BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 14/06/2010

 

NON NE POSSO PIU'

di Maria Cecilia Santarsiero


Non ne posso più  di queste parole usate, abusate, rimasticate: 'la persona al centro dell’azienda', 'le risorse umane sono la cosa più importante dell’organizzazione',  'è importantissimo ascoltare', 'il leader deve prendersi cura dei suoi collaboratori'…
La sensazione che si tratti di un refrain scontato e vuoto, spesso cantato mentre si pensa alla propria carriera,  o a tutto quello che non si è potuto fare o non si è stati capaci di fare in questa direzione, declamate mentre fa capolino, ronzante, la consapevolezza di una realtà molto diversa, che si struttura, a volte , a prescindere dalle nostre buone intenzioni.
Ed è così pesante questa ritualità che alle volte verrebbe da gridare e dire basta con questi sistemi di valutazione, basta con la formazione all’efficacia, alla collaborazione a tutti i costi, all’assertività e alla formazione al ruolo e ritornare ad una relazione pulita e univoca prestazione-salario.
Difficilmente emerge in questi rituali la presenza dell’ ”altro/a”  come molestia, come fatica, come fastidiosa interferenza della nostra soggettività, del nostro punto di vista, delle nostre ragioni . L’alterità è di per sé sinonimo di diversità e fare i conti con ciò che è diverso da noi stessi implica sempre una dose significativa di impegno. Gli altri ci sono da sempre e da sempre ci hanno impedito di preoccuparci solo di noi stessi, mai che ci abbiano lasciato stare; e non si limitano ad essere diversi, vogliono sempre qualcosa da noi: attenzione, nel migliore dei casi, attaccarci nel peggiore….
Pur non volendo distruggere o abbattere anni e anni di ricerche e studi, di conoscenze nuove, di teorie psicologiche e sociali, delle ultime scoperte delle neuroscienze, mi verrebbe voglia di buttare nel cestino, il vocabolario istituzionale delle competenze individuate negli ultimi vent’anni:; flessibilità, intelligenza emotiva, comunicazione efficace, proattività, imprenditorialità…
Oh certo, tutto ciò  è stato necessario per creare una cultura manageriale comune, un codice specifico per poi poter valutare i risultati, gli obiettivi, le competenze, per cercare di salvare la faccia dell’equità e della oggettività….
Quello che propongo è una pausa, un coffe-breack, una sospensione per poter ragionare solo un attimo
su parole come il rispetto, la pazienza, l’autenticità, la schiettezza, il coraggio, la correttezza, la fiducia, la socializzazione, la responsabilità;  o a segnalare problematicità: l’invidia, la gelosia, l’individualismo, l’aggressività, il sospetto; o più neutre come potere, intenzione, piacere, volontà.
Parole già presenti nei classici greci, quelli che hanno dato un nome alla pasta di cui, nelle tragedie come nelle commedie, son fatti gli esseri umani.
Anni fa mi fu chiesto di fare da coordinatrice su un dibattito “sul lato oscuro della leadership”, una tavola rotonda a cui erano stati chiamati nomi illustri del management italiano. Mi piacque subito poiché mi sembrò una buona occasione per poter fare emergere le problematicità e le difficoltà, i limiti e , diciamolo pure, i difetti che ognuno di loro si riconosceva nell’esercizio della propria leadership. Prima di affrontare Il mio compito feci una ricerca su internet per raccogliere le critiche e potermi preparare delle domande provocatorie. Quello che successe realmente è che colui che rappresentava chi aveva organizzato l’evento spaventato dall’imbarazzo degli intervistati riportò, appena dopo le mie  prime due domande, il confronto sul terreno rassicurante dell’autocelebrazione.
Alla fine, pur essendo stata spodestata nel mio ruolo abbastanza velocemente, alcuni si congratularono con me per il coraggio che comunque avevo dimostrato.
Perché è così difficile uscire dalla ritualità, perché questa difficoltà di parlare delle cose vere o imbarazzanti?
Forse che una volta dato un nome alle cose, ci riteniamo più che soddisfatti abbandonandoci al consolante pensiero magico infantile che una volta creato il linguaggio esso da solo crea e realizza?
In un  film degli anni settanta, sconosciuto ai più ma divertente perché caratterizzato da un bambino che faceva molto bene la parte di quello che in Analisi Transazionale si definisce “il piccolo professore”, questo ad un certo punto afferma: le persone conoscono veramente poco di quello di cui parlano.
All’inizio del mio percorso di consulente, quando mi occupavo in modo diretto delle selezioni dei neolaureati ricordo un giovane uomo, intelligente, concreto, con un ottimo curriculum universitario che alla fine del colloquio mi disse: vede io penso che se realmente le risorse umane fossero importanti all’interno delle aziende, non ci sarebbe bisogno di voi consulenti!
Quest’affermazione, un  po’ sbrigativa, contiene però una semplice verità e lo dico  è propria anche andando contro i miei interessi… Le  tante società di consulenza esterne all’azienda, dilaganti in questi ultimi anni, che si occupano di risorse umane non testimoniano forse la profonda difficoltà a  trasformare in azioni parole come ascolto o collaborazione, etc. nei luoghi dove ce ne sarebbe bisogno e cioè nei contesti organizzativi?
Tutto ciò ci rimanda ad un modello di organizzazione da rivedere e ri-sognare, un modello in cui si possa salvare quel sentimento di far parte tutti insieme di un’avventura di trasformazione della realtà attraverso i processi di produzione e di servizi e attraverso di essi della società più allargata. Aziende restituite nel loro valore e nei loro risultati dalle operazioni/speculazioni finanziarie a chi ci lavora realmente  dal centralinista all’amministratore delegato.  Un’idea di azienda dove le differenze siano generate non tanto o solo dai meriti o dai ruoli, ma dalla capacità di  saper dare senso a quello che si fa, dalla passione per quello che si costruisce insieme con gli altri, attraverso la fatica e il piacere di dover accettare di essere gli altri di altri.
Riuscire a mettere insieme la nostra identità di cittadini fuori dall’azienda e dentro l’azienda, di clienti e produttori di idee-azioni-saperi.
L’auspicio è che questa sofferenza si riuscisse a trasformare nel fare la differenza….
  

Pagina precedente

Indice dei contributi