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Pubblicato in data: 11/03/2002

SUL MONOPOLIO

di Stefano Rosato

Per inquadrare dal punto di vista liberale il problema del monopolio è bene, anzitutto, ricordare che, per la teoria alla quale facciamo riferimento, ogni agire è razionale e consapevole. Tale concetto è stato trattato, in modo particolare, da Ludwig von Mises [1] , per il quale non si dà un agire non razionale e inconsapevole nell’uomo. Questa determinazione parte dal presupposto che gli uomini, uguali fra loro per natura, abbiano, ciascuno per sé, facoltà di giudizio tali da renderli perfettamente in grado di utilizzare una logica di tipo causale al fine di operare le proprie scelte. E’ possibile, ovviamente, che i dati in possesso di ciascuno o la sequenza di passaggi che egli adopera rendano erronea la sua decisione, ma ognuno ha la possibilità di procacciarsi più dati o di studiare una sequenza maggiormente cogente, al pari di tutti gli altri. Se sceglie di fidarsi di un’analisi limitata o di usare una sequenza logica semplificata, tale opzione viene sempre adottata in modo consapevole. Anche l’eventualità della sospensione della ragione per operare una scelta ricade nel campo del libero arbitrio, ed è una decisione di natura razionale e consapevole. Questo concetto è un concetto cardine per la teoria della libertà: infatti, se così non fosse, se esistessero dei soggetti non in grado di prendere decisioni dal punto di vista della razionalità, si legittimerebbe, nei loro confronti, un’azione di tutorship da parte di un’élite di illuminati, deputata a proteggerli da loro medesimi o, nel migliore dei casi, a educarli verso la via della ragione. [2]

E’ noto che il monopolio è una situazione economica, politica, sociale, ecc…, nella quale, un soggetto o una ristretta cerchia di soggetti (in quest’ultimo caso si parla più propriamente di oligopolio), detiene di fatto o per legge l’esclusività nel fornire una certa prestazione o servizio, rendendo così tutti gli altri inabili, per legge o nei fatti, sia a fornire essi stessi tale prestazione, sia a scegliere, per essa, altri fornitori. Tuttavia, per legge e di fatto sono due determinazioni del concetto molto diverse fra loro. Per la prima, infatti, è tecnicamente impossibile che il monopolio in questione possa essere eluso e superato in direzione di una molteplicità di fornitori di servizi. Secondo la classica definizione di Max Weber lo Stato detiene, in un dato territorio, il monopolio legittimo dell’uso della forza, e non è possibile, per nessun altro, usare, impunemente, in quello stesso territorio, la forza fisica, al di là delle limitazioni che lo Stato stesso gli pone. Così, per difendersi dalle aggressioni esterne, lo Stato istituisce l’esercito, e per proteggere la comunità dalla violenza interna viene costituito il corpo delle forze di polizia. In alcuni casi lo Stato, per legge, deroga all’esclusività del proprio monopolio, lasciando liberi i sudditi di usare a loro volta la forza fisica, come nel caso, previsto da tutti gli ordinamenti giuridici, della legittima difesa. Tale deroga, peraltro, è sempre limitata nel tempo e nello spazio, si riferisce sempre a un’azione specifica, e chi compie l’azione da essa prevista dovrà comunque renderne conto nelle sedi appropriate. Il monopolio definito dal punto di vista della legge si presenta, dunque, come un che di assoluto e la pena per chi dovesse infrangere la legge che lo istituisce non potrà essere evitata in alcun modo. In più, almeno nello scenario della modernità occidentale, solo lo Stato può istituire forme di monopolio legalmente determinate, in quanto, fra le altre cose, esso possiede anche il monopolio della facoltà di legiferare e cioè di definire l’ambito della legalità medesima. Nella natura stessa dello Stato è implicito il concetto di monopolio, lo Stato è monopolista per natura. Molto diversa si presenta la situazione dei monopoli di fatto, che, di solito, consistono nell’occupazione di tutto lo spazio di uno o più mercati da parte di singoli soggetti agenti in ambito economico, sociale o culturale. Tuttavia, al di là del fatto che vi siano in tal modo delle prestazioni egemonizzate, nessuno di questi operatori monopolistici può costringere con la forza altri soggetti a non operare nel proprio mercato, o a utilizzare i propri servizi. Laddove ciò accadesse, saremmo in presenza di un atto chiaramente illegale che giustificherebbe un intervento riparatore da parte dello Stato. Quindi, mentre il monopolio statale è sempre tanto formale quanto sostanziale, quello relativo al mercato è un monopolio sostanziale, ma non formale. Ciò comporta almeno due importanti conseguenze. La prima è che il mercato stesso può agire in chiave antimonopolistica. Qualora ritenesse eticamente scorretta o dannosa dal punto di vista economico una situazione di monopolio, chiunque si può liberamente attivare in un qualsiasi mercato per porvi rimedio, mettendosi a competere con gli operatori che sono attualmente in posizione di monopolio. Il fatto che ciò si presenti come difficile o che tali tentativi siano più o meno votati allo scacco non toglie nulla al valore logico di questa possibilità, che, nei confronti del monopolio dello Stato, sarebbe semplicemente impossibile se non nella forma rivoluzionaria, che, ovviamente, autorizzerebbe lo Stato al massimo uso della violenza di cui può disporre. La seconda conseguenza è relativa alla natura temporale della forma del monopolio: nello scenario economico si verificano situazioni di monopolio che hanno una vigenza momentanea, per le quali non vi è alcuna garanzia di durata. Il monopolio economico nel libero mercato deve fare i conti con la storia, non possiede una valenza di tipo trascendente, non ha nulla a che fare con l’eterno, mentre il carattere monopolistico dello Stato sfugge alla temporalità per trascenderla in maniera assoluta. Lo Stato si pone così al di fuori del tempo, si rende eterno, in quanto la sua caratteristica di monopolista gli è consustanziale.

Posta questa differenza fondamentale, ora mette conto occuparsi del carattere del monopolio nel libero mercato, ovvero della sua positività o negatività. Per la teoria liberale, il fatto che il mercato sia libero e che in esso vi siano molteplici soggetti che operano in un regime di reciproca concorrenza costituisce il principale fattore di successo di un’economia e una società libere. Proprio perché ciascun operatore cerca esclusivamente il proprio successo personale e il massimo guadagno per sé stesso, si viene a creare una ricca dinamica, all’interno della quale è probabile che il progresso e l’arricchimento sociale nel suo complesso siano più facilmente perseguiti di quanto, invece, non accada all’interno di contesti economico-politici non liberi. Questo paradosso è stato esposto con la massima chiarezza da Adam Smith nel 1776: ogni operatore “intends only his own gain, and he is in this, as in many other cases, led by an invisible hand to promote an end which was no part of his intention”. [3] Questa mano invisibile non dev’essere considerata come una sorta di potere trascendente, di Bene arcano che riesca a trarre il massimo profitto sociale dal massimo egoismo, ma, al contrario, come una sorta di meccanismo intrinseco alla logica di un mercato che, in quanto libero, crea un’infinita rete di relazioni e connessioni che aprono lo spazio alle possibilità di accadimento di un meglio. Questa celebre frase di Adam Smith, però, ci dice qualcosa di più, e proprio sulla natura del monopolio: se ogni operatore, infatti, opera esclusivamente sulla base del proprio gain, al quale presta un ascolto esclusivo (intends only), allora è connaturato al libero mercato non solo il rischio che si creino situazioni di monopolio, ma anche il desiderio di tutti gli operatori di giungere ad una situazione di egemonia assoluta. Chi compete sul mercato, in altre parole, è mosso dall’interesse e dal desiderio di essere l’unico operatore presente, in quanto, se così fosse, le sue possibilità di guadagno sarebbero estese a dismisura. Eppure, secondo la teoria liberale smithiana, ciò in realtà non accade mai, in quanto la mano invisibile, cioè la relazionalità del mercato stesso, interviene sempre ad evitarlo. L’accadere è, così, sempre ulteriore all’intenzione di chi l’ha provocato, non è una parte di essa, non è mai predeterminabile da un singolo soggetto, proprio perché, nel momento stesso in cui un qualunque operatore inizia una qualsiasi azione di carattere economico, immediatamente entra in relazione con una serie di altri operatori, con i quali si dovrà misurare e che stravolgeranno completamente le sue ipotesi di partenza. In questo senso il mercato è la comunità con la quale ciascun soggetto ha una relazione, senza la quale esso non potrebbe esistere, ma che, per un altro verso, non potrebbe esserci senza tutti gli specifici soggetti, da essa separati, nella loro dimensione di esclusività. La comunità liberale, pertanto, non è un che di altro dai soggetti, qualcosa che li trascenda e li determini esteriormente, ma la loro stessa relazione, senza la quale essa, semplicemente, non potrebbe esistere. [4] La relazionalità tra i soggetti che è la comunità liberale è un luogo attraversato dal conflitto, dalla polemica, dalla competizione, un luogo vivo e produttivo, non pacificato, ricco e rischioso.

Dopo aver inquadrato il tema del monopolio da un punto di vista concettuale e astratto, sulla base della teoria smithiana, ci rimane il problema di quale comportamento possa essere adottato qualora, a dispetto dell’operare dell’invisible hand, ci si trovi egualmente al cospetto di situazioni di monopolio. Abbiamo già detto che lo scenario monopolistico, nel libero mercato, è uno scenario transeunte, ma non per questo è meno possibile e i danni che ne possono derivare sono comunque elevati, anche nel breve periodo. E’ possibile, in generale, ipotizzare tre dinamiche regolamentative del potere di monopolio di un operatore economico. Per la prima di esse, consapevole della dipendenza dalla rete relazionale della comunità liberale, è lo stesso monopolista che decide, autonomamente, di rinunciare alla propria situazione di predominio. Questa rinuncia può avvenire mentre l’operatore è ancora in vita, come nel caso del capitalista ottocentesco dell’acciaio Andrew Carnegie, o post mortem, come accadrà, per esempio, nel caso di Bill Gates. Nel primo caso l’operatore smette di svolgere la propria attività monopolistica e riapre al mercato lo spazio dell’agire economico, nel secondo caso egli garantisce una piena operatività sostanziale del mercato dilazionata nel tempo. Questa modalità di regolamentazione del mercato è tipica degli Stati Uniti d’America e, spesso, è accompagnata dal fenomeno della donazione dei propri beni alla comunità, quale ringraziamento per il successo ottenuto, nella consapevolezza che esso è dovuto non soltanto alla propria capacità imprenditoriale, ma anche alla dinamica sociale nella quale è stato possibile, e quindi anche alla comunità in cui si è vissuto. In Europa questa modalità è riguardata, di solito, con sospetto, ma è stato stimato che la totalità delle donazioni negli Stati Uniti libererà, nei prossimi trent’anni, l’astronomica cifra di 20-30mila miliardi di dollari (il che equivale, più o meno, a trenta volte il PIL italiano di un anno), che verranno usati in attività legate al progresso sociale. [5]

La seconda modalità di regolamentazione del mercato è quella costituita da atti di boicottaggio da parte della comunità. Murray Newton Rothbard ha spiegato il funzionamento della common law nei paesi anglosassoni, incentrando il ragionamento sul potere di interdizione posseduto dalla libera comunità. A partire dal Medioevo, per dirimere le liti sorte a proposito di differenti interpretazioni della natura dei contratti sottoscritti o di accordi verbali, e in presenza di tribunali statali inefficienti, gli operatori inglesi del commercio marittimo erano soliti rivolgersi a giudici privati, super partes, le cui sentenze non avevano, dal punto di vista del diritto statuale, alcuna garanzia di essere rispettate, ma la cui non ottemperanza implicava una sorta di ostracismo da parte della corporazione, che, a sua volta, comportava un grave danno economico per l’operatore boicottato. Era, pertanto, interesse preciso di quest’ultimo accettare l’esito delle sentenze dei giudici privati, il cui corpus, nel corso del tempo, ha finito per formare la common law. [6] Questo particolare tipo di diritto vige a prescindere dal fatto che esista uno Stato monopolista dell’uso legittimo della forza in un certo territorio e abilitato a farlo rispettare, se necessario, con la violenza, ma si fonda, in sostanza, sul diritto di discriminazione della comunità. [7] Per esempio, in tempi recenti, un gruppo estremista di attivisti dell’ecologia ha costretto la Tesco, grande catena di supermercati inglese, a non vendere alcun tipo di cibo transgenico, usando la modalità del boicottaggio, della protesta e della discriminazione comunitaria. [8]

Infine, l’ultima modalità di regolamentazione del mercato possibile è quella affidata al diritto dello Stato, in base alla quale vengono fissati dei tetti di share all’interno di singoli mercati e vengono definite le relazioni obbligatorie fra operatori di mercati differenti. Questa forma di legislazione, nota sotto il nome di legislazione anti-trust, è, anzi tutto, assurda da un punto di vista logico, in quanto parte dal presupposto che il pubblico, gli acquirenti, non siano in grado di decidere per sé sul modo nel quale compiere una scelta. E’, infatti, pensabile il caso di un operatore di mercato il cui prodotto o la cui capacità commerciale siano talmente superiori a quelli di tutti gli altri da renderlo l’unico fornitore di beni o servizi che il mercato stesso giudica adeguato a soddisfare i propri bisogni. Se, per esempio, in un paese vi fossero cinque pizzerie, una delle quali producesse una pizza di livello superiore, non si vede per quale ragione il sindaco dovrebbe intervenire per limitarne la quota di mercato, stante il fatto che questo operatore è stato scelto liberamente dal mercato. Il sindaco, in tal caso, costringerebbe una parte della popolazione a mangiare una pizza cattiva o a non mangiarne alcuna, limitando gravemente, nei fatti, la libertà di scelta di una parte cospicua dei singoli. Diverso è il caso in cui un operatore commerciale parta già in una situazione di monopolio, invece di arrivarci grazie alle proprie capacità. Ma, la maggior parte delle volte, questo caso si verifica a fronte di una privatizzazione di servizi che precedentemente venivano erogati in situazione di privilegio monopolistico da parte dello Stato stesso, e non si sarebbe dato, o si sarebbe dato con una frequenza decisamente minore, qualora il mercato specifico fosse stato libero fin dall’inizio. Un altro aspetto della legislazione anti-trust vieta la costituzione di cartelli fra operatori di un determinato settore: per esempio, il sindaco di cui sopra, vieterebbe a due pizzerie dello stesso paese di determinare di comune accordo il prezzo di una pizza, e così facendo infrangerebbe la libertà del singolo pizzaiolo di stabilire il prezzo del proprio prodotto, che è una variabile economica che può essere decisa solo dal mercato e non dallo Stato. In ultimo, la legislazione anti-trust norma i rapporti fra differenti mercati, istituendo divieti di tipo incrociato: chi possiede una televisione via cavo può al massimo possederne due via etere, e così via. Anche in questo caso lo Stato si arroga un diritto che non gli è proprio sulla base della teoria liberale: quello di costringere un privato cittadino a un utilizzo del proprio denaro e dei propri beni differente da quello desiderato. Nel caso del paese di cui sopra, per esempio, il sindaco vieterebbe alle pizzerie la vendita di birra per evitare che egemonizzassero il mercato delle bevande. Così facendo danneggerebbe, oltre che le pizzerie, anche i consumatori che non potrebbero mangiare pizza bevendo birra, ma dovrebbero optare per una scelta di consumo diversificata. Oltre ad essere assurda, la legislazione anti-trust sembra anche essere inefficace, dato che il problema, nei paesi occidentali, è una costante da moltissimi anni e che le situazioni di monopolio di fatto (per esempio quella dell’informatica che vede al proprio centro la Microsoft) continuano tranquillamente ad esistere. Ma l’elemento più forte per essere contrari a questo tipo di legislazione è costituito dall’immenso potere che si delega, con essa, allo Stato: il potere di regolamentare il mercato, di distruggere la potenza delle forze vive e conflittuali che lo attraversano, di pacificarlo. In questo modo l’élite al potere ha tutta la possibilità di stringere accordi e alleanze con gli operatori economici predominanti, per rendere per davvero lo status quo permanente, in una logica di occupazione del potere alla quale la teoria liberale si oppone, fin dalle sue origini, come al proprio peggiore nemico.



[1] Cfr. Ludwig von Mises, Problemi epistemologici dell’economia, tr. Armando, Roma 1988, pp.55-58 e L’azione umana, tr. UTET, Torino 1959, pp. 11-14.

[2] E’ questo il vero presupposto della teoria liberal-socialista. Scrive Guido Calogero nel Manifesto del liberalsocialismo nel 1940: “l'individuo […] dev'essere educato tanto al personale gusto del suo lavoro, quanto al senso della divisione equa tra gl'individui di tutto ciò che derivi da questo comune lavoro”, con un accento che non può evitare di preoccupare tutti gli amanti della libertà: educato da chi? E in che modo? E se io non volessi dividere con gli altri il frutto del mio lavoro che cosa succederebbe? E quanta parte ne devo dividere, dove comincia e dove finisce il bene comune?

[3] Adam Smith, An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, Book four, chapter II.

[4] La Chiesa, per Guglielmo da Ochkam, Breviloquium de principatu tyrannico (1342), altro non era che moltitudo fidelium.

[5] Cfr. Michael Novak, L’impresa come vocazione, tr. Rubbettino, Soveria Mannelli 2000, p. 264.

[6] Cfr. Murray Newton Rothbard, Per una nuova libertà, tr. Liberilibri, Macerata 1996, pp. 307-323.

[7] Mutuiamo questo concetto da Hannah Arendt, Reflections on Little Rock, in «Dissent», 1, 6, 1959, pp. 45-56.

[8] Cfr. Naomi Klein, No logo, tr. Baldini & Castoldi, Milano 2001, p. 303.

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