BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 21/03/2005

Emma Rosenberg Colorni

IMPARARE A VIVERE SITUAZIONI INDETERMINATE E PIACERE A SE' STESSI

Scheda di lettura di:
David Whyte,Il risveglio del cuore in azienda, Guerini 1997

 

Alla base dei nostri stress c'è la scissione fra la vita lavorativa e il nostro vero essere richiesta da un mondo che per rendersi efficiente si era spogliato di tutte le differenze individuali e di ciò che non è immediatamente gestibile e misurabile.

Poiché ora il mercato richiede ai propri lavoratori maggior dedizione, adattabilità, creatività, impegno di sé, per la prima volta il mondo aziendale sta avanzando verso l'area più umana e individuale che prima escludeva.

Se le aziende ricercano le qualità creative del nostro essere, esse devono naturalmente fare spazio alla sua presenza inquietante all'interno dei propri confini.

Le aziende hanno disperatamente bisogno di includere questi aspetti perché solo essi, nel loro emergere, richiedono radicamento e responsabilità anche nel cambiamento.

(L'entrata nel mondo aziendale delle donne, forse meno riducibili per ragioni di educazione e pressione sociale di quanto non sano gli uomini, ha forse incoraggiato le aziende ad includere anche la parte misteriosa, poco omologabile e prevedibile che prima escludeva).

Inoltre le aziende si sono rese conto che se ignorano l'aspetto più oscuro e viscerale della vita dei propri dipendentiper enfatizzare, pur con le migliori intenzioni, solo gli aspetti evidenti, prevedibili e misurabili, esse saranno obbligate ad affidarsi a costose piramidi manageriali al fine di mantenere il controllo e manipolare i propri lavoratori a scapito del loro impegno.

D'altra parte il tentativo di ignorare questi aspetti viscerali non li fa scomparire per magia, ci sono nel mondo aziendale espressioni di questi mostri repressi (di cui forse la madre è la vergogna di non essere sufficienti, adatti):

L'azienda può essere in difficoltà nel pensarsi più dinamica a causa del peso soffocante della sua passata immagine di sé (ego): se gli ego, confusi come fossero sé, devono cambiare spesso per esigenze di mercato, ci si sente orfani di stabilità, ritrovabile o con un nuovo ego stabile e dunque fragile, o con un sé finalmente riconosciuto.

Fino a pochi anni fa la vita delle aziende era organizzata sull'abbandono dei desideri personali, il richiamo alla fedeltà era "un sacrificio oggi in cambio di promesse future". Oggi questa fedeltà non è più operativa, le aziende hanno bisogno di gruppi di persone più affiatate e creative alle quali promettono sempre meno al di fuori dei loro presenti impegni creativi. Gli individui che lavorano in questo ambiente sono obbligati a imparare a vivere in situazioni sconosciute e indeterminate, per creare attivamente la propria esistenza indipendentemente dall'organizzazione, e piacere a se stessi mentre lo stanno facendo.

Da parte loro i lavoratori provano sconcerto nel vedere che il prezzo della propria vitalità e del proprio impegno è l'abbandono di illusioni di immunità e sicurezza, con le paure che ne derivano. (Devono smettere di coltivare uno stile di vita che non richieda la loro presenza).

Possiamo realizzare un meraviglioso coinvolgimento nel nostro lavoro, ma dobbiamo abbandonare l'idea che in cambio il mondo ci sia debitore di un posto su una scala di carriera divinamente preordinata.

Viviamo nella vana speranza di poter sempre intrappolare e contenere completamente delle energie che presto o tardi emergono per guidare la nostra vita in modo inconscio. Se ci restringiamo nella parte di noi (ego) che trae il proprio senso di identità dalla posizione che occupa nella gerarchia arriviamo ad avere la sensazione di essere fatti a pezzi.

E lo sconcerto nasce dall'accorgersi che i metodi che funzionavano per mantenere vivo l'ego non funzionano, e anzi sono dannosi, se utilizzati per far emergere ciò che intrappolavamo. Tutte le cose cambiano quando noi cambiamo.

Lo spavento è così forte che, nonostante il dolore, a volte ritorniamo a negare un parte di noi stessi. Ma parte, indipendentemente da quanto siano straordinariamente umani e partecipi i nostri colleghi, saremo sempre perseguitati da ciò che abbiamo trascurato in noi stessi. Ci piace l'idea del paradiso, ma ci sentiamo più sicuri quando esso rimane dall'altra parte dell'esistenza; trovare la gioia nel nostro lavoro implica semplicemente la rinuncia a troppe cose, il paradiso appare di botto come un luogo in cui si è trasparenti verso tutto il resto e dove bisogna abbandonare un gran numero di concezioni.

Le paure sono quasi sempre irrazionali, non si riesce a limitarle attraverso il ragionamento. Per superarle non serve coraggio, ma l'essere centrati su ciò che davvero si vuole, il che basta a farci sentire bene.

Per quanto possiamo prepararci in anticipo per la protezione di noi stessi, i nostri preparativi non sono altro che formule magiche mormorate per allontanare il malocchio (es: possiamo prepararci un discorso, come fosse un talismano, per una negoziazione, ma poi lì bisogna essere presenti alla realtà e abbandonare i discorsi preordinati).

L'unica vera questione non sta nel vincere o nel perdere ma nel fare esperienza della vita.

Il lavoro ha a che fare con il mettere alle strette la nostra vita cosciente, mira a obiettivi concreti e ama ciò che è lineare e definito, e così accadono cose e si raggiungono obiettivi, ma è il nostro essere nella sua interezza che trasforma questi eventi in esperienza. Se teniamo fuori dal lavoro il nostro essere il lavoro diventa alienante.

Sembra che sia comune agli esseri umani il bisogno di appartenere a qualcosa di più grande di loro, e di sentire con essa una relazione di collegamento (re-ligo). Se si lavora per questo qualcosa di più grande (la vita, l'amore, il mondo, Dio) si trova nel lavorare un luogo incontaminato in cui è possibili trovare calma e riposo.

Si sta bene se si fonde il proprio essere nel proprio fare.

Abitiamo e lavoriamo e consumiamo in luoghi e in modi in cui il nostro essere viene escluso e osteggiato, e a volte quando ci rendiamo conto di quanto ci sentiamo fuori luogo possiamo credere di essere depressi mentre spesso è la semplice richiesta fisica di riposo, di contemplazione, di una vita che non escluda una parte di noi.

Al centro delle nostre lotte nell'organizzazione c'è un'illusione che restringe il nostro senso di noi stessi e ignora il mondo più vasto al di là dell'organizzazione (David Ignatow: "vorrei essere contento di guardare una montagna per ciò che è e non come un commento alla mia vita"). Paradossalmente portiamo vitalità all'interno delle organizzazioni quando rifiutiamo di assumerne gli obiettivi quale misura del nostro successo e quando iniziamo a richiedere che esse servano obiettivi più vasti.

Servire come modo di trovare silenzio nel flusso ininterrotto dell'attenzione all'altro.

E' molto difficile preservare la propria intera umanità nel luogo di lavoro se non si vive il legame con ciò di più ampio che si è scelto di servire. Ciò non significa abbandonare i propri desideri (altrimenti seguiremmo quelli di altri), anzi èattraverso l'attenzione al proprio desiderio che si scopre ciò che ci anima e ci muove.

Se permettiamo al nostro essere di emergere soltanto fuori dal lavoro, allora perdiamo l'opportunità di realizzarci proprio nel posto in cui consumiamo la maggior parte delle nostre energie.

Se abbandoniamo i nostri desideri sperando di stare al di sopra di tutto, finiamo per sostituirli con quelli di qualcuno più carismatico ritrovandoci poi in schiavitù.

Le aziende che cavalcano l'onda di questo cambiamento, comprendono che le rivendicazioni dei lavoratori (tipo passare più tempo con la famiglia) sono tanto necessarie per l'azienda quanto per gli individui che la compongono, e saranno intenzionate a interrogarsi con profonda radicalità circa la reale utilità dei propri prodotti.

Come non cadere nell'autocommiserazione? Sembra che ciò sia fattibile se mentre discendiamo nell'esperienza soggettiva interiore non perdiamo di vista il mondo esterno. Noi possiamo perderci nel mondo, ma ciò che ci circonda non si è perso, lo sa dove siamo e possiamo stare fermi e lasciare che ci trovi.

Nella tradizione zen si suggerisce di mettere continuamente alla prova i silenzi dei propri stati interni con la concretezza del mondo esterno, e di riconoscere la differenza fra i due.

Si invita a smettere di scegliere fra le piccole azioni della vita quotidiana e i grandi gesti di un disegno più ampio, per prendere tempo e conoscere un mondo in cui c'è posto per entrambi.

L'improvvisa e intuitiva capacità di provare profonde emozioni, ciò che i poeti chiamano 'sensibilità', è il potere di apprezzare le cose così come sono.

Spesso pensiamo di esistere solo quando i cicli di cui è fatta la vita ci mostrano il loro lato positivo, quando abbiamo successo e il nostro senso di noi stessi aumenta. Se le cose ci appaiono in declino ci rifiutiamo di considerarle come la seconda metà dello stesso ciclo e le rifiutiamo pensando che ci sia qualcosa di sbagliato in noi, o pensiamo che sia successo qualcosa di terribile e dobbiamo compilare una lista di cose da fare per rimettere tutto a posto. La nostra educazione è in gran parte basata sull'eliminazione della fiducia nella metà del ciclo dell'esistenza che affievolisce, e lo strumento per privarci della fede è la vergogna. Ci permettono di far partecipare solo alcune parti di noi, che sono quelle, di solito, che imparano come funziona lo status quo.

D: se serve una gran quantità di energia per fermare delle parti di me dall'emergere, in quale tipo di lavoro sono coinvolto?

D: Cosa mi fa credere necessario nascondermi da me stesso per la maggior parte della giornata?

D: cosa accadrebbe nella mia vita se avessi fiducia nelle parti di me che stanno sbiadendo quanta ne ho per le parti che stanno crescendo?

Liberi dalla necessità di tenere nascosta una metà di noi stesi, possiamo coltivare la nostra interezza con tutte le parti in apparenza antagoniste, possiamo capire di non dover essere aggiustati prima di poter servire noi stessi o l'azienda.

D: cosa succederebbe se adottassimo un approccio professionale anche verso i bisogni del nostro vero essere perché si realizzi nel mondo?

Noi abbiamo pazienza per tutto tranne che per ciò che è più importante per noi , forse accade perché impegnarsi per una cosa significa prima di tutto riconoscere, e può essere doloroso, che quella cosa non si ha. Voltiamo il nostro viso per un istante dicendo a noi stessi che ce ne occuperemo, e poi non ce ne occupiamo più.

Scoprire di non essere al centro della creazione diventa una benedetta liberazione, ci consente di vederla come una continua rivelazione e non come una fonte di dispiacere quando non fa della nostra carriera la priorità numero uno.

La creatività richiede un'identità sempre più vasta fino al nulla. (Wu Wri Wu: "perché sei infelice? Perché il 99,9 di ciò che pensi e tutto quello che fai è per te stesso, e non c'è nessuno").

La crescita comincia quando ci rendiamo conto sia di quanto siamo soli, sia di quanto siamo interconnessi: la consapevolezza della solitudine ci fa celebrare l'incontro con gli altri, e la paura dell'intimità e dell'appartenenza ci permette di apprezzare la solitudine.

Dobbiamo recuperare dal cuore le immagini di ciò che vogliamo, riconoscere gli anni in cui le abbiamo abbandonate e agire in base ad esse. La semplice chiarezza delle immagini potrebbe apparire come un insulto alla vita complessa che ci spinge in mille direzioni diverse.

Bisogna smettere di scegliere fra il caos e l'ordine e vivere al confine tra essi, dove il riposo e l'azione si muovono insieme.

Chiunque non sia disposto ad apparire ridicolo ogni tanto, farebbe meglio a non cominciare questo cammino.

Spesso abbiamo ereditato le nostre battaglie dai genitori ma loro non hanno il potere di aiutarci ad affrontarle. Spesso queste battaglie scorrono di generazione in generazione senza che vengano affrontate a fondo. D: ?

Voce e assertività

La voce emerge dal corpo come rappresentazione del nostro mondo interiore: porta con se le esperienze del passato, le nostre speranze e paure per il futuro e la risonanza emotiva del presente.

Nel parlare ci riveliamo, ci sveliamo.

La persona in fondo alla scala gerarchica dell'ufficio desidera un tono di voce autorevole, ma non ha ancora trovato nel suo corpo dove risiede. Il suono dipende dalla pienezza della massa d'aria che passa dalla gola, e quella pienezza è fatta dall'intero corpo (i cantanti imparano presto che il suono è prodotto dall'intera estensione del corpo).

Se la voce appartiene al ventre si è più in contatto con le sensazioni viscerali che sono l'espressione del nostre essere qui ed ora. Se non si sa ancora a cosa dire "sì" si può cominciare con il dire "no" a qualsiasi cosa intuitivamente sappiamo ci porterà ad una perdita di vitalità, aspettando (senza sperare perché sarebbe speranza nella cosa sbagliata) fermi di sentire quali sono i propri sì. In genere le persone che sanno cosa vogliono appaiono in pace con se stesse, hanno un'immagine interna a cui tornare che funziona da rifugio.

Innocenza ed esperienza

Ogni volta che facciamo sentire la nostra voce all'interno di un'organizzazione, riveliamo con essa l'equilibrio precario fra innocenza, che ha a che fare con il costruire la propria strada nel mondo quali che siano gli ostacoli, e l'esperienza, che ha a che fare con il comprendere le relazioni di potere che dominano le organizzazioni. L'equilibrio è fra l'essere giudicati "idealisti pericolosi" o"abili cinici".

(Le attività che piaceva fare, e che magari si giudicavano una perdita di tempo, possono costituire un curriculum che porta a poter svolgere perfettamente un dato compito: visto dall'esterno il percorso di vita sembra portare senza sbavature a quel destino che non era visto coscientemente da chi lo vive).

La vera conquista arriva nell'incontro tra le due parti che sono state separate: la nostra innocenza vitale e la nostra esperienza istruita.

Gruppi. Tutte le prove che derivano dalla scienza della complessità dimostrano che, una volta forniti alcuni chiari parametri, le comunità o le squadre si autorganizzano. Una visione e uno scopo fungono da "strani attrattori" (che si manifestano in natura quando il disordine viene incanalato in modelli con qualche tema comune, c'è sempre un'immagine sottostante il caos che fornisce una chiave per l'ordine del livello superiore) da un lato lasciano spazio alla creatività, e dall'altro fungono da limite naturale a comportamenti dannosi per la squadra. Una squadra compatta, con un forte senso della propria missione e dei propri compiti, può essere lasciata libera. Si tratta di assicurare un ambiente in cui le persone esercitano la loro stessa disciplina, intesa come coerenza fra azioni e obiettivi.

Gli stormi si creano con semplici istruzioni locali; tentare di dirigere dall'alto verso il basso porta ad un gran numero di istruzioni burocratiche nel tentativo di prevedere ogni eventualità.

p. 290 Pensate e agite localmente e intuite globalmente.


David Whyte, The Heart Aroused: Poetry and the Preservation of the Soul in Corporate America, 1994.

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