BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 05/07/1999

Ripensare il Business Process Reengineering
Investire sugli uomini per cambiare i processi.
Oltre il BPR.

di Davide Storni

Riprendo alcune conclusioni dal mio precedente scritto "il BPR nelle compagnie di assicurazione" sulle quali intendo innestare alcune nuove riflessioni.

"Il BPR cambia i ruoli perché tende a ridurre la frammentazione e la specializzazione funzionale in favore di una aggregazione di compiti che consenta di gestire con maggior rapidità e efficacia il rapporto con il cliente. …….

Il BPR cambia i sistemi di delega e i rapporti capo subordinato: …..

Il BPR cambia le strutture, ….

Il BPR cambia le competenze necessarie a tutti i livelli dell’organizzazione. ..

Il BPR cambia i meccanismi operativi, ….. "

Queste considerazioni fanno emergere come la criticità del BPR sia in realtà il "dopo BPR".

La fase ingegneristica o di disegno è in fondo il momento più semplice, tanto da indurre alla presunzione di poter usufruire di modelli preconfezionati o best practices. Molto più impegnativo risulta il quadro se consideriamo anche i cambiamenti di ruolo, del sistema di delega, dei meccanismi operativi e soprattutto della cultura o delle culture aziendali.

Purtroppo questa complessità non si può evitare, pena una alta percentuale di mortalità dei progetti o un basso ritorno economico degli stessi. Si tende ad addebitare questi fenomeni alla così detta "resistenza al cambiamento", all’incapacità cioè delle persone a capire il cambiamento in atto e ad adeguarsi ad esso. Penso invece che sia oggi doverosa una riflessione e che si possa affermare che molte volte la incapacità a cambiare è un fenomeno indotto dalla incapacità degli stessi promotori, di noi promotori, del cambiamento a capire la portata e gli effetti dello stesso.

Due linee di indagine.

Si possono considerare due piani di indagine per comprendere (almeno un poco) questo fenomeno:

Complessità e approccio modalità di approccio alla conoscenza.

La nostra modalità razionale di affrontare i problemi è in realtà una modalità a razionalità limitata (H. Simon, "The architecture of Complexity", General Systems, 10, 1965) che risulta fortemente influenzata dalla nostra passata esperienza e dalla nostra cultura. Così noi ci basiamo su "si è sempre fatto così" o su "le best practices sono queste" o su "negli States si lavora così", ecc. cercando di ripercorrere vie già tracciate, perché meno faticose e perché presentano delle soluzioni note (o pia illusione). In realtà così facendo non facciamo che ripetere gli errori delle persone che si trovano sul lato opposto del processo di cambiamento e che spesso classifichiamo come "quelli che non capiscono che le cose stanno cambiando e vogliono mantenere i loro privilegi". Non che questa affermazione sia di per sé sbagliata, ma è il risultato di un processo di riduzione della complessità che ci induce a sostituire un "si è sempre fatto così" con un "altrove si fa così" , un modello culturale conservatore con un altro modello culturale che si rivela altrettanto conservatore in quanto non aperto a visioni e pareri "altri", dimenticando che è vero solamente quello che può essere dimostrato come falso e che quindi ogni modello non è che una verità parziale.

Proverò a spostare l’attenzione dal contesto aziendale ad altro contesto per spiegare questa mia affermazione attingendo alla letteratura antropologica che ritengo possa aiutarci a capire quanto una visione "moderna" possa essere altrettanto o ancor più parziale di una "antica" o "vecchia" e come la resistenza al cambiamento possa in realtà essere fondata su un razionale validissimo. (L’esempio è tratto da M. Harris, Pigs, Cows and witches).

L’amore degli Hindù per le vacche è solitamente visto da noi occidentali, anche da quelli che conoscono o ritengono di conoscere a fondo la realtà indiana, come un insensato legame con una tradizione che porta ad effettuare delle scelte sub-ottimali quando non scellerate e che impone all’India un freno clamoroso al proprio sviluppo economico.

Marvin Harris dimostra nel suo bellissimo libro quanto questa visione sia parziale e legata alla cultura di provenienza degli analisti. Di fatto la cultura delle vacche sacre è funzionale ad un’economia che si basa su piccoli appezzamenti di terra, sul lavoro animale (buoi e bufali), in un Paese senza altre fonti di energia accessibili e con unica alternativa l'inurbamento in città ormai sovraffollate e con enormi problemi igienici ed economici. Una volta viste le cose da vicino e senza i pregiudizi culturali che accompagnano ogni persona, anche l’osservatore più "oggettivo", la scelta di creare un tabù sull’uccisione delle vacche sembra assolutamente razionale rispetto ai fini di sopravvivenza delle popolazioni locali e di ottimizzazione dell’economia sostenibile in quel Paese. Per una spiegazione dettagliata rimando ad Harris.

Ma allora perché anche i meglio intenzionati osservatori hanno per secoli ritenuto che l’amore per le vacche fosse un retaggio del passato, un vincolo per lo sviluppo economico quando non una totale assurdità? Evidentemente le cose non sono così semplici come possono sembrare a osservatori occidentali, abituati a contesti culturali completamente diversi e a considerare pregiudizio e credenza tutto quello che non appare (immediatamente) razionale. La nostra cultura ci permette di "vedere la realtà" grazie a paradigmi e modelli che si sono sviluppati nel corso di secoli dimostrandosi efficaci rispetto al fine di mantenimento e sviluppo del gruppo culturale a cui apparteniamo.

Purtroppo questi paradigmi non sono efficaci per comprendere le realtà culturali sviluppatesi in altri contesti geografici, storici ed economici. Fungono da filtro, e ci permettono di vedere solo alcuni aspetti di una nuova realtà, quelli che il nostro modello culturale ci predispone a percepire.

La consapevolezza di questo fenomeno ci permette di recuperare un concetto di complessità molto spesso accantonato.

Ma perché la complessità viene spesso dimenticata?

Penso che una spiegazione sia legata alla necessità di mettere in gioco le proprie convinzioni e di "abbassarsi" sino al livello giusto per poter capire le culture che non ci appartengono (dei poveri, del terzo mondo, degli hindù o dei musulmani, ma anche di quelli della produzione o della filiale italiana, degli agenti, …); non è un caso che la riscoperta della complessità venga da discipline come la antropologia che fanno della indagine sul campo lo strumento di conoscenza e comprensione e che hanno da decenni ormai abbandonato l’idea di una conoscenza oggettiva. Di fatto l’antropologo accetta i propri limiti conoscitivi dovuti all’appartenenza ad una cultura "altra" rispetto a quella indagata e impara a convivere con essi, cercando comunque di avvicinarsi quanto più possibile alla cultura oggetto di indagine.

Paradossalmente e quasi in parallelo la riscoperta della complessità avviene per opera della fisica, scienza esatta per definizione, che di fronte a problemi apparentemente insolubili riscopre la necessità di un approccio non lineare e pluri paradigma (M. M. Waldrop; Complessità; Instar Libri).

Imparare dalla fisica, dalla antropologia o dalle nuove metafore (il Net in primo luogo) serve a evitare il rischio di riduzione del reale a pochi schemi, di credere troppo ai metodi salvifici e alle best practices, e consente di sviluppare nuovi paradigmi, nuovi stimoli per le persone che dovranno gestire il cambiamento.

Investire sugli uomini per cambiare i processi e l’organizzazione.

Questo ci introduce al secondo tema. Si ridefiniscono processi che sembrano logici, i migliori possibili; poi nascono resistenze e difficoltà che fanno naufragare i progetti.

Perché le persone non si adeguano al cambiamento?

Proviamo per un momento a ribaltare il quesito: perché il cambiamento non si adegua alle persone?.

Quando mi riferisco alle persone che operano in un’organizzazione tralascio volutamente quelle persone fortemente automotivate (i cosidetti alti potenziali) così come le persone irrimediabilmente contrarie a qualsiasi politica di gruppo e di collaborazione. Penso di poter affermare che questi due gruppi rappresentino una parte residuale nelle organizzazioni. Le altre, cioè le persone che potremmo definire medie rappresentano circa l’80% della popolazione aziendale stando ad una percentuale presentata ad un convegno (Il Reengineering delle Risorse Umane, Hay Group) e hanno skill più o meno elevate, aspettative normali e solitamente si rifanno a modelli culturali diffusi nell’organizzazione e che hanno rappresentato modelli vincenti nel passato.

Questi modelli e queste skill vengono messe in discussione dal cambiamento, soprattutto quando questo è radicale, tanto da produrre un comprensibile stato di ansia e di disorientamento.

Una corretta comunicazione delle finalità del cambiamento può ridurre l’ansia (1°: comunicare ), ma può dimostrarsi insufficiente in quanto anche se una persona sa esattamente dove l’azienda vuole andare può non avere le skill adatte o ritenere di non essere in grado di gestire la nuova situazione professionale.

Un altro elemento importante per gestire il cambiamento sarà quindi il fornire piani e strumenti per cambiare skill e per aiutare le persone nel processo di apprendimento e di attivazione di nuovi comportamenti. (2°: attivare un processo di apprendimento)

Oltre a comunicare e a supportare il processo di apprendimento delle persone si dovrà attivare un altro meccanismo: ricostruire il sistema di giochi all’interno della organizzazione. Riprendo questo concetto da un vecchio libro di Crozier e Friedberg (Attore sociale e sistemi, ETAS) per ribadire che se vogliamo attivare un comportamento positivo in una persona dovremo farle percepire le sue possibilità di vittoria, cioè chiarirle le regole del gioco che le permetteranno di attivare strategie e tattiche vincenti. Senza questo passaggio ulteriore il disorientamento e la perplessità rispetto al cambiamento rimarranno, per quanto bene noi potremo impostare piani di comunicazione e di crescita professionale. (3°: chiarire i meccanismi del gioco)

Ma per attivare un vero cambiamento è necessario fare un passo ulteriore.

Chi ha studiato i modelli culturali ha colto come questi siano sempre conservatori in quanto tendono a replicare un insieme di riti, miti, modi di agire, ovvero di regole che si sono dimostrate vincenti in un certo contesto ambientale.

Ciò che porta a cambiare non è quindi la cultura o l’imposizione di una nuova cultura (che per definizione è altrettanto conservativa), ma il desiderio, e l’opportunità.

Il desiderio nasce dal potere e alimenta il potere (inteso come capacità di fare, conoscenza, possibilità di scelta, responsabilità).

L’opportunità nasce o da fattori ambientali a volte del tutto casuali, o da un processo di costruzione, di strutturazione dei giochi (sistema di valutazione e ricompensa, di delega, rapporti capo-subordinato, …).

Le strategie di stimolo all’apprendimento e di costruzione dei nuovi giochi devono centrarsi sullo stimolo della funzione desiderante (a livello individuale e di gruppo sociale) e mirare alla costruzione di opportunità visibili. (4°: desiderio e opportunità)

1° comunicare con chiarezza il quadro di riferimento (competizione, mercato, obiettivi aziendali, vision,…);

2° attivare processi di apprendimento;

3° chiarire i meccanismi del gioco inteso come insieme di regole esplicite o implicite che determinano la possibilità di vittoria e di sconfitta all’interno del sistema organizzativo e sociale;

4° stimolare il desiderio e la costruzione di nuove opportunità.

Questi quattro passi guidano il sistema organizzativo verso una cambiamento effettivo e limitano i costi personali e sociali del cambiamento stesso.

I primi tre passi possono ancora essere inseriti in un processo di cambiamento tradizionale (anche se raramente si parla esplicitamente di potere e di giochi) che preveda cioè il passaggio da una situazione attuale ad una situazione futura già definita nei suoi elementi.

Il quarto passo rappresenta qualcosa in più. Non si parla più di cambiamento inteso solamente come passaggio da uno stato ad un altro stato, ma di processo evolutivo, di gioco creativo del quale non si conosce il risultato finale.

E’ un processo di empowerment individuale e di gruppo nel quale gli individui sono gli

attori del cambiamento, pensano, rendono possibile e realizzano il cambiamento, vincendo l’inerzia delle culture, creando nuovi modelli.

Lavorare sulle persone per cambiare i processi significa stimolare la capacità desiderante e impostare una corretta strutturazione dei giochi per stimolare la nascita di nuove idee e l’attivazione di comportamenti funzionali all’apprendimento e all’innovazione, premesse e nel contempo elementi abilitanti del cambiamento.

Apprendere ad apprendere e rendere le nuove idee utilizzabili per i fini istituzionali dell’organizzazione attraverso una corretta strutturazione dei giochi. Questi sono a mio avviso i due elementi che permettono di intervenire sulle persone per cambiare i processi.

E sono due elementi sconvolgenti in quanto richiedono sistemi di controllo completamente nuovi (non più project management, ma empowerment e definizione dei limiti di contesto) e mettono continuamente in discussione l’assetto organizzativo e culturale dell’organizzazione.

Il processo di empowement consente di aumentare la consapevolezza delle persone sulle proprie capacità, di aumentare la capacità di utilizzo delle risorse (nell’empowerment di da grande importanza all’informazione), di stimolare l’attivazione di comportamenti proattivi, e soprattutto agisce stimolando la funzione desiderante degli individui e dei gruppi ("Ma ho capito tardi da che parte bisognava andare: dalla parte dei desideri. Uno si aspetta che siano altre cose a salvare la gente: il dovere, l’onestà, essere buoni, essere giusti. No, sono i desideri che salvano. Sono l’unica cosa vera." Ann Deverià in Oceano Mare di Baricco).

La metafora dei giochi consente di impostare un sistema a somma maggiore di zero, fatto di regole (i limiti o, visti da un altro lato, le condizioni di vita dell’organizzazione) e di poste in palio, un sistema che consenta ai desideri di realizzarsi.

Ma è possibile ricondurre questa prospettiva ad una realtà organizzata con finalità economiche qual è l’impresa?

Ha senso parlare di desideri li dove hanno sempre imperato le regole e i piani?

Certamente sì. Ogni realtà organizzata richiede regole e limiti, ma i limiti possono indirizzare l’apprendimento, le regole essere concepite per organizzare dei giochi a somma maggiore di zero, per premiare la crescita personale e lo sviluppo di nuove idee, purché indirizzate alla finalità economica e istituzionale dell’organizzazione. E’ importante però che le regole e i limiti siano continuamente rimessi in discussione, reinventati per non soffocare la creatività e il desiderio. A me piace parlare di limiti istituzionali intendendo con ciò che gli unici limiti che devono (tendenzialmente) rimanere fissi sono le finalità per cui un’organizzazione esiste e le regole di convivenza dei singoli nell’organizzazione. La finalità economica in un’azienda è imprescindibile e nelle regole del gioco si deve prevedere che la creatività sia indirizzata verso questa finalità. Rimane un certo tasso di ambiguità, tuttavia passare da regole prescrittive tipiche delle realtà organizzate a regole delimitative rappresenta un grosso passo avanti verso la creazione di sistemi evolutivi. Del resto anche l’evoluzione naturale ha delle leggi e dei limiti, ma questo non ha impedito un processo creativo che in un arco temporale relativamente breve ha generato una varietà incredibile di forme viventi.

Possiamo affermare che in ogni realtà organizzata vi sono delle capacità inespresse e umiliate dal centralismo, dalla ripetitività, da una realtà sociale volta al raggiungimento dell’efficienza e non alla creatività, e vi sono desideri soffocati e a volte relegati nell’inconscio, capacità e desideri che l’empowerment può stimolare e ravvivare, consentendo una loro rivalutazione anche organizzativa oltre che personale.

Un piccolo esempio di empowerment organizzativo è il seguente.

L’introduzione di un nuovo sistema informativo e la fusione di due culture organizzative avevano spinto la compagnia dove lavoravo a investire in formazione sulle persone addette alla sistemazione degli errori di polizza e di gestione del portafoglio. Gli scarsi risultati e le lamentele degli addetti che si dichiaravano non pronti per lavorare sul nuovo sistema ci indussero ad approfondire l’indagine, saltando il livello dei capi e riunendo una rappresentanza di persone direttamente coinvolte nell’attività.

Al posto di dar loro altra formazione offrimmo loro un tempo ed un luogo per analizzare i problemi, e ulteriore tempo per mettere in comune le conoscenze (che esistevano), confrontarle e definire delle modalità corrette di gestione.

La nostra azione di sponsorship di concretizzò nel mettere a loro disposizione il tempo necessario all’attività e le informazioni richieste (ad es. tramite il supporto di persone dei sistemi informativi). Il lavoro del gruppo si tramutò in un manuale fortemente condiviso e fatto ad uso delle necessità di chi doveva poi lavorare sugli errori. In una seconda fase chiedemmo alle persone del gruppo, non senza un minimo di sorpresa e perplessità da parte loro, di prendersi l’incarico di trasmettere ai colleghi che non avevano partecipato al progetto le conoscenze e le metodologie condivise.

Il risultato fu un deciso aumento nella qualità del lavoro svolto, la fine delle lamentele sul nuovo sistema informativo, un sostanziale miglioramento negli indicatori di performance (numero errori, anzianità, importo,…).

In tutto il processo il nostro ruolo consistette nello stimolare il desiderio (di lavorare meglio e con un po’ di senso) e di fornire risorse (tempo, informazioni) oltre naturalmente alla definizione delle finalità e dei vincoli posti al gruppo.

La crescita di consapevolezza e il miglioramento dei risultati operativi stupirono anche i più scettici e ci spinsero a pensare e realizzare nuove soluzioni organizzative per i reparti coinvolti nel progetto. Si trattò quindi anche di un processo riflessivo, di una crescita di consapevolezza nel gruppo come negli sponsor.

Conclusioni.

Intervenire sulle capacitò, sulle competenze, sui desideri delle persone per cambiare i processi e l’organizzazione non solo è possibile, ma auspicabile, in quanto innesca un processo virtuoso di aumento della consapevolezza e della capacità di sfruttare e accrescere le competenze esistenti.

Il sistema organizzativo impara ad apprendere e nasce un processo evolutivo.

Una corretta strutturazione dei giochi consente di non bloccare questo processo evolutivo pur indirizzandolo verso il raggiungimento dei fini istituzionali dell’organizzazione.

Nota: sono debitore del concetto di empowerment a Massimo Bruscaglioni, amico e maieuta prezioso.

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