BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 26/01/2009

 

ESISTE UNA DIMENSIONE DEL PIACERE PER CHI LAVORA IN AZIENDA?

di Maria Cecilia Santarsiero (1)

Esiste una dimensione del “piacere” per chi lavora in azienda? E ancor prima: ha diritto di esistere in azienda la dimensione del piacere?  Sotto quali forme essa si esprime? In quella del potere? dei risultati, dell’essere uniti da un unico obiettivo? Dal   ricevere riconoscimento o avere uno status sociale o un’ identità professionale  che contribuisce a rinforzare il nostro diritto di esistere?
Questi interrogativi nascono dalla considerazione che  sempre più negli ultimi anni la complessità dei problemi affrontati ha offuscato la dimensione del piacere di lavorare e di farlo insieme, del piacere di sperimentarsi, di apprendere per solo  piacere di apprendere cose nuove, di  riconoscere il proprio valore.
La soddisfazione per un obiettivo raggiunto è immediatamente sopraffatta dalla necessità di dare seguito e voce ad altri impegni, a nuovi progetti e nuove sfide. Lo stress di un “obiettivo che lava l’altro” sembra essere diventata la condizione prevalente, anche di coloro che sono coinvolti in attività più operative.
E così mentre tutto ciò per cui lavoriamo, ci impegniamo, lottiamo dovrebbe indurci ad un maggiore benessere e piacere  richiede una negazione del piacere.
L’assunto del lavoro come gioco, dell’importanza di divertirsi  è stata  soffocata dall’imprevedibilità dei cambiamenti, dall’emergere e dall’affermarsi della dimensione globale che ci fa percepire tutto come fuori controllo.
Sempre meno le organizzazioni assolvono la funzione di proteggere l’individuo dalle minacce presenti nell’ambiente esterno, funzione per la quale di buon grado si accettava il ruolo di “dipendente” anche per un’intera vita. L’azienda è essa stessa sottoposta ad una continua imprevedibilità dei mercati che mette a dura prova la possibilità di garantire al suo interno quella quota di serenità necessaria ad attribuire dignità ludica al lavoro, la forma di gioco elettiva degli adulti.
Per la maggior parte degli esseri umani, il piacere è una parola che evoca sentimenti contrastanti. Da una parte è associato nelle nostre menti con l’idea di buono o di bene; dall’altra il piacere è vissuto come la porta che apre a vie pericolose. Il  piacere può distrarre, defocalizzare, ridurre la nostra efficienza, disperdere energie e impegno, ci può far “uscire di strada”, rendere “molli”.
Quanti, rientrando dalle vacanze, assaporato il piacere del vuoto da lavoro,  hanno vissuto lo sforzo di dover ricordare o mettere a fuoco quanto lasciato in sospeso, ripristinare nelle loro menti i “file recenti”, rimettersi in riga con una quotidianità in debito continuo di tempo, reimmergersi  nella palude dei conflitti o delle relazioni bloccate dall’invidia, la gelosia, la paura, la sopraffazione e il vittimismo?
Quanti dopo la fuga nella vacanza rientrando al lavoro hanno rimesso in moto il desiderio per un’altra vita, altri progetti sperando di poter fare appello a quell’energia nuova generata dalla vacanza per dire “basta!” e dare vita ad un cambiamento perseguito da tempo?.
La vacanza così vissuta assume il sapore di un’avventura, una pausa o una fuga dalla propria realtà, a volte, dalla propria vita di sempre.
Ma il piacere, come afferma Alexander Lowen, “richiede un serio atteggiamento nei confronti della vita; potrebbe essere visto come il compito della vita sia che si giochi da bambino che si lavori da adulto. Una  persona che  prova piacere nella vita non ha desideri di fuga”.


1 - c.santarsiero@studiosantarsiero.it

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