BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 22/02/2010

COACHING ORGANIZZATIVO: ANDARE OLTRE I LIMITI DELLA FORMAZIONE (E DELLA CONSULENZA)

di Davide Storni

Premessa: formazione e consulenza, sono un costo o un investimento?
Nei periodi di crisi come quello che stiamo attraversando attualmente è regola tagliare le spese variabili dovute a consulenze e formazione. Ed è un paradosso, perché proprio nei momenti di crisi le aziende hanno più bisogno di aumentare il proprio capitale intellettuale, riorientare e motivare i propri collaboratori, aggiornare il know-how tecnico e manageriale. Inoltre, se la consulenza serve per realizzare ristrutturazioni e aumentare l’efficienza, proprio in questi momenti le aziende dovrebbero ricorrere maggiormente ad un aiuto esterno che le aiuti a modificare il proprio modello organizzativo per far fronte alla crisi. Però tagliare questi costi è facile, così nei momenti di crisi la prima risposta è sempre la stessa, basta consulenza, basta formazione.
Possiamo ora discutere sull’efficacia o meno di queste decisioni, oppure prenderne atto e chiederci cosa possiamo fare noi, che di consulenza e formazione facciamo un mestiere, per provare a fornire una risposta a questo apparente paradosso.
E la risposta può essere solo quella di ripensare il nostro modo di porci nei confronti delle aziende. Del resto l’unica cosa che possiamo cambiare è noi stessi, quindi da li partiamo.
La prima considerazione riguarda la percezione di efficacia degli interventi di consulenza e formazione: se nei momenti di crisi le aziende riescono a fare a meno di questi supporti, significa che in fondo non li ritengono determinanti per la loro capacità di sopravvivenza. La formazione viene spesso considerata un lusso. La consulenza viene molto utilizzata nei momenti di crescita o di fusioni/acquisizioni, ovvero quando esiste un’abbondanza di risorse economiche e una certa scarsità di risorse manageriali. Quindi possiamo far rientrare anche la consulenza nella categoria “nice to have” ovvero lusso.
Seconda considerazione: chi si occupa da anni come me di cambiamento dei sistemi complessi sa che invece è proprio nei momenti di crisi che servono nuove competenze e nuove visioni/idee/energie e che spesso questi elementi non possono essere trovati nell’ambito del sistema cultural-organizzativo esistente. Stimolare l’apprendimento e il ripensamento del sistema non sono affatto dei lussi, ma la base per dare nuova vita alle aziende. Però in questo ragionamento vi è un limite: è difficile stabilire un legame fra intervento e risultato, far capire il “return on investment” dei soldi spesi in consulenza e formazione. In mancanza di questa evidenza è naturale che le aziende taglino l’incerto, soprattutto se costoso.
Ora per anni ho assistito e partecipato a discussioni sulla valutazione dell’intervento di formazione, ma l’unica valutazione accettabile da un punto di vista del manager-impreditore è vedere un impatto sui propri conti economici, o su parametri oggettivi (tempi di risposta al cliente, tempi di sviluppo prodotti, ecc.).
In consulenza è più facile effettuare un calcolo del ritorno economico dell’investimento anche se raramente ho visto farlo (forse perché molto spesso questo ritorno non c’è?).
La difficoltà insita nella formazione dipende dal fatto che per lo più si interviene su aspetti “soft” ovvero sulle competenze comportamental-relazionali e l’impatto sul risultato finale è quindi mediato dall’interpretazione di quanto appreso da parte dei partecipanti e dalla decisione di utilizzarlo nel proprio quotidiano. In altre parole noi aiutiamo le persone, ma sono poi loro a portare o non portare risultati. Tuttavia se il processo di valutazione dell’efficacia di un intervento formativo fosse abbastanza lungo, avremmo la possibilità di verificare i reali cambiamenti nei comportamenti delle persone e l’impatto di questo cambiamento sui risultati aziendali. Il limite è quindi legato alle modalità di acquisto e valutazione degli interventi formativi più che intrinseco nel processo di apprendimento e utilizzo di nuovo know-how. Va aggiunto che la sempre maggior specializzazione degli interventi formativi ha, oltre che dei vantaggi evidenti legati alla qualità e all’originalità dei contenuti, anche lo svantaggio di una sempre maggior frammentazione e distanza dalla sfera dell’operatività e quindi dalla catena di produzione del valore. Facile di conseguenza vederla come lusso e non come elemento essenziale di miglioramento operativo.
Un importante fenomeno degli ultimi anni è stata la diffusione del coaching e di forme assimilabili come il self empowerment che hanno avuto il merito di seguire la strada della sperimentazione e dell’affiancamento. In questo modo il processo di apprendimento ha dei legami più significativi con la vita professionale sia perché ha un orizzonte temporale più lungo, sia perché si lavora non su concetti astratti o su modelli teorici, ma sulle problematiche quotidiane dell’assistito. Il limite che spesso si vede nel coaching è legato alla formazione dei coach, solitamente competenti in psicologia, ma molto distanti dalle problematiche vissute dai propri assistiti, il che rappresenta sia un vantaggio che uno svantaggio.

Ripartendo da una visione allargata dell’organizzazione, vista come sistema socio-tecnico con finalità economiche, dove la dimensione sociale è parte sostanziale e qualificante del sistema almeno quanto la dimensione tecnologica, possiamo tentare di trovare una sintesi che ci permetta di uscire dalla situazione di stallo descritta.
In primo luogo l’attenzione alle persone e alle competenze è fondamentale per lo sviluppo di lungo periodo del sistema stesso, perché la base competitiva futura di ogni azienda non è vincolata e determinata all’attuale mix di prodotti e mercati, ma legata alla capacità di sviluppare nuove idee relativamente ai futuri prodotti e mercati e alla capacità di migliorare costantemente la propria efficienza ed efficacia nel servire i clienti. Queste capacità vanno a formare il capitale intellettuale di un’azienda e rappresentano una parte consistente del complessivo capitale della stessa (in alcuni casi ne rappresentano la parte predominante). Sviluppare questo capitale è il solo modo per guadagnare in competitività e per consentire uno sviluppo fisiologico del sistema impresa e non può quindi essere un tema da trattare solo su un tavolo specialistico (addetti alla formazione) o saltuariamente. Il processo di apprendimento che rappresenta il principale mezzo per aumentare il capitale intellettuale di un’azienda richiede continua attenzione, attenta pianificazione e strutturazione; essendo un processo vitale per l’azienda può e deve essere gestito come un processo strategico.
Oltre al capitale intellettuale vi è un altro investimento fondamentale, anche se raramente quantificato nei bilanci, per le aziende che vogliono competere oggi e domani, il modello organizzativo ed in particolare il modello dei processi. Nella letteratura si possono trovare diversi casi di aziende che hanno fondato la propria supremazia competitiva sui processi, prima fra tutte Toyota con il suo famoso TPS (Toyota production system).
L’aspetto “economico” dei sistemi che stiamo analizzando implica però che anche chi opera per incrementare il capitale intellettuale e organizzativo dell’azienda debba confrontarsi con costi e ricavi e qui il passo da fare, sia che si lavori internamente alle aziende o in consulenza, è ancora tutto da definire. In particolare chi opera a supporto delle aziende dovrebbe ricordarsi che consulenza e formazione non sono “per definizione” investimenti, lo diventano solo quando riescono ad incidere veramente sui risultati economici dell’azienda.

Una possibile risposta: il coaching organizzativo
Convinto dell’idea che non si possano cambiare gli altri, ma solo se stessi, ed è quindi inutile lagnarsi della scarsa attenzione che le aziende pongono alla valorizzazione del proprio capitale intellettuale e organizzativo, ho provato, prima come responsabile dell’Organizzazione e della Formazione e poi come consulente, a pensare ad un approccio che consentisse di mantenere forti i legami con il business e quindi con i risultati economici dell’azienda. Fin dalla mia tesi di laurea sono sempre stato convinto che l’innovazione e la capacità competitiva dell’azienda dipendessero dalle persone e dalla qualità delle relazioni che si riescono a stabilire fra il leader di un’organizzazione e i suoi collaboratori. Mi sono però reso conto che questa convinzione rischiava di rimanere vuota, mero auspicio o, peggio, frase scontata, se non si riusciva a stabilire una chiara connessione fra azione e risultato. E questa connessione è sempre stata difficile da riscontrare nelle realtà che ho conosciuto (e sono molte ormai).
Per cercare di andare oltre a questa situazione di stallo ho cercato di identificare alcuni principi guida che qui riassumo:

  1. rimanere vicini al business, ovvero mantenere un contatto forte con le esigenze della linea produttiva o di servizio, cioè alle strutture deputate alla creazione di valore per il cliente finale (e come conseguenza per tutti i portatori di interesse - stakeholders);
  2. cercare di stabilire una connessione fra intervento e risultati dello stesso, valutando questi in termini di impatto sui risultati del cliente interno che acquista il servizio di formazione e consulenza;
  3. pensare alla formazione come parte ci un più ampio processo di sviluppo della conoscenza e non come fatto specialistico di erogazione di nozioni, ricordando che detto processo è già in atto prima dell’intervento formativo e che continuerà anche dopo, e che la qualità dell’output di questo processo è dipendente dal modello culturale e organizzativo di un certo sistema, non solamente dalla qualità dell’insegnamento;
  4. enfatizzare la sperimentazione come momento di verifica immediata dell’efficacia dell’intervento di formazione e/o consulenza;
  5. andare a vedere sul campo cosa succede ovvero essere vicini al problema e alle persone che lo vivono (Taiichi Ohno, inventore del Toyota production system, ha sintetizzato bene questo punto con la sua famosa frase “go and see, ask why and show respect”);
  6. stimolare la partecipazione delle persone, non come mera presenza, ma come reale contribuzione di idee. La partecipazione favorisce lo sviluppo di consapevolezza su problemi e su possibili soluzioni e riduce fortemente la resistenza al cambiamento. Partendo dalla mia esperienza posso affermare che è meglio identificare un percorso di cambiamento condiviso anche se non ottimale, piuttosto che un percorso ottimale (sulla carta), ma non condiviso.

Partendo da questi principi, che ho sviluppato sulla base delle esperienze maturate sul campo nel corso degli anni, ho elaborato un approccio che si pone a metà strada fra la formazione e la consulenza (1) e che mira a sviluppare la capacità di cambiamento del sistema attraverso una adeguato mix di coinvolgimento, formazione, affiancamento e sperimentazione, e che ho chiamato “coaching organizzativo”.
Avrei potuto chiamarlo anche empowerment organizzativo, perchè in effetti questo tipo di intervento tende ad allargare il ventaglio di possibilità operative delle persone e dei gruppi, favorendo nel contempo una maggiore libertà e responsabilità.
Non voglio qui entrare in dissertazioni sulle differenze fra coaching, counselling, empowerment. A volte nei miei interventi utilizzo strumenti di empowerment, a volte strumenti di coaching. Mi pare che coaching organizzativo descriva meglio il rapporto fra il consulente e il team; come nello sport, il coach è un facilitatore che aiuta il team nel suo complesso e ogni suo membro a sviluppare consapevolezza rispetto alla propria capacità di competere e raggiungere certi risultati. Seguendo da vicino il rugby a causa di mio figlio, l’analogia con il gioco di team di cui questo sport è l’emblema mi risulta facile. Il coach lavora sulla tecnica, insegnando a placcare, a gestire una touche o ad essere efficaci nella mischia. Però è molto importante anche il lavoro di individuazione delle potenzialità dei singoli e di supporto individualizzato. Soprattutto a livello di squadre giovanili, ogni giocatore ha necessità di un confronto costante con qualcuno che lo aiuti a capire in cosa sbaglia e quali capacità può sviluppare. Più un coach lavora sul manifestarsi dei desideri e delle potenzialità del giovane, e meno impone scelte, maggiori saranno i risultati ottenuti. Tuttavia sarà importante anche porre dei limiti e dare feed-back immediati e sinceri. Un terzo elemento consiste nell’insegnare al gruppo cosa vuol dire essere gruppo: nel rugby non esiste la possibilità di vincere da soli, né possono esistere prime donne; tutti devono dare supporto al compagno, placcare, sacrificarsi: il team che vince è quello dove i singoli lavorano all’unisono, come un unico organismo sovra-individuale (uno sciame?), e questa è un’altra caratteristica sulla quale il coach può e deve operare.
Analogamente il coaching organizzativo opera sulle tecniche di miglioramento organizzativo, sul funzionamento del team e sui singoli membri dello stesso, anche se quest’ultimo aspetto assume un’importanza secondaria essendo il focus più sui risultati operativi.
Penso che la differenza principale rispetto al coaching consiste proprio sul focus dato ad un obiettivo di miglioramento organizzativo (processi: costi, tempi, qualità, ...), mentre la dimensione personal-relazionale è sviluppata solo come meta-livello, in funzione del raggiungimento dell’obiettivo primario. In altre parole, l’obiettivo primario consiste nel migliorare un certo processo, garantendo maggior efficienza o un miglior livello di servizio al cliente; questi obiettivi si raggiungono favorendo un crescente livello di consapevolezza e partecipazione nelle persone, sia a livello di team che a livello individuale.
Dalla teoria sistemica ho preso l’esigenza di agganciare l’intervento di cambiamento a più dimensioni, partendo da una concezione personal-socio-tecnica del sistema organizzativo. Il coaching organizzativo non è infatti diretto alla persona, quanto piuttosto al gruppo visto come nucleo centrale di sviluppo del cambiamento e a sua volta inserito in un più ampio contesto culturale, organizzativo ed economico. Tuttavia le dimensione personale non è trascurata, in quanto ogni team è fatto da persone che hanno un proprio bagaglio di esperienze, competenze, desideri e il team funziona solo quando queste persone trovano un motivo per mettersi in gioco. Le tre dimensioni fondamentali, quella individuale, quella sociale, inerente al funzionamento interno del gruppo e al suo rapporto con il contesto culturale nel quale opera, e quella organizzativa (modello comando-controllo, struttura, meccanismi operativi, flusso di generazione del valore, …) sono quindi considerate contemporaneamente come elementi interagenti e ugualmente rilevanti.

Possiamo definire il coaching organizzativo come una modalità di fare consulenza fortemente orientata all’apprendimento, che mira a stimolare la capacità di partecipazione delle persone con l’obiettivo di cambiare i risultati del gruppo sia in termini economici che di qualità del lavoro.
Uno dei limiti riscontrabili nei progetti di consulenza è proprio il momento di trasferimento delle idee emerse nella realtà operativa. Più queste idee sono sviluppate insieme alle persone coinvolte nel cambiamento, più facile sarà ottenere una reale implementazione delle stesse. Dubbi, resistenze, idee difformi vengono portate alla luce in una fase precoce e valorizzate grazie ad un confronto reale. Le condizioni perché questo avvenga sono che il processo sia trasparente, che vi sia reale possibilità di espressione delle proprie idee, che quanto emerge dalla riflessione del gruppo sia effettivamente preso in considerazione e applicato, ovvero che il gruppo abbia effettiva delega.
L’apprendimento e il coinvolgimento sono finalizzati ad uno specifico problema di performance (costi, tempi, qualità del servizio), così da mantenere un forte legame esigenze del business. Grazie a questo legame sarà anche possibile valutare il ritorno economico o di miglioramento delle prestazioni organizzative (tempi, qualità del servizio) dell’intervento di coaching organizzativo.
Il momento di coinvolgimento e riflessione comune stimola la capacità del gruppo di sviluppare conoscenza condivisa, superando la dimensione logica di conoscenza come patrimonio della singola persona e favorendo lo sviluppo del concetto di capitale intellettuale dell’azienda.
In sintesi si ottengono due risultati, uno operativo consistente nella soluzione di un problema quantificabile in termini di tempi, costi o qualità, il secondo legato alla consapevolezza e capacità evolutiva del sistema organizzativo, questo meno facilmente quantificabile, ma probabilmente ancor più importante del primo.
Il trasferimento di know-how è momento centrale di questo approccio consulenziale, in quanto l’esplicitazione del processo di apprendimento e lo sviluppo di know-how condiviso sono parte centrale e qualificante dell’intervento.

Possiamo anche definire il coaching organizzativo come una modalità di fare formazione fortemente orientato ai problemi dei clienti interni e dei clienti finali dell’azienda.
Il momento di trasferimento di nozioni e idee rappresenta, in questo approccio, solo il momento iniziale (2). All’apprendimento di aula segue sempre un momento di apprendimento sul campo, che i formatori-facilitatori supportano grazie ad un attento affiancamento nella fase di implementazione. In questo modo è possibile porre attenzione a tutto il processo di apprendimento (dal know, al know-how, al learning by doing), favorendo il trasferimento dei concetti teorici nella pratica quotidiana e stimolando l’apprendimento che viene dall’analisi dei risultati della sperimentazione (teoria > applicazione > riflessione > consolidamento o revisione della teoria).
Il processo che si innesca può essere definito come “apprendere ad apprendere”, dove i contenuti specifici passano in secondo piano rispetto alla consapevolezza sul processo di apprendimento del gruppo. Si lavora quindi ad un duplice livello:

  1. sul livello operativo si identifica uno specifico problema di performance del gruppo rispetto al quale si ha l’obiettivo di sviluppare uno specifico know-how;
  2. sul meta-livello l’attenzione è posta sul processo di apprendimento, che può essere indipendente dai contenuti specifici e che, proprio per questo, può rappresentare un arricchimento per le persone del gruppo in termini di capacità di affrontare altre situazioni di apprendimento/cambiamento e di pianificare lo sviluppo delle proprie competenze di gruppo e personali.

Quindi concretezza e vicinanza con uno specifico problema di performance si uniscono allo sviluppo di competenze di base riapplicabili a situazioni anche molto diverse, andando ad accrescere la capacità evolutiva del sistema.

Visto nelle due possibili accezioni, il coaching organizzativo può svilupparsi secondo percorsi e con finalità leggermente diverse, ovvero con maggior enfasi sul cambiamento organizzativo o sullo sviluppo di know-how, elementi che però sono presenti in entrambe le situazioni.
Rispetto alla consulenza tradizionale il coaching organizzativo risulta meno costoso, in quanto fa leva sul lavoro di gruppi prevalentemente composti da personale interno all’azienda, e presenta inoltre l’indubbio vantaggio di trasferire know-how ai membri del gruppo, risultato questo quasi assente nei progetti di consulenza.
Rispetto alla formazione il coaching organizzativo è più efficace, in quanto il processo di apprendimento è seguito in ogni sua fase, fino alla traduzione in azione delle nuove idee. Consente inoltre lo sviluppo di nuovo know-how specifico e distintivo all’interno del gruppo, andando ben oltre il mero trasferimento di know-how esogeno, in quanto il gruppo è stimolato a sviluppare un proprio approccio al problema affrontato.


1 - a metà strada solo perché ad oggi esistono delle fittizie distinzioni da questi due settori. In realtà il cambiamento è un fenomeno sistemico e come tale composto da tante variabili che non possono essere incasellate e viste separatamente.

2 - anche se ultimamente sto pensando di porre il momento teorico solo in una fase avanzata del progetto, in modo che le persone possano vedere i concetti espressi già applicati alla propria realtà

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