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Pubblicato in data: 25/03/2002

MONOPOLIO E POTERE

di Stefano Rosato

Dal punto di vista storico la questione del monopolio nella modernità può essere inquadrata in almeno tre differenti fasi. Nella prima, che inizia con lo sviluppo mercantile e finanziario della modernità e termina intorno alla metà dell’Ottocento, il monopolio usufruisce di una sostanziale protezione da parte dello Stato, rispetto alle cui mire politiche ed egemoniche interne ed esterne appare consustanziale. Le grandi compagnie commerciali, come la Compagnia delle Indie Occidentali, sono, di fatto, delle emanazioni delle potenze coloniali e il loro ruolo è anche politico, oltre che economico. Lo stesso si può dire per quanto riguarda i banchieri internazionali, Rothschild in testa a tutti, che svolgono, nei confronti dei sovrani europei, il ruolo fondamentale di finanziatori di imprese militari. [1] Nella prima metà dell’Ottocento il peso di questi banchieri cresce progressivamente, fino a consentire loro, tramite l’assorbimento di società finanziarie di minore importanza, la conquista di un netto predominio sui mercati finanziari che verrà meno soltanto con la creazione e il successivo rafforzamento delle banche centrali, nell’epoca dell’imperialismo maturo. Tuttavia, finché dura, ovvero finché è esattamente sovrapponibile agli interessi dello Stato, questa situazione di monopolio non viene minimamente messa in discussione e non si parla di una legislazione antitrust. Nella seconda fase, che si può schematicamente situare fra la seconda metà dell’Ottocento e gli anni Settanta del Novecento, lo sviluppo dell’industria capitalistica muta radicalmente i rapporti di forza fra le diverse classi sociali e consente, di fatto, la nascita e l’affermazione di un mercato dei consumi e del benessere, che si consolida a ridosso di una base di massa in tutti i paesi occidentali. Da un lato questo sviluppo si lega, in Europa, alla forma specifica dell’imperialismo e del colonialismo di seconda generazione, dall’altro, soprattutto negli Stati Uniti d’America, dove il processo si svolge in maniera molto diversa e più democratica, si esplicita e rappresenta nella figura del grande capitano d’industria del tardo Ottocento e del primo Novecento. Per l’Europa lo sbocco coloniale e imperialista assorbe la virulenza del conflitto di classe riorientandolo in senso razziale e di dominio del Terzo Mondo, all’interno di una dinamica nella quale le responsabilità delle forze socialdemocratiche sono di grado quasi uguale a quelle degli Stati. Negli Stati Uniti d’America, invece, si assiste a uno scontro fra lo Stato federale e le grandi corporations, che culmina con la legislazione antitrust sostenuta dallo Sherman Act nel 1890 [2] (e rafforzata dal Federal Trade Commission Act e dal Clayton Act nel 1914). E’ stato sostenuto che lo scopo ultimo dello Sherman Act fosse quello di rendere più efficiente il mercato tramite le garanzie alla concorrenzialità implicite nelle norme antimonopolistiche; [3] tuttavia, un esperto di indiscussa autorità quale Giuliano Amato ritiene che “il senatore Sherman e i suoi colleghi furono fortemente e quasi esclusivamente motivati dallo scopo di porre un limite al potere dei trust, e lo Sherman Act non sarebbe stato chiamato «Antitrust Act» se non fosse stato antitrust”. [4] Il senso della legislazione antitrust in quest’epoca non ha dunque uno scopo regolamentativo legato all’efficienza del mercato, ma è sostanzialmente una questione di potere. Com’è noto, negli Stati Uniti le autorità antitrust dipendono direttamente dal governo, che ne determina la politica, con il controllo della magistratura. Fra il 1890 e il 1914, anno di istituzione della Federal Trade Commission spettava al Congresso, unitamente alle Corti di giustizia, deliberare su questioni di monopolio, ma, a partire da quest’ultima data, “la politica antitrust, […], è parte essenziale della politica economica del Governo federale”. [5] Ciò è dovuto al fatto che lo sviluppo dell’industria capitalistica creatrice delle grandi infrastrutture alla fine dell’Ottocento per un verso ha comportato la crisi dei partiti politici di forma para-europea [6] , e per l’altro ha determinato l’emersione del potere centrale come potere forte (relativamente alle problematiche delle quali è investito). In questo senso la legislazione antitrust ha come obiettivo principale quello di trasferire potere a un governo centrale, che, alla fine dell’Ottocento, è una novità negli Stati Uniti, contro le pretese del libero mercato sostenuto da capitalisti aggressivi come Morgan, Carnegie, Rockfeller, fino ad arrivare, qualche anno dopo, a Henry Ford. In realtà lo sviluppo della grande industria capitalistica è stato un grande fattore di democratizzazione del costume complessivo degli Stati Uniti, prima, e dell’Europa, poi, contribuendo in maniera rilevante alla costituzione del modello di sviluppo occidentale, in ambito economico, e del modello di formazione del consenso, in ambito politico e sindacale. Senza quello sviluppo e le sue geniali creazioni infrastrutturali, le sue straordinarie ridefinizioni dei processi di produzione e la sua capacità di costruire forme e stili di vita nuovi, non sarebbe mai nato un mercato del benessere e dei consumi di massa, con tutte le conseguenze delle quali è stato portatore. Lo Stato ha dovuto combattere una battaglia contro questi pionieri del libero mercato di massa per il controllo del potere reale e dei processi della sua formazione, battaglia che, da un lato, è stata vittoriosa, ma, dall’altro, ha comunque costretto il potere politico a scendere a compromessi con quello economico. Il principale effetto di questi compromessi è la figura, tipicamente americana, della lobby, ovvero di un insieme più o meno istituzionalizzato di soggetti interessati che esercitano, legalmente, pressioni sul potere politico in difesa delle proprie prerogative. Lo Stato, sussumendo sotto il suo controllo il momento economico, lo ha così politicizzato, dando luogo a una commistione di enti deputati al controllo sociale: la legislazione antitrust non è nata per combattere il monopolio, ma per definirlo entro la cornice di rapporti di potere tipica della società disciplinare. E’ stato infatti notato che gli effetti dell’applicazione dello Sherman Act ai casi di monopolio guadagnato sul campo, quindi senza acquisizioni o fusioni societarie, sono non soltanto assai discutibili, ma decisamente carenti in quanto, di norma, l’intervento della Federal Trade Commission avviene senza le competenze necessarie relative agli specifici mercati di riferimento. Così, per esempio, la disintegrazione verticale della Paramount, avvenuta nel 1948, non ha avuto veri effetti sul sistema del video-intrattenimento in quanto, a partire dal 1950 circa, è esploso, negli Stati Uniti, il mercato della televisione; l’azione antitrust del governo americano contro la United Shoe Machinery (1953) non ha prodotto apprezzabili variazioni nella struttura di pricing nel mercato delle calzature, risultato ottenuto invece, in seguito, a causa dell’impatto della concorrenza estera con produzione a basso costo; la limitazione imposta ai networks televisivi negli anni ’80 del secolo XX, con il divieto di produrre i programmi distribuiti, non ha portato alcun beneficio sulla struttura competitiva. [7] L’economia viene, così, sempre e comunque costretta a operare una complessa serie di relazioni politiche con il potere dello Stato, partecipando in modo crescente alla vita istituzionale, tramite le lobbies, i finanziamenti delle campagne elettorali a tutti i livelli della gerarchia spaziale, le pressioni su singoli rappresentanti della collettività. Il potenziale eversivo e liberatorio implicito nello sviluppo dell’economia del capitalismo del laissez-faire viene totalmente azzerato in direzione del suo disciplinamento e della sua sussunzione nei meccanismi di riconoscimento e riproduzione dell’establishment governativo. In Europa si assiste, invece, a un processo storico che prevede molti attori differenti, ma che sfocia, in sostanza, nei meccanismi della corporazione, della concertazione [8] e dell’istituzionalizzazione delle parti sociali e negli accordi che danno vita al welfare state e a tutti i problemi di competitività (e, come oggi è sempre più evidente, anche di equità sociale) presupposti da quest’ultimo. In questo scenario di stampo corporativo, avente come obiettivo ultimo la pace sociale e la difesa dei privilegi acquisiti (dapprima da parte delle sole classi dominanti, poi anche della componente tutelata dei lavoratori), hanno giocato un ruolo chiave le politiche antitrust della sinistra, che hanno consentito il dispiegarsi dei meccanismi di mediazione fra sindacato e grande industria, rafforzando il ruolo dello Stato come regolatore dei conflitti. [9] Quindi anche in Europa, seppure in modo differente, vi è stato un utilizzo tutto politico e non economico della legislazione antitrust.

Nella terza fase, che incomincia con gli anni Settanta, la questione è molto più complessa. Anzitutto il monopolio non è, nel contesto dell’economia attuale, esclusivamente il monopolio di un prodotto, ma, in svariati settori produttivi, esso si configura più propriamente come monopolio di un sistema di offerta e di servizio teso a soddisfare dei bisogni. E’ necessario porre questa premessa, in quanto la forza lavoro che viene utilizzata per produrre beni materiali oggi è decisamente inferiore a quella usata per produrre servizi. La composizione della forza lavoro per macro-settore di occupazione mostra, per quanto riguarda, per esempio, l’Italia, un deciso spostamento, negli ultimi anni, verso le attività di natura immateriale: se nel 1971 i lavoratori dell’industria e dell’agricoltura costituivano il 59.6% della forza lavoro occupata e i lavoratori dei servizi il 40.4%, nel 2000 questa percentuale è calata al 37.4% per i primi (nel 1981 era il 50.5%, nel 1991 il 40.4%), e salita al 62.6% per i secondi [10] . In questo scenario, ciò che viene prodotto è sempre meno prodotto e sempre più servizio. In linea generale questo spostamento di forza lavoro testimonia di condizioni produttive complessive decisamente mutate, nelle quali il valore del capitale è sempre più costituito da assets intangibili [11] e sempre meno legato al processo dell’accumulazione originaria. Il caso della Microsoft è emblematico: nata dal nulla, senza capitale originario, essa si è espansa in pochissimi anni fino a dominare il settore dei sistemi operativi e degli applicativi software, nonostante, in quel mercato specifico, fossero già presenti dei colossi (come IBM e Apple), il cui ruolo si configurava, allora, come monopolista od oligopolista. Certo, è vero che la scalata di Microsoft al mercato del software utilizzabile dal consumatore di massa si è svolta in una fase prodromica dello stesso, ma è altrettanto vero che esperimenti come Linux vanno guardati con grande interesse e che non è affatto chiaro che il predominio dell’azienda di Seattle abbia vere garanzie di continuità in un arco temporale di medio termine. D’altronde il concetto stesso di medio termine è messo oggi in discussione da quell’accelerazione del tempo che è uno degli elementi fondamentali del post-moderno. [12] Se, quindi, la legislazione antitrust costituì un’ottima occasione per arginare il potere delle nuove élites produttive, restituendo o fornendo al politico uno spazio di potere in quanto governo dell’economia, nel passaggio dalla società materiale a quella immateriale tale intervento si configura, senza alcuna mediazione, come dominio del potere politico su tutto l’esistente. Se oggi, infatti, non si vendono più prodotti, ma marchi [13] , allora il concetto stesso di trust rischia di venire meno, perché i prodotti non di marca, che sono sempre e comunque a disposizione dei consumatori, in quanto si riferiscono a uno specifico target di mercato, non si differenziano da quelli griffati per particolari qualità proprie alla loro natura, ma perché ad essi manca quella specie di aura che i secondi possiedono. In questo senso il potere del marchio è, nel contempo, unificante e differenziante, crea categorie sociologiche precise che ambiscono alla diversità e alla specificità verso l’esterno e all’omogeneità al loro interno: in altre parole, nel mondo del logo, perché un logo abbia senso è necessario che esistano anche altri loghi o non loghi. Inoltre, il margine unitario di contribuzione dei prodotti dei grandi marchi è talmente elevato che il problema economico di porsi in concorrenza rispetto a loro non è un problema di economie di scala, ma di capacità, totalmente immateriale, di generazione del brand. Tale capacità va intesa, anzitutto, in senso culturale e il costo della sua applicazione non è nemmeno lontanamente paragonabile a quello che avrebbe se fossimo in presenza di una produzione industriale di stampo fordista, poiché, di fatto, i suoi veri costi sono solo quelli di marketing e pubblicità. Certamente tutto ciò non è vero in senso assoluto, in quanto esistono molti settori, alcuni dei quali strategici, ove l’aspetto materiale della produzione svolge un ruolo centrale: le fonti di energia e le grandi concentrazioni di infrastrutture legate alla comunicazione occupano uno spazio produttivo che ha forti elementi di fisicità e rendono possibile larga parte della produzione di natura immateriale. [14] Tuttavia, per alcuni versi, anche questi spazi fisici devono fare i conti con l’immaterialità dominante e col potere del brand e rivelarsi capaci di costruire aggregati di natura comunitaria; devono, in altre parole, rappresentare altrettanti stili di vita e culture di tipo generale proprio perché, alla fine, in un modo o nell’altro dovranno rendere conto del loro operato a consumatori che sono sempre più attenti ai fattori immateriali (in questo senso anche etici) della produzione. In un contesto di questa natura, la legislazione antitrust mostra la propria vera essenza di dominio da parte di un potere (lo Stato, che peraltro è una figura sempre più debole e sempre meno capace di porsi come istanza centrale di riferimento per la mediazione dei conflitti sociali e la regolamentazione della vita, economica e non) [15] contro il libero sviluppo delle idee di singoli soggetti o gruppi di soggetti, che decidono di competere sul terreno economico, sociale, politico e culturale. Questa azione e il suo attore si configurano come elementi di una battaglia di retroguardia da parte di alcune élites di dominio, che, fra l’altro, un po’ ovunque, si rivelano come pre-tecnologiche e del tutto distanti dalla cultura dell’immaterialità. Diventa, qui, centrale il ruolo di Internet come luogo virtuale della disposizione di un sapere che è anche, ma non solo economico, e che sembra possedere notevoli capacità di autoregolamentazione. Lo sviluppo dell’epoca imperiale, pur in mezzo a molteplici contraddizioni, evidenzia, in questo momento, una fortissima tensione all’apertura relazionale consentita dalla rete, che genera una serie potenzialmente vastissima di connessioni reciproche le quali, a loro volta, assomigliano molto di più alla forma generativa dei rapporti comunitari e fra individui che non a quella, dispensatrice di ordine e controllo, che pertiene alla sfera del potere politico statale e alle sue intromissioni nella vitalità di quella potenza diffusa che esso vorrebbe sempre e comunque amministrare. In questo senso la rete è il mercato originario, purché nel mercato non si veda esclusivamente la dimensione economica mediata dallo scambio monetario, ma se ne dia una lettura prevalentemente relazionale; ma è anche, e soprattutto, un mercato in continuo movimento nel quale l’istanza che evita la formazione di monopoli (che sono comunque dei limiti al mercato stesso) è, da un lato, immanente alla sua struttura logica strettamente legata alla velocità del cambiamento, e, dall’altro, affidata a una comunità diffusa e non permanente che presenta caratteristiche di totale diversità rispetto a quelle statali.



[1] Per un’analisi della vicenda e del ruolo dei Rothschild nell’economia pre-coloniale si veda Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, tr. Edizioni di Comunità, Milano, 1996, pp. 37-41.

[2] Peraltro, lo Sherman Act non prevedeva che fosse punibile l’acquisizione di una quota di mercato, al limite anche totale, ottenuta sulla base delle proprie capacità imprenditoriali (su questo concetto si basa, per esempio, la difesa di Bill Gates, accusato di avere infranto lo Sherman Act). Cfr. Stephen Martin, Economia industriale, tr. Il Mulino, Bologna 1997, p. 72. Segnalo per inciso che, casualmente, il senatore Sherman era uno dei leaders del movimento protezionistico dell’epoca!

[3] Robert Bork, Antitrust paradox: a policy at war with itself, Free press, Basic books, New York 1978.

[4] Giuliano Amato, Non basta regolare il mercato bisogna “aprirlo” a chiunque, «Telèma», Inverno 1997-98, http://www.fub.it/telema/TELEMA11/Amato11.html. In senso generale, la posizione di Giuliano Amato è critica anche verso i tentativi di dichiarare immorale il mercato, edificando per ciò regimi illiberali, propri della storia della sinistra. Cfr., al riguardo, Giuliano Amato, Il gusto della libertà. L'Italia e l'Antitrust, Laterza, Roma-Bari 1998 e Il potere e l'antitrust. Il dilemma della democrazia liberale nella storia del mercato, Il Mulino, Bologna 1998.

[5] Guido Rossi, Governo, Magistratura e Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato: tre diverse filosofie dell'Antitrust, intervento del 10 Ottobre 2000 al convegno Concorrenza e Autorità Antitrust - Un bilancio a dieci anni dalla legge organizzato a Roma dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato. Il testo è reperibile on-line all’indirizzo http://www.agcm.it.

[6] Sulle modificazioni intervenute nella struttura del partito statunitense a cavallo fra Ottocento e Novecento, si veda Arnaldo Testi, Trionfo e declino dei partiti politici negli Stati Uniti, 1860-1930, Otto editore, Torino 2000.

[7] Cfr. Robert W. Crandall, The Failure of Structural Remedies in Sherman Act Monopolization Cases, in «Working Paper 01-05» March 2001, AEI-Brookings Joint Center for Regulatory Studies. Il saggio di Crandall è reperibile on-line all’indirizzo http://www.aei.brookings.org.

[8] Per un’acuta analisi critica dei limiti dell’utilizzo dello strumento della concertazione nel panorama politico italiano contemporaneo, cfr. Nicola Rossi, Riformisti per forza. La sinistra italiana fra 1996 e 2006, Il Mulino, Bologna 2002, in particolare alle pp. 78-79.

[9] Cfr. Raymond Aron, L’oppio degli intellettuali, tr. Ideazione Editrice, Roma 1998, dove si constata che, in Europa, la legislazione antitrust, voluta fortemente dalla sinistra, si è tradotta in un maggior livello di regolamentazione dell’economia da parte dello Stato.

[10] Cfr. ISTAT, L’Italia in cifre, edizione on-line, p. 29. Reperibile sul sito dell’Istat all’indirizzo http://www.istat.it.

[11] Le considerazioni più rilevanti riguardanti gli intangibles e il tentativo di effettuarne una misurazione sono quelli di contenute in Baruch Lev, Intangibles-Management, Measurement and Reporting, Brookings Institution Press, Washington 2001 e Id., Intangibles, Brookings Institution Press, Washington 2000. Cfr. anche Alessandro Cravera, Marco Maglione e Riccardo Ruggeri, La valutazione del capitale intellettuale. Creare valore attraverso la misurazione e la gestione degli asset intangibili, Il Sole 24 Ore, Milano 2001.

[12] Su questo concetto, cfr. Anthony Giddens, Il mondo che cambia, tr. Il Mulino, Bologna 2000.

[13] Naomi Klein, No logo, tr. Baldini & Castoldi, Milano 2001, pp. 25-26.

[14] “[…] per fornire servizi di telecomunicazione che neutralizzano la distanza, le imprese devono avere accesso a una realtà assolutamente materiale, giacché la tecnologia principale è ancora quella delle fibre ottiche, che sono tutt’altro che immateriali.” Saskia Sassen, Globalizzati e scontenti. Il destino delle minoranze nel nuovo ordine mondiale, tr. Il Saggiatore, Milano 2002, p. 191. L’eccessiva enfatizzazione di quella che potrebbe essere una variabile soltanto accessoria dei meccanismi della globalizzazione, e cioè la localizzazione dei centri strategici delle multinazionali, conduce Sassen al potenziale recupero di un ruolo dello Stato come regolatore dell’economia (e quindi non soltanto come garante supremo della vigenza e del rispetto dei contratti), che corre il rischio di sottovalutare il carattere di irreversibilità del processo di globalizzazione non tematizzando a sufficienza, al interno di tale processo, il problema del potere. Cfr. Ibid., pp. 202-203.

[15] Cfr. Michael Hardt/Antonio Negri, Impero, tr. Rizzoli, Milano 2002.

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