BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 14/04/2008

LA PERSONA E IL CONTESTO: VERSO UNA VISIONE DEL CAMBIAMENTO COME EVOLUZIONE. PARTE TERZA

di Davide Storni

Sunto
Le due precedenti parti sono state pubblicate nelle settimane scorse. Nella terza parte proviamo a fare qualche passo in avanti nell’individuazione di possibili strategie evolutive

Molte volte ci capita, svolgendo il ruolo di gestori o fautori del cambiamento di sentirci frustrati; per quanti sforzi facciamo non riusciamo veramente ad incidere sulla realtà attorno a noi.
Qui possiamo attivare due strategie:

  1. è colpa degli altri: c’è un intero filone di libri sulla resistenza al cambiamento che ci spiega come le persone siano restie a cambiare. Peccato non ci spieghino perché in certi momenti cambiano, sarebbe più utile. Ma certo ci crea un alibi, se non vi è cambiamento è certo dovuto all’innata tendenza conservatrice delle persone.

Oppure le persone della nostra organizzazione non hanno motivazione, o non hanno le dovute competenze. Ci sarebbe da capire come una organizzazione sia riuscita a selezionare persone con competenze e/o motivazione al lavoro più basse della media della popolazione globale; non è facile. Se siamo consulenti poi viene anche più facile dare la colta a clienti che non sono in grado di capire quanto gli proponiamo.

  1. è colpa degli altri: le logiche di potere inficiano ogni tentativo di cambiare davvero l’organizzazione. Chi sta in alto non vuole veramente mettere in discussione le basi del proprio potere e quindi ci utilizza solo come belletto, senza però credere in quello che facciamo. Dal che i nostri sforzi vengono frustrati perché le persone sanno che non abbiamo vero potere e quindi se ne fregano di quello che diciamo.

È evidente che, per quanto fondate su elementi veramente esistenti, le due strategie non portano da nessuna parte. Inoltre il porre al di fuori di sé il controllo del proprio futuro non solo è frustrante, ma genera impotenza (1).
E qui torniamo al pezzo di apertura, alla storia dell’uomo che voleva cambiare il mondo.
La frustrazione che lui ha provato nei tentativi falliti è un po’ la nostra frustrazione. La soluzione che lui ha trovato può essere anche la nostra. Al posto di trovare elementi esogeni a cui rimandare la colpa dei nostri falliti tentativi di cambiare il mondo, possiamo fare un passo indietro e cominciare a pensare a noi.
E il primo passo consiste proprio del prendere coscienza di quanto la storiella ci insegna: non possiamo cambiare gli altri.
Quindi non possiamo motivarli, formarli, guidarli se questo comporta una modifica nella loro specificità, un processo di adattamento a modelli astratti e teorici, o di adattamento ad un contesto culturale. Non possiamo farlo senza esercitare una violenza sull’individuo e senza snaturarlo. In effetti la resistenza al cambiamento non è che la reazione a questa violenza. L’unica altra modalità di reazione è l’accondiscendenza, effetto che induce ad accettare in modo passivo quanto inculcato, pur di mantenere il quieto vivere e poter sopravvivere in un contesto che non ci permette di esprimerci per quello che siamo veramente. L’accondiscendenza è ancor più negativa della resistenza al cambiamento in quanto da l’impressione di aver ottenuto un successo, in quanto le persone si adeguano, al costo però di ottenere passività, mancanza di pro attività, riduzione dell’energia che le persone attivano e messa al bando dei cervelli. In sintesi obbedienza, non crescita delle persone (2).
Siamo dubbiosi e non crediamo a questo scenario? Già Peter Senge nella Quinta Disciplina cita un sondaggio che mostra come la stragrande maggioranza degli impiegati americani dichiari di essere accondiscendente, ma non realmente coinvolta nel lavoro. Ma possiamo fare un piccolo sondaggio anche noi, semplicemente chiedendo alle persone cosa fanno nel tempo libero, scoprendo magari che gestiscono o partecipano attivamente in corali, gruppi jazz, gruppi di volontariato, politica, (3) dimostrando un attivismo che non riscontriamo durante le ore lavorative. Questo significa che non sono le persone in sé il problema, ma il contesto in cui operano che di fatto le cambia (in peggio).
Lavorare su di noi può quindi significare l’abbandono dell’idea un po’ elitaria, un po’ velleitaria di voler cambiare gli altri. E magari cominciare in questo modo a cambiare il nostro modo di negoziare gli interventi nelle organizzazioni, chiedendo di poter operare anche sul contesto. Perché se è vero che non possiamo cambiare le persone, possiamo però, almeno in parte, cambiare il contesto. Possiamo farlo ogni volta che ci viene chiesto di operare come facilitatori del cambiamento, avviando una negoziazione con la committenza che parta dalla riflessione di cosa si intende per cambiamento e aiutare a costruire un sistema di regole che “consenta” il cambiamento. Resistenza e accondiscendenza nascono infatti dal confrontarsi con un insieme di regole che tende a limitare lo spazio espressivo delle persone.
Prendiamo ad esempio la motivazione: abbiamo detto che non possiamo motivare le persone, parafrasando Don Abbondio (4) possiamo dire che “se uno la motivazione non ce l’ha, non se la può dare”.  Tuttavia spesso vediamo che le persone tendono a mettere in gioco la propria energia, la propria motivazione in contesti diversi dall’organizzazione (quante volte ho sentito la frase “la mia vita è al di fuori di qua”), con l’ovvia considerazione che evidentemente hanno qualche cosa da mettere in gioco e che è il contesto che non permette loro di farlo. Se allora non possiamo motivare le persone, possiamo però aiutare la organizzazione a creare contesti in cui le persone possano mettere in gioco la propria motivazione o, detto in altro modo, creare contesti dove possano emergere le persone che hanno idee, voglia, energia, motivazione. Luoghi dove sia possibile ascoltare, dare feed.back e consentire la partecipazione reale delle persone.
Si tratta di passare da una logica di “induzione del cambiamento” ad una logica di “permettere il cambiamento” o meglio ancora uno dei molti cambiamenti possibili che non conosciamo ancora.
Oppure di passare da “cambiare le persone” a “lasciare che le persone cambino noi e l’organizzazione”.
Se accettiamo di cambiare noi, modificando il nostro modo di porci e lasciando da parte i nostri alibi, potremo forse riuscire, come il protagonista della storiella, a partecipare anceh ad un cambiamento più ampio, intorno a noi.


1 - È il concetto di internal locus of control: essere consapevoli di poter indirizzare, almeno in parte, la propria vita.

2 - È la situazione che in empowerment viene definita come powerlessness, ovvero mancanza di empowerment, di potere sul proprio destino.

3 - Cito questi esempi perché provenienti da casi reali che ho avuto modo di incontrare nel corso della mia attività di “gestore del cambiamento”

4 - Manzoni, I Promessi Sposi

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