefano Rosato

1. Premessa

          Quando nel 1986 venne pubblicata, per i tipi di Pironti, la traduzione italiana di quel manifesto programmatico del minimalismo colto americano che è Meno di zero di Bret Easton Ellis, fu inserita nel libro una postfazione di una cinquantina di pagine scritta da Fernanda Pivano intitolata Minimalisti e postminimalisti hemingwayani. Nelle prime pagine del saggio, ovvero prima di addentrarsi dell’analisi dell’opera dei minimalisti contemporanei, Pivano traccia un breve abbozzo delle esperienze narrative nordamericane tra gli anni Cinquanta e i primi anni Settanta, centrandolo intorno al tema di una letteratura sempre più attenta, da un lato, alle necessità della sperimentazione linguistica e sempre meno attratta, dall’altro, dalle tematiche del realismo classico. E’ singolare che, tra le figure di passo che accompagnano la più grande critica italiana della letteratura nordamericana nel viaggio verso la necessità della narrativa minimalista, non compaia, accanto ai Kurt Vonnegut e ai Thomas Pynchon, lo scrittore che forse più di ogni altro, in questi ultimi vent’anni, ha giocato con la sperimentazione letteraria (cimentandosi in generi assai eterogenei) e ha posto il nesso realismo-fantastico al centro esatto della propria produzione artistica: Stephen King.

          L’omissione di Pivano ha sicuramente molte ragioni di fondo, che qui non è il caso di sottolineare in tutta la loro ampiezza. Ciò che preme rilevare è il fatto che la cultura ufficiale europea del Novecento sembra quasi espungere deliberatamente dal proprio panorama analitico tutte quelle creazioni artistiche che, in quanto pagano (o ricevono, a seconda dei punti di vista) il prezzo del successo e della cattura del grande pubblico, le appaiono quasi per forza di cose appartenere al mondo del divertissement e non a quello della riflessione, ovvero a una sfera affatto diversa da quella dell’arte "alta". [1]

          Molti sarebbero gli esempi possibili di una siffatta impostazione mentale. Si pensi, nell’ambito cinematografico, alle differenti reazioni manifestate dalla cultura ufficiale nei confronti di Via col vento e di un qualunque film di Wim Wenders; oppure, nell’ambito musicale, alla diversa presa che incontra una canzone di Elvis Presley da un’opera di Luigi Nono. Lo snobismo culturale europeo, vivo soprattutto nelle accademie (ove, peraltro, si discute assai più di concorsi e questioni retributive che non di opere d’arte), ritiene che l’artista di successo meriti una considerazione assai limitata, in quanto, illuministicamente, assume per vera l’equazione popolo=barbarie, e quindi rifiuta ogni forma di produzione artistica che riesca a incontrare il favore di larghi strati del pubblico, etichettandola come "facile" o "di intrattenimento" se non "spazzatura".

          Per il vampirismo che è proprio alla critica letteraria come professione, il fatto che uno scrittore riesca talora perfino a mangiare e a sostentarsi con i proventi della sua opera è tendenzialmente un fatto volgare, un tradimento, nella migliore delle ipotesi, o semplicemente il prodotto di una furberia da ciarlatano, il più delle volte. Come se raccontare una storia inventata, comporre, dipingere, non contenesse sempre, per definizione, anche un elemento di fortissima illusione, un inganno volontario nei confronti del fruitore dell’opera! A questo destino, naturalmente, non si sottrae nemmeno Stephen King, e dovrà probabilmente passare molto tempo prima che la critica ufficiale se ne occupi seriamente e ne valuti appieno romanzi e racconti. Chi oggi si sognerebbe di sostenere che Charles Dickens sia stato uno scrittore di terz’ordine, in quanto i lettori delle puntate settimanali del Pickwick rappresentavano tutta la gamma sociologica dell’Inghilterra della metà dell’Ottocento, dagli spazzacamini londinesi fino alla regina Vittoria? Nessuno, nemmeno nel paese europeo che ha prodotto meno romanzi, e il cui vanto (vizio) originale resta ancora quello dei venticinque lettori.

          Tutto ciò per dire che quanto seguirà sull’opera di Stephen King è allo stato di appunto, di bozza, in assenza di qualsivoglia materiale critico di riferimento con il quale confrontarsi, e che presuppone, peraltro, nel lettore una conoscenza sufficiente dei libri di King, che sono, fra le altre cose, putroppo molto difficilmente riassumibili.

          Eppure la scommessa contro la cultura europea e i suoi baluardi è che proprio nell’opera di questo scrittore si celi, come un diamante luminoso e ancora non visto, una risposta di tipo nuovo ai problemi posti dall’ Ur-theilung del soggetto con se medesimo.

2. Gente che ce la mette tutta: un gesto

          "Gente che ce la mette tutta": in questa frase è possibile condensare l’oggetto dell’esperienza letteraria di Raymond Carver, padre del minimalismo degli anni Ottanta. Dietro questa frase si nasconde, quasi programmaticamente, la cultura diffusa, lontana dai rotocalchi, ove si escluda talvolta la cronaca nera, della middle America. E a ridosso di questa frase è forte la tentazione di misurare un primo scarto, radicale e decisivo, rispetto alla cultura europea e segnatamente cattolica della garanzia onnivigente. Coloro che ce la "mettono tutta", infatti, aprono lo spazio del rischio assoluto, giocano una partita per la vita o per la morte, il cui esito non è affatto scontato, né in un senso né nell’altro. "Mettercela tutta" significa emergere per un istante dal grigiore della piatta quotidianità, divenire un eroe-non-eroe, come accade agli anonimi personaggi carveriani, assumere la figura del protagonista in una storia scabra, breve, essenziale, dalla cadenza mite. E, nel contempo, acquistare una fisionomia, essere per una volta, magari per il tempo di un flash o di un racconto breve, per davvero individuo, diversificato dall’uniformità totalizzante degli altri-tutti-uguali. Eroe che non tornerà mai più ad essere tale, colui che ce la "mette tutta" tenta di rompere l’ordine di un destino assegnato, di modificare l’essere dati delle cose, e si trasforma nel pioniere originario in un viaggio verso l’Ovest del quale resiste soltanto una debole memoria.

          E’ per questo che, in fondo, l’esito dell’azione è inessenziale. Il gesto istitutivo della letteratura americana è, da sempre, quello della sfida, della lotta, a partire da quello del capitano Achab contro Moby Dick. [2] Senza questo gesto non esiste differenza e quindi non esiste storia: appunto "capitano, mio capitano".

          Nel romanzo che è, indiscutibilmente, a tutt’oggi il capolavoro di Stephen King, It, la storia prende le mosse appunto da un gesto di questo tipo. Bill Denbrough, che da grande diventerà un famoso scrittore e sarà uno dei co-eroi della doppia battaglia contro il mostro, è a letto malato e sta costruendo una barchetta di carta per il fratellino più piccolo, George. Perché la barchetta possa galleggiare nei rigagnoli della strada bagnata è necessario paraffinarla, e Bill ordina al fratello di andare in cantina a prendere la paraffina. George ha un folle terrore nei confronti della cantina e di ciò che in essa si può nascondere per tendergli un agguato

Non gli piaceva [...] aprire la porta per accendere la luce, perché aveva la fissazione [...] che mentre cercava l’interruttore un orribile artiglio gli si sarebbe chiuso delicatamente intorno al polso... per trascinarlo con uno strattone in quella tenebra che puzzava di sporco e bagnato e di oscure verdure putrefatte. [3]

          Geroge tuttavia, ricorrendo a tutto il suo coraggio, entra nella cantina buia e riesce a trovare la paraffina, che porta alla fine al fratello per ceralaccare la barchetta. Poi, con il suo nuovo giocattolo, va a giocare per la strada, facendolo navigare lungo il piccolo rivo di acqua piovana che scorre in discesa, finché la barchetta di carta sparisce in un buco del marciapiede. Quando George si china per tentare di recuperarla incontra "un paio di occhi gialli [...] come quelli che aveva sempre immaginato ma mai veramente visto in cantina". [4] Questi occhi sono gli occhi di It, il mostro che abita le fogne della città, l’immaginaria Derry nel Maine. It uccide George tirandolo per un braccio fino a strapparglielo dal corpo.

          Ciò che colpisce nell poche pagine in cui King descrive la prima scena di questo romanzo, è il contrasto fra il coraggio impiegato da George (che ha sei anni) per scendere nella cantina buia e l’inutilità di questo atto. Si ha l’impressione di assistere a una vera e propria ingiustizia, al di là o nel profondo della storia dell’orrore. King usa anche altrove questo stratagemma, per esempio in Tommyknocker - Le creature del buio, dove David Brown, quattro anni, si presta ad essere la cavia in un gioco di magia compiuto dal fratello maggiore Hilly, consistente nel fare sparire e riapparire, dopo una serie di oggetti inanimati, anche un essere umano in carne e ossa. David vince il suo terrore, ma naturalmente sparisce e finisce in un pianeta lontano - Altair 4 - dove non può respirare ed è completamente al buio. [5] David riuscirà alla fine del romanzo, grazie agli assidui tentativi del nonno, a ritornare sano e salvo sulla terra, a differenza di George Denbrough. Ma, come si diceva, non è tanto l’esito a essere rilevante, quanto piuttosto il fatto che la storia stessa (nel secondo caso una storia secondaria nella storia principale) abbia inizio da questo gesto di rottura di "gente che ce la mette tutta".

          Per George e David questo gesto rappresenta il passaggio dall’indifferenziato all’individuale nel senso che consente loro di entrare a far parte del mondo dei fratelli più grandi, della loro comunità. E’ questo un concetto decisivo, sul quale torneremo più tardi. Questo passaggio dalla prima alla seconda infanzia può essere espresso simbolicamente come passaggio dall’età della dis-articolazione (in senso letterale, di incapacità di articolare, di essere articolati, di usare le mani: George non sa costruire barchette, David non sa di prestidigitazione) all’età dell’articolazione e del racconto originari (appunto Bill Denbrough che racconta delle storie, ma balbetta). E’ appunto l’età in cui il discorso non è più muqos e non è ancora logos, ma una prima analisi articolata del muqos, una mito-logia.

          Il muqos, l’arcaico non-luogo, dal quale tentano di emanciparsi George e David, e che invece finirà per catturarli, è quell’aorgico indifferenziato, quel mondo di tenebre che It e Altair 4 rappresentano. It è neutro e allude perciò alla non identificabilità, ma è, d’altro canto capace di assumere qualunque forma. [6] E’ l’informe caotico e sempre informabile, sostanziale in quanto abita all’interno della rete fognaria cittadina e da essa esala il suo mal-essere. It, in grado di assumere qualsiasi forma ingannevole, si tramuta quasi sempre nel sembiante mostruoso di cui sono permeati gli incubi di chi ha la sfortuna di imbattervisi. It è l’Altro per eccellenza, il lato oscuro di ciascuno, il buio-umido primordiale, il Nulla, il qualcosa-nulla da cui proveniamo e verso cui andiamo, il sosia che un tempo ci era familiare, l’unheimlich, l’antico e l’arcaico. La sua apparizione inibisce lo sviluppo dell’individualità soggettiva, come nel caso di George, oppure, ove essa sia già formata, la distrugge definitivamente.

          La storia della liberazione da It, dell’uscita dall’indifferenziato, è appunto una cosa sola con la mitologia: momento ibrido, eccezionale chiaroscuro, riappropriazione narrativa dell’origine non riducibile tuttavia a rituale fondante, quanto piuttosto foriera di aperture verso altri mondi e altri spazi di esperienza. [7]

          Questo elemento perturbante di forte arcaicità torna è, nelle opere di Stephen King, come già in quelle di Hodgson e Lovecraft, il momento cruciale della vicenda fantastica narrata. Perché? E che cosa significa fare i conti con esso? E ancora, da dove deriva il fascino morboso che tale ritorno all’arcaicità sembra possedere in misura così forte da orientare verso di sé tanta parte di un genere letterario così vasto? Che cosa crea e che cosa distrugge questa fascinazione dell’arcaico e del primigenio, una volta accettata?

3. Il Club dei Perdenti

[...] pensare che il mondo non sia una minaccia equivale a mentire a se stessi, a credere nelle cosiddette certezze che, di fatto, altro non sono se non illusioni da tutti condivise. [8]

          Il dolore che Bill Denbrough deve sopportare dopo la prima funesta apparizione di It nella sua vita non si limita soltanto alla perdita di George. Dopo la morte di quest’ultimo, infatti, i genitori dei due bambini si chiudono in un silenzio depressivo (il silenzio di It?), escludono Bill dall’ambito familiare, lo emarginano, lo isolano. Così facendo lo rendono anche massimamente soggetto, individuo, solitario. Bill inzia a scrivere, a inventare delle storie, ma anche a cercare dei compagni di gioco che trova simili a lui, emarginati e soli, ognuno con la propria storia di isolamento infantile e di fallimento della prospettiva familiare. Ognuno degli amici di quella stagione diversa della vita di Bill ha qualcosa che non funziona, che lo rende altro dai normali, unico ed eccezionale e perciò non omologabile. Nasce così il Club dei Perdenti, questa sorta di protocomunità che avrà per scopo quello di sconfiggere It una prima volta per poi disperdersi e dimenticare e, quasi trent’anni più tardi, di ritrovarsi, ricordare, uccidere definitivamente il mostro e tornare a disperdersi, a dimenticare.

          Il tema della comunità, spesso descritta come impermanente, che combatte e sconfigge il mostro è sicuramente uno dei temi dominanti della narrativa di Stephen King. Più direttamente di quanto accada in It, dove, peraltro, la capacità metamorfica del mostro possiede una certa pregnanza suggestiva, in romanzi come L’ombra dello scorpione o Le creature del buio l’Altro organizza delle contro-comunità per imporre al mondo la propria Legge, per vincere la lotta.

          Nell’ Ombra della scorpione, un’ epidemia provocata da una fuga di radioattività da un laboratorio militare nel quale vengono approntati armamenti di tipo batteriologico, distrugge in poche settimane una porzione assai ampia dell’umanità. Una parte dei sopravvissuti inizia a fare strani sogni: alcuni vedono una vecchia negra in odore di santità (Mother Abigail), che ordina loro di raggiungerla per costituire una comunità; altri sono visitati dal Diavolo in persona - Richard Flagg, il texano in blue jeans e stivali - che li radunerà al fine a Las Vegas. Fra le due comunità così costituite inizierà presto una lotta per la supremazia, che simboleggia la lotta tra il Bene e il Male, il chiaro e lo scuro, il giorno e la notte. Lo statuto delle due comunità è, tuttavia, assai diverso: i seguaci di Mother Abigail fanno certamente riferimento a un’entità trascendente, rappresentata appunto dalla negra stessa, ma l’intervento di quest’ultima nella vicenda è sostanzialmente limitato e l’organizzazione sociale è demandata a un comitato che viene regolarmente eletto da tutti i membri del consorzio sociale, mentre Flagg organizza in prima persona la propria comunità distribuendo cariche e prebende. [9] Il protagonista del romanzo, Larry Underwood [10] guiderà, alla fine, un drappello di eroi contro Flagg e i suoi. Dalla spedizione, che si concluderà con la vittoria del Bene, torneranno solo il semideficiente Tom e Larry stesso, che scoprirà di essere in procinto di diventare padre. Dopo che la sua ragazza avrà partorito, la coppia con il bambino si trasferirà altrove, lasciando la comunità istituita da Mother Abigail, una volta esaurito il compito di sconfiggere il Male.

          Siamo nuovamente di fronte a una forma di comunità impermanente (la comunità della vecchia negra, la comunità del Bene), che, al suo livello più elevato (gli uomini della spedizione), è formata ancora una volta da un Club dei Perdenti, il cui compito è quello di distruggere il mostro.

          In Tommyknocker - Le creature del buio, la storia prende le mosse dal ritrovamento da parte di Bobbi Anderson - scrittrice di western di successo ritiratasi a vivere in campagna - di un’astronave sepolta da millenni nel bosco annesso alla sua proprietà. Questa astronave, facente originariamente parte, in qualità di esploratrice sperimentale, di un progetto alieno di espansione interstellare, inizia presto a emettere delle radiazioni che producono mutazioni genetiche negli abitanti del vicino paese. Siamo nel cuore della middle America, nella provincia "pura". I mutanti hanno il compito di riattivare il programma di invasione degli alieni, che possiedono una forma di incorporea intelligenza collettiva, esportabile nei corpi dei mutanti. La comunità del Male si organizza qui come comunità dei tutti uguali [11] , in contrapposizione solo apparente con la comunità del paesino americano in cui si svolge la vicenda. Bene e Male, realtà e fantasia, al di fuori di una loro dialettica, sono immagini più che speculari, coincidenti, in quanto entrambe alludono a una permanenza che omologa e irrigidisce la vita.

          L’eroe di questo romanzo è Jim Gardener, poeta maledetto e ubriacone, in lotta perenne contro l’ipocrisia dell’America credulona e di quella ufficiale, che, sull’orlo del suicidio dopo una crisi di alcoolismo, percepisce che la sua ragazza - Bobbi Anderson - è in grave pericolo. Il suo rapporto con Bobbi è un rapporto profondo, ma basato sull’impermanenza: i due abitano in stati diversi, si sentono molto al telefono, convivono a volte, ma solo per periodi determinati. [12] Jim riuscirà, alla fine, a distruggere l’astronave portandola nello spazio e facendola esplodere, ma non si ricostituirà alcuna comunità felice e morirà anche Bobbi. [13]

          Le comunità permanenti, non marginali, fatte dai vincenti per i vincenti, sono sempre nell’opera di King luoghi in cui l’esplosività del confllitto si manifesta, prima o poi, con un effetto assolutamente devastante. Al grado zero tali comunità sono rappresentate dalla famiglia [14] , luogo in cui i genitori realizzati non capiscono i sogni e gli incubi dei figli, ma nemmeno hanno accesso alla possibilità di guardare il mondo con occhi diversi da quelli accettati dalle convenzioni vigenti, non hanno cioè lo shine. Torniamo così au coeur du phantastique: lo sguardo del bambino, perso nelle immagini di un libro o di un film dell’orrore, è pieno di quella magia originaria e mitologica, restituire la quale all’adulto, magari soltanto per un attimo, è compito primario dello scrittore. [15] Ma questo sguardo è lo sguardo dell’incertezza, del dubbio, del rischio assoluto, del pericolo, dell’impermanenza e della lotta continua. L’adulto troppo adulto non può più nulla contro il Male, perché non lo vede mai, distratto com’è dal sempre uguale di una realtà definita una volta per tutte; così come nulla può l’in-fans, colui il cui sviluppo è ancora nella fase precedente a quella del gioco di parole e dita e che ancora non ha visto l’immagine del proprio mostro riflessa in uno specchio. [16] Solo l’unione di queste due figure, il balbettante, lo scrittore di sogni, ma anche il vecchio pensionato (Insomnia), può riuscire a combattere veramente la lotta contro il Male. Potrà combattere, in quanto è un po’ anche adulto, ma non potrà istituire alcuna realtà alternativa a quella degli adulti veri, poiché è ancora un po’ troppo bambino, come Jim Gardener in Tommyknocker. Ancora: solo con altri, veri o immaginari che siano, potrà sconfiggere il Male, ma questi altri non occuperanno necessariamente per sempre lo spazio della sua vita. perché egli è ancora capace di perdite, di mancanze, di vuoti. Immerso nella dialettica in stato d’arresto fra reale e irreale, e cioè nel fantastico, l’eroe di King non ricerca fra essi alcuna mediazione (e tanto meno mediazioni durevoli) né trova alcun accomodamento, alcuna Befreidigung con la vita, ma si limita a gioire della ricchezza infinita e attimale offerta dalla singola situazione felice. Non forgia alcun futuro, non possiede certezze definitive ed eterni pro-getti o anticipazioni, tutte cose che peraltro sarebbero inutili perché

il mostro non muore mai. [17]

 


Note:

     [1] All’interno del panorama della letteratura fantastica, la critica più pungente all’Europa e alla sua cultura è quella contenuta nel romanzo di Anne Rice Intervista col vampiro. La cultura europea viene qui dichiarata superata in termini tanto di Kultur quanto di Zivilisation. Lestat e Louis, i due vampiri protagonisti del romanzo, si recano in Europa alla ricerca dell’origine del vampirismo, ma, quando giungono in Transilvania, scoprono che i vampiri locali sono ormai degradati allo stadio di meri animali senzienti. Vanno quindi a Parigi, dove esiste una forte comunità vampirica, ma rimangono preda della noia mortale cui inducono le volute di un vizio sempre uguale, riprodotto in ossessive forme di raffinatezza su scala industriale. Cfr. A. Rice, Intervista col vampiro, tr. Firenze 1993.

     [2] E non solo della letteratura. Questo medesimo gesto pervade, per esempio, la figura di Manuel (Spencer Tracy) nei Capitani coraggiosi di Victor Fleming, l’atto di Jackson Pollock che imbratta, sporca, la tela, la liquidità anti-classica, anti-europea e anti-bianca del jazz, il rock dei raduni pacifisti degli anni Sessanta e il rap dei ragazzi neri dei ghetti nelle metropoli contemporanee.

     [3] S. King, It. tr. Milano 1990, p. 5.

     [4] Ivi, p. 12.

     [5] S. King, Tommyknocker. Le creature del buio, tr. Milano 1993, pp. 255-84.

     [6] Alla fine del romanzo si scoprirà che It è un ragno, femmina come la balena di Melville.

     [7] Infatti gli eroi di It, durante la seconda battaglia, uccidono il mostro recuperando se stessi, e tuttavia non ritualizzano il recupero, ma lo dimenticano per poter continuare a vivere in altre comunità.

     [8] C. Barker, Jacqueline Ess: testamento e verità, tr. in M. Slung (cura), Se mi tocchi ho un brivido, Milano 1994, p. 451.

     [9] Anche in una delle storie che accompagnano la vicenda principale di It, quella del rapporto fra il Club dei Perdenti e i ragazzi cattivi che si raccolgono intorno a Henry Bowers, l’intervento del Male è diretto e gerarchico, mentre la comunità del Bene deve organizzarsi da sé.

     [10] Underwood è la marca di una macchina da scrivere, e Larry è un musicista che, al momento dello scoppio dell’epidemia, ha appena raggiunto un successo desiderato invano per molti anni. E’ un chitarrista rock, altra metafora di prestidigitazione e protoarticolabilità dell’inarticolabile.

     [11] Come per esempio nel più  famoso romanzo di Bret Easton Ellis, American Psycho, tr. Milano 1991, dove, nella New York ipercapitalistica e consumistica dell’alta finanza, in cui tutto è ridotto a pura e vuota forma, gli integratissimi yuppies agenti di borsa continuano a scambiarsi fra di loro, confondendo, ognuno, il tale con il talaltro, in quanto sono tutti assolutamente identici.

     [12] Intorno al concetto di tempo determinato ruota tutto il romanzo di King Insomnia, tr. Milano 1995.

     [13] Non deve trarre in inganno il fatto che l’azione di Jim sia, in fondo, l’azione di un solitario, di una talpa all’interno della comunità del Male. Essa infatti possiede un significato negativo di metaforica denuncia libertaria dell’America ufficiale e puritana. Altrove King ha costruito la comunità del Bene all’interno di un unico solitario soggetto scisso. Cfr. per esempio Il gioco di Gerald, tr. Milano 1993, e Misery, tr. Milano 1991.

     [14] Cfr. per esempio Carrie, tr. Milano 1977, Shining, tr. Milano 1978, Christine, la macchina infernale, tr. Milano 1984 e Cujo, tr. Milano 1992.

     [15] Cfr. supra, cap. II, §1, nota 19.

     [16] In un celebre racconto di H.P. Lovecraft, L’estraneo, tr. in Id., Opere complete, Milano 1983., pp. 273-79, l’abitante di una remota torre allevato ed educato al di fuori di qualunque consorzio sociale, in una serie di stanze prive di specchi, prende coscienza della propria mostruosità recandosi a una festa e scoprendo che il mostro che induce tutti i presenti alla fuga, e che gli si avvicina quando lui gli si avvicina, altri non è che la sua immagine riflessa da uno specchio. L’evocazione della teoria psicoanalitica dello stadio dello specchio come luogo a partire dal quale si produce l’individuazione (e con essa l’estraniamento, l’alienazione delle pulsioni originarie, il cui manifestarsi diviene fonte di disagio e di conflitto) è fin troppo evidente perché valga qui la pena insistervi oltre.

     [17] S. King, Cujo, cit., p. 4.


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