BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 23/04/2007

GRANDI IMPRESE E PERIFERIE URBANE: SE MAOMETTO NON VA IN AZIENDA, L'AZIENDA VA DA MAOMETTO

di Guido Tassinari

Il Marocco, dopo la Cina, è il paese privilegiato dalle imprese francesi per le loro delocalizzazioni produttive, in particolare nell’industria tessile (che nel complesso conta duemila imprese per oltre duecentomila marocchini impiegati, per un giro di affari che supera i tre miliardi di euro), la prima del paese, insieme ad agricoltura e turismo.

Per converso, la Francia è il paese privilegiato dai cittadini del Marocco per delocalizzare sé stessi (sono tre quarti di milione a risiedere regolarmente in Francia - tre volte il numero di quelli trasferitisi in Italia; e quanto il resto, complessivo, della diaspora marocchina- e costituiscono la terza nazionalità presente oltralpe, dopo i franco-francesi e il milione di algerini).

Viste da quaggiù, le relazioni fra imprese francesi e Marocco sono però d’importanza superiore a qualsiasi legge d’immigrazione o misura doganale o campagna elettorale che si dibatta in Francia (e nell’Europa tutta, per altro), e le preoccupazioni dei marocchini –migranti e stanziali- ruotano attorno alla medesima, duplice questione: la disponibilità futura delle imprese francesi a continuare a investire sul sistema-Marocco, e quella a cominciare a investire sull’individuo-immigrato-dal-Marocco.

Cioè: se il pericolo maggiore che avverte l'economia marocchina è la chiusura di unità di confezione straniere che riorientano le loro delocalizzazioni verso la Cina (varie grandi marche come Kindy, Mike o Puma hanno già deciso di lasciare il Marocco; e si stimano tra venti e cinquantamila e le persone a rischio di perdere il loro impiego), quello che specularmente preoccupa in termini di prospettive individuali e comunitarie gli emigrati ed emigranti in Francia, è la chiusura delle sue imprese verso gli abitanti delle periferie urbane francesi, che sono in larga parte maghrebini.

Se, posti così, i termini in cui si discute la questione -in Marocco come in Francia- sono abbastanza familiari anche al dibattito italiano su immigrazione, globalizzazione e delocalizzazioni (magari traslati ai paesi neo-entrati nell’Unione europea, Romania in testa); ribaltati –come iniziano a fare alcuni studiosi e impresari- essi suonano invece a noi assai più esotici, ma prefigurano un futuro prossimo venturo in cui anche in Italia le imprese diverranno primattrici delle politiche immigratorie.

Ossia: quali sono i rischi per le imprese francesi di un eventuale disinvestimento dal Marocco, e della mancata apertura verso gli immigrati maghrebini in Francia?

Da tempo, le grandi imprese francesi -soprattutto quelle transnazionali, ma non solo esse- pagano viaggi di studio all’estero ai propri quadri, dai quali s’aspettano un approfondimento della conoscenza dei paesi nei quali si hanno –o si vorrebbero avere- interessi produzioni relazioni commerciali. Più recentemente, a questi viaggi tradizionali considerati sì utili ma raramente forieri di innovazioni, si stanno affiancando altre inziative, volte a far esplorare –e nel migliore dei casi, far scoprire- ai viaggiatori l’inaspettato, il non-previsto; che per ciò vengon mandati in paesi inesplorati senza una particolare missione, se non quella di cavarsela da sé e di tenere tutti i sensi ben aperti alla serendipity del viaggio.

Analogamente, i più avanzati fra gli uffici reclutamento del personale delle grandi imprese, si sono resi conto di non assumersi abitualmente abbastanza rischi nei loro processi di selezione, e che, lavorando sulla scorta di pregiudizi, di tendere a escludere a priori i diversi (cioè coloro vengano considerati disomogenei, non assimilati o non assimibilabili alle presunte politiche aziendali), pensando così di compiacere i desiderata della proprietà, ma in realtà –come nel caso dei suddetti viaggi formativi- precludendosi l’innovazione, la sorpresa.

Ultimamente, che ha preso corpo la consapevolezza che la diversità più rimossa, più allontanata, è quella che s’annida nei quartieri periferici delle grandi periferie urbane, le famigerate banlieus (e, come ha affermato un responsabile del personale di Gaz de France: la banlieu, quand on ne connaît pas, ça fait peur !), alcune grandi conglomerati (Auchan, RATP, Gaz de France, Decathlon, Schneider Electric), congiuntamente a varie imprese locali, associazioni, han lanciato –lo scorso novembre- il programma Jobs et Cité, dislocando nelle banlieus autobus attrezzati a svolgere colloqui di selezione, con l’aggiunta di mediatori che preparano i candidati. In quattro giorni, sono stati duemila i colloqui condotti dai mediatori, quattrocento dalle imprese stesse; milleseicento i contratti stipulati.

Come ha detto Abdel Belmokadem, ideatore dell’iniziativa e direttore della rete Nes di Val-de-Marne:  Jobs & Cité créé une médiation entre deux mondes: celui de l’entreprise et celui des quartiers. Tout comme le Conseil général du Val-de-Marne, les entreprises de notre réseau, partenaires de l’opération, s’engagent au quotidien dans la lutte contre la discrimination à l’embauche. Cette initiative doit permettre également de donner à la société une vision plus positive de la banlieue.

Finora, in Italia, davanti all’emergenza periferie e ai timori di ghetti o di future ghettizzazioni che solleva -particolarmente dopo le esplosioni delle banlieus d’un anno fa, ma comunque latenti anche in tutti i discorsi d’oggidì sul futuro delle città italiane- siamo abituati a pensare che lo stato abbia monopolio delle politiche di riconoscimento e avanzamento dei diritti, e sottovalutiamo il ruolo dell’impresa privata nel modellare –consapevolemente, voglio dire- la società a venire. Le politiche antidiscrimatorie possono invece essere parte integrante della responsabilità sociale delle imprese, e possono essere molto più efficaci nelle loro mani che in quelle dei servizi sociali statali o locali.

In un articolo dell’anno passato scrivevo che la traduzione pratica del principio della responsabilità sociale dovrebbe essere: il ruolo di un ente for profit non è quello di dare soldi a un’associazione non profit affinché avvii attività significative per i disoccupati, bensì quello di assumere dei disoccupati. Non quello di finanziare le missioni religiose in Africa, bensì quello di investire in Africa. Non di pagare i corsi per stranieri organizzati dagli enti locali, bensì di avviare al lavoro immigrati nelle loro vere professioni (che un ingegnere singalese faccia l’ingegnere e non le pulizie dell’ufficio solo perché singalese). Non di aprire rifugi antifreddo per i senzatetto, bensì di costruire case dignitose a prezzi calmierati. Non di inviare derrate alimentari alle mense popolari, bensì di produrre cibo buono ed economico. Non di pagare i mediatori linguistici della scuola pubblica, bensì di guardare ai tanti stranieri qualificati come possibili mediatori culturali del proprio riposizionamento nell’economia globalizzata. Non di redistribuire in beneficenza parte dei profitti, bensì di mantenere il rapporto fra profitti e salari a livelli di equità.

Ecco, se fossi un direttore del personale, comincerei a mandare i miei collaboratori a cercare addetti fra gli abitanti delle periferie.

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