Conclusioni

Come sostiene il sociologo Galtung, la ricerca non dovrebbe concludersi semplicemente con una relazione scritta, ma solo quando si sia riusciti a trasformare la realtà esterna nel senso indicato dai risultati della ricerca stessa1; tuttavia prendendo in considerazione i due paradigmi di Friedrichs riguardanti la funzione del sociologo: quella profetica e quella sacerdotale, posso senz’altro riconoscere il mio ruolo in quello sacerdotale, ovvero la mia intenzione era meramente quella di conoscere e interpretare questo settore della realtà, ovviamente senza alcuna pretesa di essere agente di mutamento sociale.

Tuttavia mi permetto di esortare queste imprenditrici e dirigenti di successo a non smettere di testimoniare con la loro esperienza quotidiana di essere modelli di management che possono valorizzare le differenze di genere e a tentare di affermare uno stile direzionale anche omogeneo, ma soprattutto innovativo, che includa sempre più: la collaborazione oltre alla competitività; l’attenzione alle persone in azienda oltre che ai clienti; la sperimentazione di tecniche gestionali originali e tarate sul particolare contesto locale al posto di schemi precostituiti, senza rinchiudersi nel localismo ma mantenendo e ampliando se possibile il confronto con il più ampio panorama internazionale; insomma la formula dell’e…e al posto dell’o…o.

Eliminate le differenze di genere per quanto riguarda la considerazione del lavoro e le possibilità di carriera, rimane la facoltà e l’onere da parte di queste signore d’azienda di portare alla luce e di riuscire a fare codificare come modello di top management, attraverso uno stile di leadership e di management nuovi, un modello direzionale moderno che valorizzi le differenze di genere.

Un modello fatto di competenze e qualità anche diverse da quelle imperanti, comunque riconosciute più idonee per la gestione di un buon lavoro di squadra produttivo ed efficace.

Del resto, oggi si chiede ai capi di essere più allenatori (il coaching), responsabili della crescita degli altri (l’empowerment), non solo dal punto di vista tecnico, ma anche delle competenze sociali.

"Ogni sviluppo è possibile e reale solo se a crescere sono in primo luogo gli attori organizzativi, le risorse umane, i soggetti. L’empowerment rappresenta così la prima vera proposta per realizzare l’organizzazione "a misura d’uomo" e di donna aggiungo, per promuoverne il "lato umano", per dare dimensione concreta a tutti i progetti che puntano al rilancio della qualità totale, della filosofia del servizio, della learning organization".2

L’importante è evitare quanto si è spesso fatto finora da parte delle donne, che per poter essere accettate e riconosciute come leader, hanno accantonato le loro innate capacità per conformarsi a modelli più duri e aggressivi.

Grazie a donne come quelle che ho intervistato, stiamo andando verso un modello direzionale che mi piace definire unisex.

Un modello che comprenderà, oltre al classico sistema di valori aziendali ereditato dagli uomini, anche competenze da sempre "fondanti" del ruolo sociale che le donne rivestono in tutti gli ambiti quali: la sensibilità, l’attenzione ai problemi delle persone, la creatività, l’intuito, l’ascolto, la comunicazione. Competenze che portano verso dimensioni che coinvolgono, appunto, il servizio, la cura dei collaboratori, l’importanza della qualità della vita e del lavoro. Competenze che del resto oggi si misurano anche con strumenti idonei alla valutazione della cosiddetta Intelligenza Emotiva.

Quello che è sempre stato fatto finora è di semplificare i fenomeni osservati, riducendo al minimo la molteplicità, cogliere la totalità eliminando gli opposti o sottovalutando le differenze. Creare dei modelli, delle griglie cognitive nelle quali imprigionare la soggettività. Ma adesso alla presenza inequivocabile dei numerosi paradossi e contraddizioni svelati nell’universo non solo sociale, ma in quello fisico, biologico, non si può più negare l’esistenza della complessità, nel senso teorizzato da E. Morin, e bisogna riconoscerne anche la valenza positiva o perlomeno imparare ad accettare il senso di complessità e a viverlo. Complessità significa sottolineare il carattere di sempre maggiore differenziazione interna dei sistemi e nello stesso tempo di crescente difficoltà di integrazione del sistema stesso, considerando inoltre che in ogni organizzazione coesistono persone, valori, vissuti e competenze diverse che si trovano a vivere improvvisamente in un contesto di relazioni più ampie.

Soggettività-obiettività, razionalità-emozione, singolare-plurale, creare-adattarsi, ripetere-cambiare, destino-progetto sono solo alcune delle contraddizioni che costellano la nostra vita quotidiana nelle organizzazioni. Nello svolgimento del proprio lavoro le persone si trovano spesso di fronte a contraddizioni e paradossi, a prima vista, irriducibili. "Capita così di avere la sensazione di non riuscire ad esercitare fino in fondo la propria specificità professionale all’interno di un progetto plurale; si preferisce allora subire una certa pressione adeguandoci con atteggiamento conformistico per paura di alienarci dal gruppo: il sentimento di appartenenza prevale sul bisogno di difendere la propria identità, o meglio, proprio per difendere l’inconsistenza di quest’ultima di fronte all’ansiogeno plurale, la rinforziamo con un "ego ausiliario" di gruppo…Non dimentichiamo inoltre che il nostro pensare è frutto di una cultura che noi stessi contribuiamo a creare con la nostra mentalità!"3

Ci troviamo in una fase in cui il tradizionale patto di lavoro si sta progressivamente dissolvendo. Molti/e si stanno interrogando sul modo giusto di dirigere, motivare e pianificare in una realtà nuova e sconosciuta in cui, piaccia o no, siamo tutti precari. In questa situazione è opportuno porsi la domanda di quale sia il collante che tiene insieme l’organizzazione, dopo tutti i licenziamenti, i pre-pensionamenti, i tagli e le ristrutturazioni avvenuti.

Alla scoperta del nuovo collante ogni organizzazione dovrebbe contribuire creando una sua ricetta personale. E in questo compito credo che le donne siano senz’altro avvantaggiate!

Desidero riportare simpaticamente la ricetta suggerita da David M. Noer, senior vice president responsabile per la formazione e l’insegnamento al Center for Creative Leadership:

Riempire il barattolo con acqua fresca e pura di spirito umano non diluito.

Fare particolare attenzione a non contaminarlo con idee preconcette o a inquinarlo con un controllo eccessivo.

Fare in modo che il barattolo si riempia lentamente dal basso verso l’alto. Non è possibile dall’alto verso il basso!

Portare a bollore e miscelare con una porzione di diversità, una parte di autostima e una di tolleranza.

Avvolgere nella responsabilità.

Far cuocere a fuoco lento finchè il composto non è liscio e denso, mescolando con leadership condivisa e obiettivi chiari.

Aromatizzare con una spruzzata di umorismo e una presa di avventura.

Lasciare raffreddare e poi guarnire con una decorazione di valori chiave.

Servire ricoprendo tutti i riquadri dell’organigramma, facendo particolare attenzione agli spazi bianchi tra una funzione e l’altra. Con una corretta applicazione i riquadri scompaiono e tutto ciò che si vede è produttività, creatività e servizio ai clienti.

Questo breve percorso sta per chiudersi. Desidero ringraziare a questo punto: Ornella Masciadri Gasbarro, Wanda Ferragamo, Maria Cristina Dalla Villa, Paola Vannoni Locchi, Giovanna Magi Bonechi, Regina Schrecker, Maria Grazia Grazioso, Teresa Becagli, con le quali si è creato sin dai primissimi minuti dell’intervista un clima di simpatia reciproca e disponibilità ad aprirsi. Con loro concludo dicendo che è stata un’esperienza relazionale in più che abbiamo vissuto con l’altra e con noi stesse e che non si deve dimenticare che noi insegnamo e comunichiamo anche quello che siamo, l’importante è rendercene conto e farne oggetto di conoscenza trasparente.

Si è trattato di creare un colloquio, una conversazione "tra due persone vincolate soltanto da un patto di reciproca disponibilità (gratuita) a conoscersi a vicenda, seppur in un rapporto asimmetrico mitigato, appunto, dalla disponibilità di chi accende il colloquio di svelare anche parti di sé". Un’occasione anche per le intervistate di trovare il tempo per fermarsi a riflettere e a ripercorrere le tappe della propria esperienza di vita. "E’ la via, apparentemente paradossale, della continua conferma di chi si è, coltivando l’esercizio, della continua introspezione e meditazione sulle proprie scelte e il proprio modo di sentire, della attenzione via via più matura e profonda per come ci rappresentiamo il mondo. Le ragioni degli altri, nella loro differenza, legittimità o non condivisibilità, sono interpretabili a partire sempre dalla loro consapevolezza, dal riconoscimento dei motivi in base ai quali gli altri pensano in un certo modo, agiscono e sognano per fini diversi dai nostri. Tutto ciò è un’educazione all’individualità, a contare sulle proprie forze, ad apprezzare la solitudine stando con gli altri, lavorando per loro e con loro; è un’educazione, all’egotismo solidale e all’interiorizzazione delle esperienze della vita e delle conoscenze".4

A queste donne desidero dedicare un pensiero del grande filosofo Friedrich Nietzsche:

"Un giorno, quando secondo l’opinione del mondo si è già educati da tempo, si scopre se stessi: allora comincia il compito del pensatore; allora è tempo di rivolgersi a lui – non come ad un educatore, ma come ad uno che ha educato se stesso, che ha esperienza".


[1] L’Abate A. Introduzione ai metodi di ricerca nelle scienze sociali
[2] Piccardo C. Empowerment (1995)
[3] Marocci G. Inventare l’organizzazione (2000)
[4] Demetrio D. Raccontarsi, l’autobiografia come cura di sé (1985)