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Pubblicato in data: 21/06/2010

ACCORDO DI POMIGLIANO: I NUOVI "TEMPI MODERNI"

di Davide Storni

Dai giornali della scorsa settimana si apprende che Pomigliano avrà un futuro, se si manifesteranno certe condizioni. E’ senza dubbio una buona cosa, mantenere in Italia almeno una parte della produzione industriale, ma ovviamente vi è sempre un SE.

Da piccolo vedevo ogni mattina gli operai dell’Alfa Romeo andare a prendere l’autobus a loro dedicato per recarsi in fabbrica ad Arese. L’Alfa rappresentava per molti di loro la possibilità di un lavoro, ma anche di orgoglio professionale e sviluppo personale. I più intraprendenti, dopo qualche anno di esperienza, si mettevano in proprio, aprendo officine o piccole aziende. L’Alfa era una grande scuola, oltre che un’azienda, dava la possibilità di imparare un lavoro, di porre le basi per un miglioramento economico e sociale, di concretizzare il sogno di far studiare i propri figli e di dare loro un futuro migliore. Mio nonno era orgoglioso del suo lavoro in Alfa, un po’ perché poteva lavorare sui migliori motori in circolazione, un po’ perché lavorare all’Alfa era una via di riconoscimento sociale e professionale. Il suo lavoro gli permise di far studiare il figlio, sia pure con grandi sacrifici, e di farlo diventare dottore.
Questa storia è patrimonio non solo della mia famiglia, ma di molte altre famiglie vissute nell’area a nord di Milano nel secolo scorso. Il lavoro rappresentava per loro un modo per costruire un futuro per sé e per i propri figli. I turni, le condizioni di lavoro spesso dure, i conflitti con i “padroni” erano un prezzo da pagare per affermare la propria voglia di affermazione sociale. Il fatto che molti riuscissero a far star meglio la propria famiglia era la conferma che valesse la pena sopportare i sacrifici.
La grande azienda era vissuta con ambivalente sentimento: orgoglio di appartenenza e consapevolezza di interessi in parte conflittuali coesistevano. L’Alfa non ha solo distribuito salari, ha anche diffuso competenze e coscienza professionale, contribuendo al boom della piccola e media azienda che per anni hanno attinto a piene mani dai lavoratori cresciuti negli stabilimenti di Arese.
Oggi sull’are ex Alfa stanno per sorgere villette a schiera e ipermercati, immagine di una società che non si riconosce più nel lavoro di fabbrica e che crede di essere proiettata in una situazione di benessere permanente, che però gli ultimi anni hanno invece dimostrato essere effimero, come i guadagni di borsa e le speculazioni finanziarie.

Penso che per Pomigliano lo stabilimento Fiat rappresenti ciò che l’Alfa rappresentò per noi in passato. Quindi non posso che augurarmi una conclusione positiva della vertenza, sia pure con qualche riflessione di corollario.
L’accordo proposto da Fiat rappresenta, a mio avviso, un passaggio storico in quanto affrontato non più nella logica di un mercato del lavoro italiano, ma di un mercato del lavoro globale alle cui condizioni ci si deve adeguare se non si vogliono perdere il lavoro e gli investimenti che lo permettono. Che il mercato del lavoro fosse sempre più globale non è una novità, però il contratto che si sta per definire sancisce il passaggio da una secolare logica di contrapposizione fra padronato e lavoratori nazionali per includere nel confronto le logiche sempre più vincolanti del mercato globale. Così si introducono maggiori sacrifici e condizioni più dure, che avvicinano, sia pure gradualmente, alle condizioni di mercati del lavoro solo apparentemente lontani. Pause ridotte, turni più impegnativi, diritti limitati, per il sindacato è un bel dilemma. Opporsi, come sta facendo la Fiom in questi giorni, è irresponsabile, in quanto continuare una strenua lotta di difesa non aiuterà certo la sopravvivenza dello stabilimento e il mantenimento dei posti di lavoro, dato che  il mercato del lavoro è già globale. Accettare significa però dare il via ad una nuova fase delle relazioni sindacali, in cui il ruolo del sindacato sarà ridotto e subalterno. Da un lato l’azienda che opera e conosce i mercati globali, dall’altro un sindacato meramente italiano, vincolato e succube di logiche italiane, o meglio dovremmo dire provinciali considerando l’ampliamento dello scenario.
Karl Marx aveva capito l’importanza di un movimento operaio internazionale che potesse fronteggiare la logica del capitale che non conosce frontiere. Ma è innegabile che oggi il movimento sindacale sia invece legato alla storia e alle particolarità delle singole nazioni, trovandosi quindi in posizioni di debolezza nei confronti delle corporations, così come tutta la politica che ha fatto dei confini nazionali o regionali la propria bandiera.
Per decenni, dopo la seconda guerra mondiale, la politica ha avuto un ruolo determinante anche negli scenari economici; vivere in un Paese piuttosto che in un altro significava poter intraprendere liberamente o meno. I Paesi comunisti erano soprattutto luoghi più poveri, dove era estremamente difficile fare affari. Si è così creato un legame forte fra politica locale ed economia, con tutte le distorsioni del caso (vedi polemica sulle partecipazioni statali e sull’appoggio del governo alle aziende nazionali), ma anche con l’indubbio vantaggio di favorire una generale crescita del benessere in questi Paesi. Essendo nato nel 1960, ho fatto in tempo a vedere il cambiamento socio-economico italiano, il passaggio fra una dignitosa povertà e un diffuso benessere che ha permesso agli italiani di dimenticarsi che un tempo eravamo povera gente.
Con la caduta del muro di Berlino questa logica di scambio fra stato e azienda è venuta meno. Le aziende hanno capito che ormai possono fare affari ovunque, anche e forse meglio negli ultimi baluardi comunisti e nelle dittature. Il parallelismo democrazia-benessere economico sta sgretolandosi e con esso il patto fra aziende e nazioni.
Per decenni questo patto ha fatto in modo che la contrapposizione economica fosse legata al territorio, per cui potevano parlare di Paesi ricchi, Paesi poveri, Paesi emergenti, eccetera. Oggi vi sono segnali che ci dicono che questa logica si sta disgregando.
L’aumento di poveri nei Paesi ricchi come gli Stati Uniti, il succedersi di crisi economiche che hanno intaccato la classe media degli stessi Paesi, il crescente legame degli utraricchi  indipendentemente dal Paese di provenienza, stanno portando alla luce uno scenario diverso, dove la localizzazione geografica avrà sempre meno importanza, almeno da un punto di vista economico. La polarizzazione fra Paesi ricchi e Paesi poveri si trasforma in polarizzazione fra ultraricchi che sanno sfruttare al meglio le logiche internazionali della finanza e dell’economia e fasce di popolazione ancora ancorate alle logiche territoriali e locali che vedono pian piano erodersi il proprio livello di benessere. La classe media e i lavoratori dell’industria sono sempre più vittime di logiche economiche forti, che li portano a competere con forza lavoro di altre zone geografiche, proprio come negli anni ’50 e ’60 si mettevano in competizione gli operai specializzati di Torino con gli immigrati provenienti da alte zone d’Italia per poter contenere i salari e ridurre la forza di contrattazione sindacale. Con la differenza che allora era relativamente facile coinvolgere anche questi nuovi lavoratori, mentre oggi risulta assai improbabile che il sindacato possa creare legami con gli operai Vietnamiti o Cinesi.
Quindi oggi troviamo aziende globali che operano in logica globale e che fronteggiano forze politiche locali, siano esse governi o sindacati, con un indubbio vantaggio a favore di chi può permettersi di scegliere dove operare.
Se economia e finanza ormai non hanno più limiti territoriali, potendo operare in Paese democratici come in dittature e anzi mettendo in competizione fra loro le comunità locali, allora si capisce come si stia aprendo un divario sempre più forte fra chi opera a livello globale e chi è vincolato al proprio luogo di origine. L’idea dell’imprenditore Comasco o Biellese o Canturino, legato al proprio territorio e portatore di ricchezza anche ai propri compaesani, sta ormai volgendo al tramonto. Anche il piccolo imprenditore Comasco deve ragionare da subito in logica globale, se vuole sopravvivere, così delocalizzerà la produzione in Cina o in qualche altro Paese dove non troverà le rotture di scatole dei sindacalisti e dove i gli operai hanno meno pretese. Essendo molto più facile per chi ha soldi e relazioni riuscire a riposizionarsi in questo (relativamente) nuovo scenario è di tutta evidenza che il legame fra persona e territorio sarà più un vincolo che un beneficio, come invece in passato, favorendo la crescita di una classe di ultraricchi globale e sfavorendo le classi chi opera nel mercato i lavoro locale. Parallelamente vivremo anche una significativa perdita di potere di chi del territorio si fa rappresentante, che rischia di doversi ridurre ad un ruolo marginale di difensore dei vecchi ideali e diritti; non è un caso che parallelamente alla globalizzazione dell’economia, si assista al fiorire di forze politiche fortemente localistiche che danno voce al crescente disagio di territori che, pur potendo vantare ancora alti livelli di benessere, vivono un progressivo degrado economico e soffrono la competizione internazionale.
In uno scenario che prevede un decrescente ruolo dei rappresentanti locali e una forte polarizzazione fra ricchi-globali e poveri-locali, è chiaro l’imbarazzo di un sindacato di fatto inerme rispetto alle logiche forti proposte dall’azienda globale. Più che contrapporsi all’azienda, forse la difesa dei lavoratori di Pomigliano o di qualsiasi altro luogo, si fa e si farà rendendosi appetibili per chi investe (formazione, flessibilità, infrastrutture). Certo ha un po’ il sapore di una svendita, ma nel breve periodo è l’unico modo di mantenere posti di lavoro e accrescere il benessere locale. In attesa di costruire logiche e capacità di azione più ampie e altrettanto globali di quelle delle aziende.

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