Quelle facce
Ancora una volta mi sono
imbattuto in quelle facce
che ti guardano un po' incredule, un
po' diffidenti, senza osare proporre un quesito o ribattere.
Forse quelle facce avrebbero voglia di chiedere, forse di sperare, o forse dirmi
che sto dicendo solo fesserie, che sono un illuso, che le cose non vanno in
quel modo.
E io da questa parte di un invisibile muro a dire che noi siamo lì per
aiutare le persone a crescere, ad essere più autonome, che vogliamo lavorare
con loro, ascoltarli, e che l'azienda vuole investire su di loro. Lo dico in
tono pacato, sereno, quasi ci credessi, e loro, quelle facce sempre uguali,
dall'altra parte a guardarmi da una distanza forse incolmabile, sperando, ma
non troppo, perché poi la disillusione sarebbe forte.
Altre volte hanno sentito parlare degli investimenti dell'azienda sulle "risorse
umane" (come non mi piace questo termine, persone, parliamo di persone!),
ma in quei casi non si erano per nulla fatti delle illusioni: rispettato il
rito sarebbero tornati alla realtà di ogni giorno, fatta di piccoli e
grandi soprusi, di incoerenze e frustrazioni. Si impara presto che la realtà
nelle organizzazioni è fatta di piccolezze quotidiane, di relazioni,
di saper trovare la strada giusta. E che bisogna rispettare le regole.
Ma questa volta forse,
., ma no anche lui,
, sarebbe bello se
.,
quelle facce fra il dubbio e la voglia di crederci.
Empowerment, persone, valorizzazione
e condivisione della conoscenza, crescita e responsabilizzazione, dare il proprio
apporto al processo di cambiamento. C'è ben di che essere dubbiosi.
Quelle facce le ho incontrate in tutte le aziende dove ho lavorato, contesti
diversi, professionalità diverse, ma quelle facce così uguali.
Quando le vedo le riconosco immediatamente. E allora mi chiedo cosa posso fare
per loro, aiutarle a sperare, certo, ma anche a calarsi nella realtà,
senza voli pindarici, costruire l'immaginario di una nuova possibilità.
Quelle facce, tante piccole speranze, tante piccole illusioni, qualche tentativo di strumentalizzazione, qualche incomprensione. A poco a poco le ho convinte, le persone che stanno dietro a quelle facce, che le cose si possono fare in modi diversi, che si può pensare ad un'organizzazione dove l'agire collettivo non sovrasti la realizzazione dell'individuo, ma ne sia invece il risultato, che molto dipende anche da loro, che molto si può fare.
A volte le ho anche deluse, me ne sono
andato, verificando la mancanza di condizioni per continuare a costruire un
modo nuovo di vivere l'organizzazione, annullato nel gorgo del "vinco io,
perdi tu", del rispettare la cultura, della logica di cordata. Qualcuno
me lo ha (dolcemente) rimproverato, di lasciarli soli, di abbandonarli.
Eppure questo distacco deve esserci, altrimenti è sempre dipendenza,
aspettare che un altro faccia la rivoluzione per me, portare fuori il senso
di controllo della propria vita. Il cambiamento nasce dall'interno, da mille
piccoli gesti, dalla consapevolezza che possiamo cambiare il capo, così
come abbiamo cambiato nostro padre (child is father to the man). E non è
mai scenografico; quando cade il muro di Berlino, il cambiamento è già
avvenuto, in un sussurro, in tante piccole azioni.
Certo a volte sembra che le nuove forme
organizzative, gli esperimenti, vengano riassorbiti, annullati, dimenticati.
Che cosa rimane dei gruppi di lavoro autodiretti? della formazione empowerment?
dei progetti sui giovani? Rimangono le persone.
Persone che hanno sperimentato la propria forza, la propria capacità
di produrre risultati, di essere attori e non più solo esecutori. Senza
illusioni, ma con un po' più di consapevolezza.
E allora di nuovo, di fronte a quelle
facce, trovo la forza di parlare loro come so, di provare a convincerle, di
lasciarmi coinvolgere.