BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 27/11/1998

SI PUÓ FARE CONSULENZA CONIUGANDO ATTEGGIAMENTO SCIENTIFICO E ORIENTAMENTO AL SERVIZIO?

di Maria Elisa Sartor

Chi si occupa di analisi organizzativa coltivando - a ragione o a torto - una propensione scientifica e un interesse conoscitivo ha uno sguardo diverso, intende avere un orizzonte più ampio di chi ha finalità solo strettamente operative.

E’ interessato a trovare risposte ad esigenze concrete, ma queste sono solo lo spunto iniziale, la ragione del suo incarico e insieme il punto di arrivo del lavoro commissionato. Il vero obiettivo è capire qualcosa di più, è raggiungere un livello di comprensione - proposizionale e pratica - più elevato di una certa categoria di fenomeni. E’ aggiungere un caso aziendale ad una serie di casi già affrontati e trovare occasioni per osservazioni comparative. E’ costruire le precondizioni per affrontare con nuovi approcci più mirati le esperienze professionali successive.

Per arrivare ad una specifica meta a conclusione di un intervento di consulenza direzionale, meta definita per lo più negli accordi iniziali fra committente e consulente, le strade percorribili sono molteplici. Il confronto fra le strade scelte e poi percorse per raggiungere mete simili manifesta le differenze di approccio ed anche fa intravedere quali siano le probabilità di successo dell’intervento - a chi le sapesse riconoscere dentro segnali non proprio sempre evidenti.

Un’ analisi accurata che descriva le dinamiche organizzative - che sono poi in sostanza il lavoro prodotto da quella organizzazione -richiede al professionista di curare il continuo accrescimento del proprio know-how. Il che significa arrivare nel tempo a padroneggiare un certo numero di approcci teorici e di strumenti. Significa impadronirsi di concetti presi da campi del sapere molto diversi e curarsi poco dei confini disciplinari e di eventuali inconciliabilità apparenti fra gli approcci.

Intendo dire che il ricercatore "scientifico" in ambito organizzativo deve essere più di un analista che evidenzia i flussi di lavoro secondo le tecniche tradizionali - anche se penso non possa che conoscere bene queste ultime, per tentare - se può - di rivederne le modalità di effettuazione. A questo punto dell’evoluzione della teoria organizzativa e delle conoscenze accumulate dalle scienze umane e sociali, deve almeno porsi il problema di essere in grado di cogliere e descrivere - per quanto riguarda in senso lato il lavoro - sia la componente materiale (comportamentale, operativa) che quella simbolica (comunicazionale, culturale), nei molteplici livelli che costituiscono ognuna di queste dimensioni, sapendo ricorrere - se può e vuole - alla strumentazione necessaria per poterlo fare compiutamente. Non credo abbia senso di fronte al compito di capire una organizzazione, se non euristicamente o per limitazioni dovute al soggetto, la netta separazione - o peggio la gerarchizzazione - fra interventi sociotecnici, psicosociologi, microsociologici o etnografici, fenomenologici, basati sull’approccio delle metafore ed altri. Un ricercatore in ambito organizzativo non ha molte alternative se vuole svolgere con professionalità il suo lavoro: non può esonerarsi almeno dal conoscere le specificità di orientamenti così diversi e deve potersi mettere nelle condizioni di "calarsi" in ognuno , tentando, laddove ne ravvisi l’opportunità e ne sia capace, anche delle combinazioni/ibridazioni. Non mi sembra utile legare le proprie fortune, identificarsi, né essere identificato con un approccio da riconsiderare unicamente al mutare della moda del momento.

Seconda competenza di base per un ricercatore / consulente è la capacità di percepire e di saper trattare la complessità dovuta alla partecipazione nella vita di ogni organizzazione di un certo numero di attori. Non solo perché le persone, fra gli elementi della organizzazione, sono fra quelli che incorporano una maggiore complessità. Ma anche a causa delle interdipendenze. In particolare va considerata opportunamente quella complessità dovuta alle reciproche relazioni e interferenze fra individui e gruppi e sottosistemi. La complessità "trattata" va valutata inoltre in una dimensione temporale diacronica e sincronica insieme, occupandosi de "il che cosa c’era prima" e de "il che cosa si determina nel contempo".

Espresso in questi termini, quello descritto, sembra un compito impossibile da realizzare. Se però il professionista può contare su una formazione (anche autocostruita) basata su un consistente bagaglio di teorie e di tecniche, di fronte ad una specifica necessità conoscitiva, questa stessa strumentazione gli consentirà di decidere di interessarsi solo ad alcune dimensioni analitiche e non ad altre (pur riconoscendone un ampio numero e pur avendo qualche idea su come ognuna andrebbe singolarmente indagata). Potrà scegliere di descrivere solo quelle cui è direttamente interessato per motivi che riguardano gli orientamenti espressi dal cliente ovvero per ragioni che attengono alla economia della ricerca cui partecipa. Si troverà così ad usare solo alcuni strumenti per utilizzare i quali esprimerà solo alcune abilità fra quelle che è in grado di padroneggiare. Per questa ragione, il compito diventa quindi sempre possibile: perché in qualche modo viene necessariamente e consapevolmente sempre circoscritto e semplificato.

Nella operatività di un intervento, per prima cosa, normalmente chi svolge l’analisi si preoccupa di conoscere il peso - in senso gravitazionale, fisico - della operatività (dei fatti), ma nel contempo dovrebbe cercare di non trascurare anche la componente culturale, simbolica, cognitiva, comunicazionale che deriva dagli scambi e dalle relazioni organizzative, in riferimento principalmente al sistema dei valori della organizzazione.

Se, per esempio, il consulente fosse chiamato a formulare una azione di riordino organizzativo e quindi a rappresentare in una qualsiasi forma definita l’"azione organizzativa" effettiva in quel momento (siano i processi di business o le mappe del servizio, o qualcosa d’altro) sarebbe utile lasciasse traccia del lavoro svolto. Dovrebbe, in questa prospettiva, assegnare a sé anche il compito di rendere visibile ai suoi interlocutori gli elementi che lo portano a formulare le conclusioni contenute nel suo rapporto. Gli servirebbe quindi trovare uno specifico modo di descrivere, meglio se "visivamente" (il modo più rapido di comunicare), che sia non troppo specialistico, cioè non chiuso in modalità interpretabili solo da colleghi esperti del suo ramo; non troppo analitico, ma nemmeno troppo sintetico e impoverito di elementi. Parte del suo lavoro consisterebbe così nella ricerca di una modalità di illustrazione che consenta all’organizzazione-cliente un buon grado di partecipazione alla definizione dei risultati.

In un momento successivo, quando maturasse il tempo della verifica dei risultati proposti, il consulente consentirebbe quindi - non solo a sé stesso, né solamente al gruppo professionale di riferimento che conosce quelle specifiche modalità di rappresentazione, ma soprattutto ai committenti cui i risultati del lavoro sono destinati - quasi ogni sorta di analisi critica di ciò che egli descrive e propone.

Questa apertura /trasparenza del processo di ricerca-intervento può essere colta come una manifestazione della capacità professionale di chi la pratica, che si traduce in una opportunità di partecipazione al servizio di consulenza per l’organizzazione-cliente.

Quanto descritto non è proprio ciò che per lo più viene praticato. Sebbene la necessità di una riconsiderazione del ruolo del consulente sia diffusamente avvertita, il cambiamento vero e proprio ha altri tempi ed esiti multiformi ed incerti. Una delle innovazioni augurabili in questo caso -e che qualcuno già pratica - starebbe nel comportarsi in modo tale da consentire ai clienti di poter pervenire autonomamente a risultati diversi, anche opposti a quelle prodotti dal professionista ma che scaturiscono dallo stesso processo. E senza che ciò diventi fonte di criticità. Anzi cercando che questo fatto del ricorrere a qualcuno - il consulente - che renda possibile un processo di attivazione di soluzioni venga apprezzato come una occasione di evidenziazione delle potenzialità inespresse in azienda e di moltiplicazione delle capacità di risposta alle sfide che si presentano.

Non sembra portare lontano, né avere un significato positivo per l’azienda nel medio e nel lungo periodo, la pratica messa in atto dal professionista - e non ancora abbandonata, di un parziale esproprio informativo del cliente riservando per sé in esclusiva l’identificazione delle soluzioni. Questo comportamento risponde alla logica del mantenimento per sé della forza che deriva dall’aver fatto emergere e dal possedere per primi informazioni critiche provenienti da tutta l’organizzazione, strutturate e ben formulate.

I modi di restituzione dei risultati di una analisi/consulenza sono molteplici. E decisi da chi opera l’analisi. Il modo è da considerarsi fruttuoso - secondo questo orientamento - se risponde alle necessità informative principali che il contesto specifico sottopone alla indagine, se rende maggiormente omogeneo il grado di informazione diffuso nel sistema, colmando i principali scostamenti conoscitivi, smorzando alcune delle differenze fra gli attori suoi clienti dovute al possesso differenziato delle informazioni, fornendo a interlocutori diversi quegli elementi mancanti che vanno a comporre l’immagine di insieme.

Conoscere l’organizzazione per il professionista comporta un’ effettiva fatica. In fondo è proprio questa la principale attività che viene delegata al consulente. Esigenza imprescindibile che non viene quasi mai esplicitata negli incarichi ma che costituisce gran parte dello sforzo. Lo schema del lavoro che questa richiesta latente comporta per il consulente é il seguente:

1. raccogliere informazioni in varie occasioni e in vario modo (formalizzato e informale);
2. fare delle ipotesi sulla organizzazione;
3. verificarle;
4. formulare alcune idee da utilizzare come acquisizioni temporanee da mettere successivamente in discussione;
5. considerare quest’ultime come nuovi punti di partenza della analisi, una volta aggiunte informazioni che le integrino o modifichino .

Ne deriva un processo ricorsivo che trova una conclusione solo quando il consulente ritiene di aver colto le principali caratteristiche della organizzazione utili ai fini del suo intervento e su cui ragionare per identificare le soluzioni ai problemi posti dalla azienda.

Per farsi una idea fondata della organizzazione-cliente serve una attività distribuita lungo tutto il processo di intervento e non solo riservata alle fasi preliminari. E questo comporta tempi di lavoro che non sono ben quantificabili a priori. Ma non è solo una questione di tempo, è anche una questione di intensità: assumersi il ruolo di conoscere richiede anche una focalizzazione cosciente dell’attenzione rivolta a segnali vaghi, ai dettagli, alle cose non dette per consentire la formulazione a sé stessi delle domande che di volta in volta fanno avanzare il processo di conoscenza. A questa identificazione delle domande segue l’attività corrispondente di elaborazione delle risposte. Tutto questo sforzo, si diceva, va al di là della domanda specifica di consulenza.

E’ chiaro che il compito per il consulente finisce quindi per complicarsi: si impegna in un lavoro che non viene completamente fronteggiato dalle persone di quella organizzazione e lo deve fare in tempi molto ristretti, correndo anche il rischio di non poter accedere a tutte le fonti disponibili; lo stesso processo descrittivo del lavoro effettuato dal consulente - se si vuole venga garantita una partecipazione del cliente - diventa più complesso per poter ottenere una rappresentazione più ricca di informazioni ma comunque semplice e leggibile da parte degli interlocutori.

Il consulente si occupa di scegliere e di adattare i metodi, di capire, seguendo piste conoscitive che percorse per un po’, talvolta deve abbandonare. Guarda i fenomeni, ricompone i frammenti, mette sotto osservazione i dettagli, soprattutto quelli che comunemente vengono trascurati, li ricompone, li integra. Li trasforma in nuove sintesi. Comprime i tempi della trasmissione delle nuove informazioni "trattate", anche se queste ultime è utile rimangano ad un livello di elaborazione molto vicino al primario, per non perdere, o per farlo solo in piccola misura, informazioni che potranno essere riaggregabili successivamente, secondo altri criteri.

La sintesi cui arriva è il risultato quindi di una semplificazione dei piani di analisi "visitati" ad uno ad uno attentamente. Si può dire che il professionista in versione "scientifica" - svolga un doppio lavoro per il cliente: a) prima di tutto, una funzione di ricostruzione dei fatti e di attribuzione di senso; anche comunicativa, di chiarimento, spiegazione che può contribuire allo sviluppo del sistema e che è preliminare ad ogni altra funzione; b) in secondo luogo, indica (e talvolta realizza) delle soluzioni.

Un simile lavoro, così ampio e solo in parte esplicitamente richiesto, non viene pagato interamente. Il carico di lavoro che appartiene alla ricostruzione e alla diffusione della conoscenza - tanto più se non viene pagato, trova con difficoltà una ragione di essere, anche se è la precondizione imprescindibile dell’intervento. Finisce per diventare nella considerazione del consulente che non è mosso da una passione conoscitiva o da stimoli etici o da una particolare propensione al servizio, poco qualificante (soprattutto per quegli aspetti che inducono un sforzo anche fisico), inopportuno, inutilmente dispendioso. Si finisce per trascurare - o non vedere del tutto - la sua importanza strategica anche ai fini della efficacia dell’intervento.

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