BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 22/04/2002

Liberismo, mio liberismo

di Davide Storni

Sono stato liberale e liberista in un'epoca in cui non era di moda, anzi era abbastanza scomodo essere liberale.
Già allora, sul finire degli anni '70, i liberali erano divisi fra destra (PLI) e sinistra (PRI), quindi non stupisce che anche oggi sia a destra che a sinistra ci si proclami a favore del liberismo. Semmai stupisce che oggi sia divenuto slogan e moda, che tutti indistintamente abbraccino il liberismo (forse per esorcizzarlo?).

Ho ripensato al mio essere liberale negli anni. Stranamente ho trovato spunti più nell'antropologia e nell'etologia umana che nel pensiero economico-politico che risentiva troppo di emozioni e schieramenti.
Grazie a Lorenz e Eibl-Eibesfeldt ho capito il rapporto fra libertà e responsabilità. L'uomo è il primo essere libero dalla schiavitù della legge naturale, dalla crudeltà della selezione genetica.
Ma l'essere libero significa che l'uomo diviene responsabile del proprio futuro, non essendoci più un'entità terza (la natura), una legge (naturale) che garantisce la regolamentazione nella evoluzione. La selezione naturale premia il più adatto o, in alcuni ambiti e momenti evolutivi, il più adattabile in altri. È una legge severa e tiranna che però ha garantito per millenni la permanenza della vita sulla terra mediante il processo evolutivo (che è un fenomeno assai complesso e assolutamente non lineare come si pensava solo fino a pochi decenni fa - v. su questo tema alcune ricerche dell'istituto di Santafe). L'uomo, primo fra tutti gli animali riesce, almeno in parte, a liberarsi da questa tirannide, riducendo la pressione selettiva principalmente sostituendo al processo di apprendimento genetico un processo di apprendimento culturale. Ma questa sua libertà si traduce in responsabilità, perché il futuro della vita sulla terra e della sua propria ora non è più regolamentato solo dalla legge naturale, ma dai suoi propri comportamenti. In altre parole l'uomo è libero, ma deve pensare al proprio futuro in modo responsabile.

Questo legame forte fra libertà e responsabilità può (deve) essere trasportato nell'ambito della nostra riflessione sul liberismo e sulle organizzazioni.
Essere liberale significa sviluppare una cultura della libertà e della responsabilità, dove la libertà si riferisce alla dimensione dell'individuo, la responsabilità alla dimensione della società (cioè della libertà degli altri) e della costruzione di un futuro.
La responsabilità nasce a sua volta come limitazione, quindi come regolamentazione della libertà del singolo. Questi due poli, la responsabilità e la libertà, possono essere visti come antitetici, ma in realtà esistono solo in modo congiunto, in dialettica fra di loro e non possono prescindere l'uno dall'altro. Non esiste responsabilità senza una sfera di libertà in cui esprimerla, non esiste libertà, a lungo, senza scelte responsabili.
La libertà e la responsabilità si muovono in modo sincrono, legate indissolubilmente in un eterno dialogo di antitesi e possibilitazione, contribuendo alla costruzione della cultura umana.

Libertà di agire per un individuo o per un'azienda può significare schiavitù e umiliazione per altri, come ben sanno gli indios sudamericani, gli indiani d'America vittime del mito della frontiera (libertà per i coloni, morte per loro), gli schiavi di ieri e di oggi, solo per fare gli esempi più conosciuti. (in proposito vi invito a leggere "Mi chiamo Rigoberta Menchù").
La libertà, e la dignità, di milioni di persone nel mondo sono legate alla possibilità di limitare la libertà di aziende e individui dei paesi che hanno inventato il liberismo. Il riconoscimento della responsabilità dell'agire libero è il primo passo per consentire la libertà di altri, per garantire o almeno per rendere possibile la libertà anche alle generazioni a venire.
Libertà non responsabile può anche significare la distruzione di beni non riproducibili (natura, fonti energetiche, opere d'arte, …) o il sopruso su altri, più deboli. Quindi una limitazione della libertà di pochi e/o di oggi può essere premessa ad una maggior libertà futura e/o di altri.

La limitazione della libertà, in logica liberale, può però manifestarsi solamente come auto-limitazione, cioè come processo di presa di coscienza degli effetti della nostra libertà ed in particolare degli effetti sugli altri e sull'ambiente. Passando ad una dimensione sovra-individuale, nell'ottica proposta la limitazione all'agire dell'individuo potrà quindi manifestarsi come condivisione di un insieme di limiti minimi ai singoli, volti solamente a garantire la possibilità di espressione della libertà a tutti e nel tempo. In questo non differisco molto dalla teoria liberista classica, se non per il fatto che non credo alla mano invisibile del mercato e ritengo necessario il manifestarsi di una coscienza comune, di un processo di responsabilizzazione che valuti quel set minimo di limiti da porre al singolo per garantire a tutti la possibilità di manifestare la propria libertà.

Ma quale impatto hanno queste osservazioni sul vivere organizzato?
Sul piano micro possiamo notare come le organizzazioni comincino a rendersi conto dell'importanza di garantire sviluppo, motivazione, libertà a tutti i livelli. Il potere dei manager è il potere dei collaboratori (Kelley, il potere dei collaboratori), il servizio è innanzitutto "un uomo con un cartello in mano" (Peters, venti tesi sul servizio, Franco Angeli). Ma siamo solo agli inizi e molto spesso ad esercizi di demogagia.
Su un piano più generale si risente maggiormente dell'ideologia e nel dibattito politico mi pare si fatichi a prendere consapevolezza dei concetti sopra esposti.
L'organizzazione statale risente degli orientamenti e delle ideologie e se negli anni settanta l'ideologia dominante era di stampo populista-garantista, oggi risente della moda liberista (ma di un liberismo di comodo).
Ieri si nazionalizzavano aziende, si cercava di prendersi cura del cittadino garantendo sicurezza e benessere, con sottoprodotti negativi come l'aumento del debito e dell'inflazione, ma anche riducendo l'educazione alla responsabilità alla libertà del singolo individuo, ritenuto incapace di pensare a se stesso.
Oggi il liberismo spinge verso una progressiva privatizzazione nell'economia come nella scuola e nella sanità, puntando allo smantellamento degli apparati burocratici inefficienti e costosi.
Questi orientamenti consentono di correggere alcune anomalie, ma ne generano altre, forse ancor più critiche.
In nome del liberismo si perseguono interessi privati che nulla hanno a che vedere con il libero mercato. Così vediamo che vengono privatizzate anche aziende che operano in regime di monopolio (ad esempio le autostrade) spacciando il permesso di riscuotere gabelle di stampo medievale per atti di modernità e liberismo.
Oppure si interviene sul mercato del lavoro spacciando per incrementi di occupazione anche i lavori temporanei e irregolari (come dire che se consideriamo il lavoro nero e "l'arte di arrangiarsi" con mille mestieri, legalizzandoli e regolamentandoli per legge, si potrebbe sostenere che in Italia non esistano disoccupati).

Libertà e responsabilità dovrebbero coesistere nella cultura organizzativa, nella ricerca della massimizzazione della curva di libertà individuale della collettività (cioè la somma delle libertà individuali di tutti i membri di una comunità).
E l'organizzazione statale dovrebbe riflettere questa ricerca di equilibrio fra libertà e responsabilità, ma come?
Innanzitutto in un sistema che tende a massimizzare il livello di libertà, l'organizzazione deve essere minima. Tutte le volte che si costruisce gerarchia si tende a creare un istituto che a sua volta tende a perpetuarsi e giustificarsi (clamoroso il caso del parlamento europeo, che sforna leggi ad un ritmo impressionante, per lo più inutili, inascoltate e non richieste).
Poi deve cambiare la finalità dell'organizzazione che deve abbandonare la tendenza a "pensare per" i cittadini, e assumere il compito di informazione e sviluppo della consapevolezza, stimolando la capacità di pensiero dei membri dell'organizzazione. Informare, proporre riflessioni, creare ambiti nei quali decidere, sviluppare delle modalità che permettano il confronto e la condivisione di quel set di regole minimo che rappresenta la presa di responsabilità di una comunità.
Si tratta di una inversione di tendenza, dalla organizzazione che decide per i cittadini, ad un'organizzazione che aiuta i cittadini a decidere.

Un'organizzazione simile è solo utopia?
Naturalmente no, e nella storia delle società umane è già esistita, magari non estesa a tutta la popolazione (capi clan, consiglio degli anziani, assemblee costituenti). Non è forse pensabile estendere a tutte le decisioni amministrative questo processo, ma se vogliamo che libertà sia, il processo di responsabilizzazione deve senza dubbio essere esteso alla scelta dei criteri entro i quali gli amministratori potranno muoversi. Oggi questa scelta è affidata agli stessi amministratori, al più a politici professionisti, con il risultato di una costante distorsione delle finalità e deresponsabilizzazione dei cittadini.

E all'interno di un'azienda?
Il discorso è analogo. La responsabilizzazione delle persone è un passaggio obbligato per la manifestazione della loro libertà. Il coinvolgimento può avvenire a partire da un set di regole minimo (ad esempio il raggiungimento dei fini istituzionali dell'organizzazione) che fungerà da contesto di riferimento per l'agire dei singoli. Il limite quindi si sposta, dal rispetto delle direttive del capo, al raggiungimento di obiettivi definiti, ad una più ampia responsabilizzazione sui fini istituzionali e su regole tecniche minime (creazione di valore, ROI).
Anche in azienda un basso livello di responsabilizzazione corrisponde ad un basso livello di libertà. Partendo dall'idea che alcune persone "non sappiano" o non possano essere responsabili, si definiscono direttive, norme, ordini, …
Ho più volte potuto riscontrare che persone inserite in ruoli esecutivi, adeguatamente portati a sviluppare un processo di responsabilizzazione, hanno saputo gestire il proprio tempo, raggiungere obiettivi, programmare la propria crescita professionale, valutare il proprio operato, in altre parole aumentare il proprio livello di libertà, nel rispetto delle finalità del vivere organizzato.

Fermo qui queste mie riflessioni, per il momento, ribadendo la mia fede verso una cultura della libertà che rifiuti il paternalismo-populista così come il liberismo inteso come libertà di pochi. Analogo rifiuto pongo verso quei supposti regolatori inintelligibili, quindi deresponsabilizzanti, come la mano invisibile del mercato.
Libertà e responsabilità sono elementi inscindibili, il secondo come garanzia delle libertà futura e della libertà degli altri.

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