BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 13/11/2006

CHE COSA CI FACCIO QUI?
(OVVERO DEL MESTIERE DI CHI SI OCCUPA DI ORGANIZZAZIONE E DI CAMBIAMENTO)

di Davide Storni

Svolgendo il proprio lavoro di facilitatore del cambiamento, capita a volte di raccogliere commenti come questo “Sai Davide, se non avessi letto il tuo libro non capirei cosa stai facendo qui da noi”, oppure “non capisco cosa facciano quelli di A-CCI, se poi tutto il lavoro dobbiamo farlo noi.”

Ma a qualcuno è andata anche peggio; un mio collega mi raccontava che suo figlio alla domanda “che lavoro fa tuo padre?” ha risposto “mio padre va in giro a licenziare la gente”.

Tempo fa un mio amico che lavora come responsabile amministrativo in una media azienda lombarda mi chiedeva “Davide, mi spieghi che lavoro fai? Cosa vuol dire che ti occupi di organizzazione, forse scrivi procedure o sviluppi programmi software? Davvero ti pagano solo per disegnare processi e o modificare organigrammi?”.

Insomma non è facile spiegare cosa significhi occuparsi di organizzazione, di cambiamento, tanto meno dire che ci si interessa di cultura ed evoluzione di sistemi complessi.

È chiaro quello che non facciamo, non redigiamo bilanci, non facciamo software, né ci occupiamo di formazione, o di marketing o di produzione. Apparentemente non produciamo alcun output significativo se non qualche foglio di carta (ma un Direttore IT mi mostrò una volta un armadio pieno di volumi dicendomi “vede, abbiamo degli armadi pieni di analisi di processo, ma cosa ce ne facciamo? E certamente non ne abbiamo bisogno di altre.”).

La nostra ambizione del resto non è quella di produrre analisi di processi o nuovi organigrammi, ma di far si che le cose accadano, ovvero che le persone modifichino i propri comportamenti e, in questo modo, aiutare le organizzazionicomplesse a cambiare. Ma quando poi il cambiamento si manifesta, ovvero quando si possono osservare modifiche nel sistema culturale e nei comportamenti delle persone,questo accade appunto alle organizzazioni e alle persone che vi operano, non a noi (o forse anche noi, ma loro, i clienti, non se ne accorgono). E, soprattutto, solitamente questo non è un fenomeno eclatante, né che accade in un istante, piuttosto una serie di piccole modificazioni, a volte difficilmente identificabili. Insomma anche quando riusciamo nel nostro lavoro non vi sono nessi così evidenti, almeno ad osservatori distratti o troppo concentrati su sé stessi, fra risultati e lavoro svolto.

Fornire stimoli, aiutare ad aumentare la consapevolezza, fornire feed-back, aiutare a leggere il cambiamento, evidenziareincongruenze e anelli retroattivi che portano a situazioni di stallo o a “giochi” frustranti, favorire una migliore lettura del sistema di relazioni; quelle elencate sono solo alcune delle nostre attività, ma hanno tutte in comune almeno un aspetto, sonoscomode,

Inoltre ammettere che l'aiuto ha portato a dei risultati implica una ammissione di bisogno di aiuto e una diminuzione del merito per il risultato raggiunto; questo naturalmente in una visione ristretta del cambiamento, visto come fenomeno meramente personale e come strumento di posizionamento nel sistema meritocratico, ma molto diffusa.

La relazione di aiuto richiederebbe una esplicita ammissione di stato di bisogno e di volontà di mettersi in gioco in prima persona, che molte volte non sono invece presenti (almeno non in modo esplicito) nel rapporto fra cliente e consulente. Quello che ci viene chiesto è infatti di disegnare processi, tenere corsi, definire analisi funzionali; che questo sia fatto per aiutare un processo di cambiamento è a volte implicito, a volte ritenuto superfluo da affermare; ma anche quando questo è chiaro, sono sempre gli altri che devono cambiare, i manager se l'intervento è richiesto dalla direzione generale, i collaboratori se l'intervento è sponsorizzato da un manager, oppure quelli dei sistemi informativi, o quelli ecc.

Quello che è veramente difficile far emergere è che il direttore generale che vorrebbe un cambiamento nei propri manager deve mettere in discussione sé stesso, e così i manager non possono aspettarsi che siano i collaboratori i primi a cambiare.

Questa consapevolezza è tutt'altro che diffusa e per nulla facile da vivere; è proprio questo è il nostro principale ostacolol che dobbiamo affrontare.

Recentemente mi è capitato il caso di un direttore generale, che stimo molto per quello che ha saputo fare nella sua vita professionale, che mi ha incaricato di aiutare i suoi manager a sfruttare l'occasione data dagli ingenti investimenti in innovazione informatica per provare a ripensare alle modalità di lavoro e alle modalità di implementazione della strategia di sviluppo del business. La prima risposta avuta dai manager in questione è stato “ ma quale strategia?”; in altre parole hanno rimandato al mittente l'invito al cambiamento.

Che dire di questi manager, che non sono in grado di capire il cambiamento in atto e che “fanno resistenza”? In parte è vero, ma è solo un aspetto. Sulla loro presa di posizione vi è una considerazione importante da fare; il cambiamento è come un ballo, è quindi per prima cosa si deve scendere in pista (non si può stare a lato pista a guardare). Inoltre richiede una serie di piccoli aggiustamenti reciproci per poter percorrere con leggerezza la pista, senza pestarsi i piedi e cadere; questi piccoli aggiustamenti reciproci richiedono apprendimento e richiedono disponibilità ad adattarsi alle specifiche caratteristiche dell'altro (gambe lunghe o corte, flessibilità, ecc.). La magia accade solo dopo aver trovato una profonda intesa e questo avviene solo dopo essersi conosciuti e dopo aver trovato una modalità di co-apprendimento efficace.

La cosa difficile nelle prime fasi del cambiamento è sviluppare questa consapevolezza, e cioè che il cambiamento deriva da una negoziazione e da mutuo adattamento. Non si possono quindi cambiare gli altri, al più partecipare ad un cambiamento dove anche noi (direttori generali e consulenti) siamo coinvolti. E, di conseguenza, non si può neppure gestire il cambiamento, semmai partecipare ed influenzare il processo di cambiamento che comunque in qualche modo avviene (anche se a volte non ne siamo consapevoli).

Un altro aspetto è che difficilmente si riesce da soli ad osservare i proprio comportamenti liberi da carica emotiva o da convincimenti di tipo fideistico; per questo serve qualcuno che possa “rifletterli”, operando ad un meta-livello (cioè non a livello di quello che succede sulla pista, ma di quello di osservatore), e aiutando ad aumentare consapevolezza sull'efficacia del proprio agire.

Questa relazione di aiuto è oggi generalmente accettata a livello individuale, pensiamo all'ormai diffuso utilizzo di analisti o di personal coach, mentre non lo è per nulla a livello organizzativo, dove il consulente è spesso chiamato a concentrarsi su aspetti più formali (e meno significativi per il cambiamento). Così non è normalmente accettato che si faccia notare al cliente che non servirà a nulla spendere centinaia di migliaia di euro per un software o per un'analisi dei processi se poi lui stesso non si mette in discussione e/o non si verifica la coerenza a livello di cultura aziendale.

Così finché produciamo modelli di processi, tabelle excell, project plan, i clienti capiscono e comprendono il lavoro che facciamo (o pensano di farlo), mentre quando facciamo domande, mettiamo in evidenza incoerenze, facciamo riflessioni sul modello di relazioni ci chiedono che cosa diavolo stiamo facendo.

La magia è quella, far si che le cose accadano, ma per raggiungere il nostro scopo dobbiamo a volte uscire dal mandato formale, porre domande scomode, “far lavorare” gli altri, ovvero fare cose per lo più incomprensibili e scomode e sentirsi dire “ma cosa state facendo qui?”.

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