BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 16/11/2009

UN MESSAGGIO DI SPERANZA

di Davide Storni

16 agosto, ho appena completato una marcia non competitiva da Riva Trigoso a Sestri Levante e ritorno passando dal promontorio di Punta Manara. Chissà poi perchè le chiamano non competitive, pronti via e tutti si sono messi a correre come matti.
Alla fine 109° su oltre 250 iscritti, 1h e 32 minuti, ma avrei potuto metterci molto meno se non avessi avuto una aritmia all’inizio della salita per Punta Manara che mi ha obbligato a stare fermo per circa 10 minuti in attesa che il cuore riprendesse a fare il bravo.
Beh, direte voi, e con ciò, non mi sembra poi una prestazione eccezionale. Vero, se non fosse che io non dovrei correre o meglio non dovrei essere in grado di farlo, almeno secondo i medici.
Ma torniamo un attimo indietro, a circa due anni prima: “dottore da circa due mesi ho un forte dolore a questo braccio che mi si è progressivamente bloccato, come può vedere. Non ricordo di avere subito traumi, nè fatto movimenti tali da potermi causare questo. Però deve sapere che io soffro di spondilite anchilosante o artrite spondilo-anchilosante, se preferisce. La diagnosi mi fu fatta quando avevo 29 anni e da allora convivo con questo problema che mi ha causato negli anni non poco dolore.”
Il dottore: “guardi che non è possibile che lei abbia la spondilite. Vede quelli che hanno la spondilite non riescono a piegarsi come fa lei, e non hanno il suo aspetto; sono spesso gobbi, con fisici che tradiscono un forte irrigidimento alla ricerca di posizioni antalgiche e con una muscolatura piuttosto ridotta. Lei, a parte il braccio bloccato, riesce a muoversi con disinvoltura, piegarsi, corre, scia, … no direi che non è proprio possibile, rifacciamo gli esami.”
Come mi aspettavo gli esami hanno confermato la diagnosi iniziale, spondilite. Invece la mia storia non ha confermato le pessimistiche previsioni dei medici. Già 20 anni fa mi dissero che progressivamente non sarei più riuscito a fare attività sportiva, che avrei dovuto entrare in un ciclo di terapia, eccetera. Più o meno le stesse cose delle dal medico incontrato due anni fa.
Il fatto è che io vent’anni fa uscii dall’ospedale dove ero ricoverato in day hospital, me ne andai a casa e presi la mia mountain bike per andarmene a fare un giro nei boschi vicino a casa. E da allora ho continuato. Certo ci sono stati momenti difficili, e ho dovuto faticare molto per trovare la giusta attività fisica da fare. Nei primi anni il degrado fisico sembrava inarrestabile, poi grazie al tai chi chuan, a un po’ di yoga e a tanta costanza, son riuscito a riacquistare progressivamente una buona capacità motoria.

Oggi mi sono deciso a parlare, per la prima volta, della mia malattia e di questi 20 anni  di lotta perché spero che altre persone con i miei stessi problemi possano leggere queste mie righe e trovarvi un messaggio di speranza.

Il decorso della malattia
Inizialmente si trattava solo di lievi dolori alle anche e al bacino. L’osteopata da cui ero in cura per un problema di discopatia derivante dalla mia precedente attività sportiva mi disse un giorno che non capiva il persistere di questi dolori e di provare a fare un test. Mio padre, che era un bravo medico, si infuriò quando vide la richiesta dell’osteopata, ma poi gli esami confermarono l’ipotesi.
Negli anni seguenti si susseguirono attacchi dolorosi di intensità notevole; nel giro di due o tre ore il dolore raggiungeva l’apice, rendendomi incapace anche di fare i più semplici movimenti. In quegli anni giravo sempre con una scorta di voltaren e qualche fiala di cortisone, l’unica cosa che riusciva a bloccare questi attacchi. L’infermiera della Milano assicurazioni, azienda in cui lavoravo negli anni 90, quando mi vedeva arrivare preparava la siringa e il lettino dove farmi riposare in attesa che il cortisone producesse i suoi effetti.
Dopo l’attacco servivano 2 o 3 giorni per potermi rimettere a posto completamente, ma il cortisone mi permetteva comunque di muovermi già dopo poche ore.
Dopo una decina di anni di attacchi durante i quali il decorso della malattia era costante ho notato un cambiamento nella sintomatologia: gli attacchi cominciarono a diradarsi, l’intensità del dolore a calare un po’, in compenso gli attacchi duravano più a lungo, solitamente più di una settimana. Negli ultimi anni hanno cominciato a manifestarsi attacchi più subdoli, che si manifestano lentamente, nel corso di settimane, portandomi però ad un progressivo blocco di un’articolazione o di un arto, o all’atrofia di un muscolo come successe due anni fa con il braccio sinistro. In quell’occasione è stato necessario intervenire con cure di cortisone più prolungate, tre iniezioni direttamente nell’articolazione colpita seguite da un lungo periodo di voltaren (4 mesi, una pastiglia al giorno, salvo nei casi di intensificazione dei sintomi).
E naturalmente riabilitazione fisica con l’aiuto di una esperta di shiatsu e di un’osteopata. Passato il dolore è infatti fondamentale riuscire a ritrovare la mobilità dell’arto o della articolazione colpita.

La mia scelta
Sono convinto che le cure con medicinali siano solo sintomatiche. Certo togliere il dolore è fondamentale per poter ricominciare a lavorare sul proprio corpo, ma se mi fossi limitato ai medicinali probabilmente sarei esattamente nella condizione illustratami dai medici, ovvero una persona con gravi handicap fisici.
La mia scelta è stata diversa, continuare a tenermi in esercizio anche se sapevo che questo avrebbe comportato dover sopportare maggior dolore. Infatti il movimento inizialmente accentua il dolore e solo dopo mesi o anni di esercizio si manifesta un miglioramento percepibile. Tuttavia solo attraverso il movimento costante è possibile garantirsi una vita quasi normale.
Si ma quale movimento? inizialmente mi sono affidato alle indicazione dei medici e mi sono recato presso un centro di riabilitazione in un ospedale, ma ben presto mi sono accorto che l’attività fisica che mi proponevano non era specifica e mi causava eccessivi problemi. Così ho cominciato una mia personale ricerca che mi ha portato, dopo alcuni anni, ad incontrare il Tai Chi Chuan e in genere le discipline orientali che propongono una ginnastica più dolce e meno traumatica della nostra. Da allora, cioè da più di 15 anni io ogni mattina pratico il “saluto al sole” e altri esercizi di yoga e Tai Chi ed è grazie a questo esercizio costante che anno dopo anno sono riuscito a recuperare almeno in parte la mobilità degli arti e una qualità di vita accettabile. Per darvi un’idea di quello che intendo vi racconto che quando nacque mio figlio, ora quindicenne, io ero a malapena in grado di portarlo in braccio e comunque quando lo facevo soffrivo e dovevo posarlo dopo pochi minuti. Oggi riesco ad andare con lui a correre e in mountain bike, a nuotare e a camminare in montagna, sia pur dovendo convivere quotidianamente con un certo livello di dolore.  Per oltre 10 anni non sono riuscito a correre perchè la rigidità del bacino mi provocava forti dolori agli arti, in particolare alle ginocchia. Come ho detto nell’introduzione oggi corro con una discreta regolarità anche in salita e su sterrato.
E’ per questo l’aver corso la “non competitiva” dello scorso 16 agosto, su sollecitazione di mio figlio, è stato per me un successo.
L’effetto dell’esercizio quotidiano, la scelta di metodi non basati sull’armonia, come il Tai chi, l’aver incontrato dei maestri bravi e pazienti sono stati passaggi fondamentali per garantirmi il mantenimento di un livello accettabile di mobilità.
Non voglio illudere, la spondilite non passa,  il dolore neppure. Però in questo modo ho potuto continuare a svolgere il mio lavoro con regolarità, stare al fianco dei miei figli, condurre in breve una vita “quasi” normale.

Psicologia e dolore
Il dolore quotidiano è un’esperienza difficile da descrivere. Ed è un’esperienza a diverse facce; la prima, la più semplice è il dolore stesso, il male a volte insopportabile, irritante, inabilitante, sfinente a seconda delle forme in cui si manifesta.
La seconda è più sottile: il dolore ti limita, ti esclude degli orizzonti, ti riduce la libertà. Quante volte davanti ad una possibilità mi sono accorto di rinunciare a causa della consapevolezza dei limiti che il dolore o più in generale la malattia mi portavano. Sport non praticati, scelte di vita e di lavoro condizionate, sogni negati. La paura di non farcela ti porta ad autolimitarti, a precluderti anche solo la possibilità di lanciarti in nuove imprese e di vivere nuove avventure.
Poi vi è la consapevolezza della impossibilità della guarigione. Quando ci si rende conto di avere una malattia da cui non potrai guarire e che sai che sarà tua compagna per la vita, allora ti trovi a doverti confrontare con il decadimento, l’invecchiamento precoce, la percezione della morte. Anche se la tua malattia non porta di per sé alla morte, la consapevolezza della precarietà della salute e della vita stessa sono decisamente più marcate che per una persone “normale”.
Un ulteriore aspetto è il “peso” del dolore, ovvero il logoramento dovuto alla quotidiana lotta con esso (ad esempio i dolori che ti svegliano alle 4 ogni mattina, per anni), all’impatto psicologico del dolore stesso e ai farmaci che sei costretto a prendere. Il livello della tua energia vitale cala, ti senti sfinito dopo esercizi fisici che sono la normalità per altri (un semplice viaggio in macchina si trasforma un una tortura quando i crampi ti attraversano la schiena o hai un braccio bloccato dal dolore), non riesci mai a riposare adeguatamente e a ricaricarti, la tua capacità di concentrazione e attenzione risultano compromesse.

Gli aspetti psicologici del dolore ti rovinano la vita almeno quanto il dolore stesso
La consapevolezza del limite porta alla demotivazione e all’autolimitazione, alimentando un ricircolo negativo (loop) molto pericoloso, che facilmente sfocia in depressione. 
La mancanza di energia a sua volta ti mette in posizione di svantaggio competitivo rispetto alle persone con le quali di confronti quotidianamente, riducendo la self-efficacy (ovvero la consapevolezza della propria efficacia) e la speranzosità (hopefulness) riguardo al futuro.
L’entropia generata dal dolore esplica la sua funzione attraverso un doppio feed-back negativo per cui l’aspetto fisico tende a compromettere la dimensione psicologia e la dimensione psicologica negativa tende a ridurre la funzionalità fisica, innescando una spirale perversa che la dipendenza da farmaci può solo rafforzare.
Qui subentra la capacità organizzativa, che è la sola forza che può contrastare efficacemente l’entropia dovuta al doppio feed-back negativo. L’organizzazione, meglio ancora l’auto-organizzazione, significa capacità di leggere i sintomi che il nostro corpo ci trasmette, imparando a discernere fra dolore e dolore e ad identificare il percorso di trattamento più opportuno. Significa anche capacità di definire un percorso di miglioramento personale che identifichi sia aspetti fisici (esercizio costante scegliendo le più opportune metodologie) sia aspetti psicologici (capacità di leggere le dinamiche e individuare percorsi atti a fronteggiare gli aspetti negativi del dolore).
Certo non basta decidere di fare mezz’ora di esercizio tutte le mattine per poter superare una limitazione grave come la spondilite anchilosante, tuttavia esso rappresenta un segno importante, il riaffermare che non si intende arrendersi.
A volte è molto difficile, quando sei nel letto pieno di dolori ti chiedi chi te lo fa fare di alzarti mezz’ora prima e di metterti a fare degli stupidi esercizi che avranno come primo effetto di aumentarti il dolore. Il segreto è non porsi questa domanda, è farlo e basta, ogni giorno, magari solo 5 minuti quando proprio non ce la si fa, ma farlo.
Ho potuto constatare come bastino pochi giorni senza esercizio per notare immediatamente un degrado delle funzioni fisiche (irrigidimento, dolori, posizioni scorrette).
Sono convinto che pochi mesi di rilassatezza e mancanza di esercizio potrebbero portarmi molto vicino all’immagine, dipintami dai dottori, di una persona che anche visivamente soffre e manifesta la sua sofferenza. Invece posso dire che chi mi incontra non sia in grado di percepire il mio limite, neppure i dottori (neanche quello che ho citato che pure è molto bravo e preparato e mi ha poi curato bene). Recentemente sono stato invitato a partecipare a una partita di rugby da parte di ex giocatori; purtroppo ho dovuto declinare l’invito perché anche conoscere i propri limiti fa parte della capacità auto-organizzativa, ma già il fatto che mi invitassero, evidentemente giudicandomi in forma dal mio aspetto fisico, mi ha dato soddisfazione.
Il messaggio di speranza che voglio trasmettere è che anche nel caso di malattie invalidanti come la spondilite anchilosante è possibile attraverso l’esercizio costante e la conoscenza di sé stessi arrivare a vivere una vita quasi normale. Solo facendo un po’ più di fatica.

Pagina precedente

Indice dei contributi