BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 02/02/2009

 

I "TALENTI" IN AZIENDA: CASTA DEGLI INTOCCABILI O RISORSE DA SVILUPPARE?

di Maria Cecilia Santarsiero (1)

La necessità per le organizzazioni di garantirsi la sopravvivenza nel lungo termine attraverso l’inserimento, al loro interno, di persone dotate di potenzialità e talento è sempre stato un tema critico e centrale allo stesso tempo.
Ancor più diventa un elemento ineludibile e di differenziazione in un contesto socioeconomico che vede da una parte clienti/consumatori sempre più evoluti  e, dall’altra, l’innalzarsi della soglia di imprevedibilità e competività dei mercati di riferimento.
Non è un caso che, in quest’ultimo periodo, nelle collane di cultura manageriale si moltiplicano i contributi che cercano di definire cos’è il talento, di come trovarlo, di come riuscire a tenerlo dentro l’organizzazione, di quale sia, allo scopo di svilupparlo, la formazione migliore da intraprendere .
Nella letteratura manageriale si riscopre e si studia la vita dei grandi uomini (Leonardo, Alessandro Magno, Gesù, etc.) per riuscire a carpire la magia del loro segreto, con l’intento di isolare alcune caratteristiche loro comuni e poterne così accertare la presenza - seppur in nuce, seppur abbozzate e primitive - nei giovani che si affacciano ad una carriera manageriale. (2)

E’ indubbio che le aziende devono poter contare, per potersi progettare con sufficiente agio in una dimensione futura, su un gruppo di persone connotate da solide competenze tecniche, da una cultura di base ampia e da curiosità e intuito creativo; da risorse umane, insomma, in grado di saper autonomamente trovare la strada per sviluppare le proprie potenzialità, mentalmente aperte e flessibili, capaci di saper immaginare giorno dopo giorno un futuro realistico, di saper accettare le sfide provenienti sia dall’ambiente esterno che interno, competenti nella costruzione delle relazioni interpersonali.
Ho provato ad identificare alcune delle caratteristiche che rappresentano un presupposto per poter essere identificati  come persone di talento. Sicuramente  ne ho tralasciate altre, perché il talento può essere definito solamente in termini contestuali; l’ambiente è un fattore indispensabile affinché le potenzialità delle persone riescano a trovare una loro forma e ad esprimersi attraverso azioni concrete; c’è bisogno di un terreno di coltura, di attenzione, di stimolo e di interazione con la complessità.

L’impressione che se ne ha è, però, quella di essere di fronte anche ad una nuova forma di culto manageriale, ad una nuova moda che, se sposata acriticamente, rischia di creare all’interno delle organizzazioni effetti poco piacevoli e controproducenti.
Il rischio per coloro che vengono presentati in azienda sotto quest’aura è quello di rimanere imprigionati nella necessità di corrispondere, sempre e comunque, ad attese che reclamano comportamenti di “super dotati”. In questa condizione non si può sbagliare, non si possono accettare con umiltà e serenità i propri limiti, poiché ciò metterebbe in discussione il motivo esistenziale della propria presenza all’interno dell’azienda. Mentre  l’innovatore, il creativo deve avere la possibilità di desiderare e far sì che la sua mente e il suo pensiero siano liberi, deve avere la possibilità di giocare e di sbagliare sapendo che questo non sarà sanzionato. Solo con questa libertà emotiva si possono trovare strade nuove in territori ignoti.    

L’aspetto assai paradossale consiste nel sentirsi costretti ad amputare la dimensione principe che fa di un talento un talento,  di quell’aspirazione così ben descritta  e ambita per sé dal sociologo Gilberto Freyre: “ Se dipendesse da me sarei sempre verde, incompiuto, sperimentale”.          
La curiosità, la sperimentazione, la permanente disponibilità ad accogliere dentro di sé  un ragionevole dubbio, condizione  così ben descritta da Sidney Lumet  nel film “La parola  ai giurati” , sono elementi e atteggiamenti indispensabili non tanto nel possesso del talento, quanto della capacità di saperlo esprimere, sviluppare, mettere a frutto, che poi è il senso originario introdotto dalla parabola evangelica che dice: ' avverrà come d'uomo il quale sul punto di mettersi in viaggio chiamò i suoi servi, e consegnò loro i suoi beni. Ad uno diede cinque talenti, a un altro due, a un terzo uno, a ciascuno secondo la sua capacità, e poi partì'. Che cosa fanno i servi? I primi due impiegano bene il denaro e lo fanno fruttare, mentre il terzo, o per paura o per incapacità, non lo investe saggiamente. Il padrone al ritorno loda e premia i due servitori, ma rimprovera il terzo e lo punisce togliendogli il talento stesso!
Il senso della parabola è chiaro: i talenti sono i doni che si moltiplicheranno qualora si saprà farne buon uso, ma rimarranno sterili in caso contrario.
La parola “talento” acquista da questo momento in poi il significato metaforico di "ingegno",  di "sapere" che conserva ancora nell'italiano moderno.

Inseriti e presentati come nuovi talenti, come i manager del futuro, come risorse elette da destinare a percorsi privilegiati, immediatamente percepiti come diversi e migliori, questi nuovi attori organizzativi si troveranno di fronte alla necessità di tenere alto il muro che li separa e li differenzia dagli “altri”, si troveranno invischiati  in una tela di ragno dalla quale vola lontano quella capacità che Hirschmann (1995) chiama “autosovversione”, e che individua come antidoto al rimanere inchiodati alla propria posizione la scelta  del  rischio di apparire incoerenti e frammentati.
Per essere fedeli a se stessi e all’immagine con cui si è stati presentati ai capi, ai colleghi,  si incorre nel rischio più minacciante il proprio stesso talento, il rischio della certezza.
“La mente guidata dalla certezza non ci fornisce sempre (o non può fornirci sempre) mezzi adeguati a evitare deviazioni, inganni, illusioni, miraggi che stravolgono la conoscenza o la semplice percezione della realtà… che osserviamo in genere deformata in rapporto alla nostra posizione in essa; non ci aiuta a scorgere i pregiudizi, fantasmi ambigui che si insinuano nel nostro pensiero, fornendoci l’assicurazione di trovarci nei territori del vero e del giusto, anche quando ci troviamo in quelli assai poco attendibili dell’illusione.” (3)
 
Ho detto sin dall’inizio che la presenza nelle organizzazioni di potenzialità e risorse umane forti, di competenze pregiate, è fattore significativo per la sopravvivenza dell’organizzazione stessa.
Negli aspetti critici descritti non c’è quindi l’intenzione di negare tale realtà, ma semplicemente di richiamare l’attenzione di chi nelle imprese si troverà a gestire l’inserimento di “talenti”, sul pericolo di trasformarli in una “casta degli intoccabili”.
E’ un invito  a salvaguardare in loro il piacere dell’apprendimento, a lenire il timore che mescolarsi nel tessuto sociale e relazionale dell’organizzazione significhi intaccare la loro “alterità”,  a rafforzare la loro identità  attraverso lo spessore e la complessità del rapporto con gli “altri”,  a sorvegliare la tendenza a diventare dei “miti di se stessi” e a stimolare l’accettazione umile della propria incompiutezza, qualità comune a tutti i professionisti seri e responsabili; è’ un invito a non spezzare in loro il ramo della curiosità, ma a saper preservare loro la possibilità di poter descrivere una propria esperienza di conoscenza, di formazione o di incontro con gli altri, così come il pittore Alighiero Boetti propone in una  brochure di una sua mostra : “di ricerca, in un atteggiamento di attenzione e curiosità che permette di vedere moltissime cose e di divertirsi molto con il mondo, dietro le cui apparenze stanno delle incredibili magie…”.


1 - c.santarsiero@studiosantarsiero.it

2 - In particolare, uno studio che viene definito rivoluzionario, La guerra dei talenti, redatto da consulenti della  McKinsey (Ed Michaels, Helen Handfield-Jones e Beth Axelros) rappresenta il risultato di cinque anni di ricerche, tra cui 13.000 interviste a dirigenti e case studies riguardanti 27 imprese leader.
            In questo libro gli autori suggeriscono un approccio radicalmente nuovo alla gestione dei talenti, spiegando  come sia importante per il successo di un’azienda rafforzare il pool di talenti, investire nei manager più promettenti, sviluppare quelli che hanno un potenziale elevato e prestazioni migliorabili e, infine, agire con decisione su quelli che danno prestazioni appena soddisfacenti. Secondo questo studio tutti  i componenti del vertice aziendale devono approdare alla convinzione che il vantaggio competitivo deriva dal disporre dei talenti migliori a tutti i livelli.
            Su questa scia altri libri sono apparsi, per esempio quello di Franco Parvis, Il valore del talento, anch’esso basato su interviste a quaranta leader aziendali sollecitati a dire “tutta la verità e nient’altro che la verità” su come vengono gestiti i talenti nella loro struttura aziendale.

3 - Tullio Tentori, Il rischio della certezza, 1996.

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