BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 22/10/2007

VENTO CHE HA FAME: NOTE SUL 20 OTTOBRE 2007 -1

di Guido Tassinari

Ed ecco
               fumo è tutto
                                   vento che ha fame

Storture non si raddrizzano
Privazioni restano prive.
Guido Ceronetti, Qohélet o L’ecclesiaste

 

Non amo il lavoro –nessun uomo lo ama- ma amo ciò che è nel lavoro –la possibilità di trovare te stesso –la tua realtà- per te stesso, non per gli altri –ciò che nessun altro uomo potrà mai conoscere.
Joseph Conrad

 

Molti lettori di bloom! sono lavoratori precari; molti altri –altrettanti?- sono datori di lavoro precario. Altri ancora sono consulenti e/o liberi professionisti: imprenditori di sé stessi. Essi stessi, in larga misura, lavoratori precarizzati, se non dalla natura del rapporto di lavoro, da quella della attuale economia –quella, cioè, in transizione verso la globalità. Fin qui, i fatti. Passando alle ipotesi, è ragionevole supporre –ma qui, ripeto, sto inventando, o perlomeno inferendo- che molti fra noi frequentatori di bloom! siano stati –se non d’accordo- almeno simpatetici con le rivendicazioni andate in piazza a Roma il 20 ottobre. Altri –altrettanti?- non lo saranno stati affatto, anzi!, ma per tutti, credo, è importante domandarsi cosa possa fare la collettività per agire questo processo e non solo subirlo –che poi era la domanda posta dai manifestanti ieri. Poiché per tutti, se non a livello esistenziale o di visione del mondo, è comunque una realtà la precarizzazione della condizione di lavoratore, la sua imprenditorializzazione.

Il lavoratore è stato trasformato in imprenditore di sé stesso, infatti, nel momento stesso in cui le imprese reali hanno trasferito progressivamente il rischio d’impresa sulla collettività. E come ha reagito quest’ultima –ossia come hanno agito gli Stati? Cercando di mettere pezze ai vetri infranti dai venti della globalizzazione, ma, di fatto usando come pezze le ricchezze accumulate nei tre-quattro decenni di grande crescita keynesiana, e ottenendone indietro solo un aumento dell’ingordigia di quei venti.

In Italia il processo è particolarmente evidente [tra il 1997 e il 2005 ci sono stati trentasette miliardi di euri di aiuti statali alle imprese –al netto di prestiti e mutui agevolati- e quasi la metà dei beneficiari non hanno effettuato né investimenti, né ricerca, né accresciuto occupazione], ma anche questa è una tendenza globale, della quale l’esempio più illumante viene –al solito- dagli Stati uniti: dai salvataggi, con soldi della finanza pubblica, degli hedge funds, che per definizione dovrebbero essere imprese finanziarie che lavorano sul rischio; o dall’American Jobs Creation Act, del 2005, uno scudo fiscale che incentivava le corporations a fare rientrare capitali all’estero e usarli per allargare la propria forza-lavoro: cento delle più grandi hanno fatto ritornare nella madrepatria [come se il capitale ne avesse poi una] oltre 300 miliardi di dollari, evitando di pagarci quasi cento di tasse, e l’anno dopo hanno licenziato centomila lavoratori.

Sicché, apparentemente, il lavoratore è solo, solo come–almeno in Occidente- non lo era stato per due secoli.

Il lavoro residuo s’è andato prevalentemente trasformando in accumulazione di sapere, gestione di simboli, creazione di immagini. L’economia della conoscenza, salvo rari casi, non crea però molti lavori ad alta qualificazione, bensì produce un’enorme massa di lavoratori dotata di parziali saperi e ridotta a lavori di scarto.

Un tempo la qualifica era un dato stabile nel tempo. Si faceva un corso di formazione per diventare tornitore o fresatore, e la competenza acquisita durava. Oggi il processo di qualificazione ha bisogno d’un continuo aggiornamento non definibile secondo segmenti specifici: si fa per prove ed errori, secondo percorsi informali, reti di conoscenza e a poco servono i corsi che arricchiscono solo i formatori. Per una qualificazione autentica fare il lavapiatti a Londra sarà più utile che buttare i soldi in corsi.

Il lavoratore ha i mezzi di produzione nel suo cervello ma la loro rilevanza è in scadenza.

Nel contratto di lavoro di certi ricercatori v’è una clausola che prevede, in caso di interruzione del rapporto che essi non possan lavorare per un’altra ditta prima di sei mesi. La mente, i suoi neuroni, contengono un know-how che sarebbe divenuto obsoleto nell’arco di quel periodo.

Chi rimane comunque aggrappato alla produzione, viene premiato con prospettive un tempo impensabili. Gli ambienti di lavoro avanzato oggi sono più salubri, e alcune professioni danno luogo a inauditi spazi di creatività socialità cooperazione. Le imprese –in specie se grandi - han bisogno della socialità perché han scoperto che questa socialità produce e non si appropria dei suoi frutti, che restano altrove, e le logiche cooperative rimangono nella produzione e non nel controllo e gestione. Le eccezioni vengono dalle nuove tecnologie -come Linux, sviluppato in comune e i cui frutti appartengono a tutti- eccezioni, appunto.

Però la new economy non influenza molto di per sé il totale della forza lavoro, sebbene ne richieda altresì una crescente porzione a servizio dei suoi ipercinetici produttori – la porzione più desiderabile. Persino in Italia, dove la transizione è solo all’inizio, è già distribuito fra non specializzati e servitori un quarto dei lavoratori; oltre la metà se si considerano le sole nuove assunzioni.

Il lavoro cambia -va l’adagio- e i lavoratori che restano –che nella maggioranza sono lavoratori che arrivano- fanno i lavori che non vogliamo fare noi. Che sono, necessariamente non specializzati. Ma non specializzati in che senso, e per fare che? Ormai sazi, di quali servizi formiamo domanda? Di persone e di relazioni umane. Quelle che compongono le nuove forze nel mercato del lavoro globale: donne senza specializzazione, giovani dal terzo mondo, vecchi dal primo mondo; sono questi i beni e servizi della nostra domanda aggregata. E se questi sono economizzati vuol dire che si scambiano in compravendita: comprando relazioni compriamo le persone alle quali sono attaccate. Comprate identificandole secondo etnia, casta, e professione. Se ho bisogno di pulir casa mi compro un filippino, se di sesso mi compro una nigeriana. Che usi o meno di loro, quando poi incontrerò un filippino o una nigeriana in un altro contesto, come farò a non pensare all’identificazione precedente?  Tutti si partecipa nel trasformarli in nuovi servi (e soprattutto serve) della gleba e, nel contempo, si vive un doppio straniamento: i lavoratori non specializzati (sempre più immigrati poco tutelati dalle leggi sul lavoro e in una precarietà esistenziale sconosciuta a noi cittadini) fanno ma non sanno, noi abbienti - tendenzialmente autoctoni - sappiamo ma non facciamo.

Quelli ai quali demandiamo la decisione della direzione del continuo cambiamento, sono legati sempre più –direttamente o indirettamente– alle grandi compagnie transnazionali che provvedono a loro in tutto.

Prende forma un mondo qualitativamente diverso da quello del vecchio adagio: la prima generazione fa, la seconda spende, la terza dilapida. Quella a venire sarà la società dell’un quinto: la (piccola) classe di agiati (alcuni iperattivi, quasi tutti nullafacenti o parassiti o alle prese con lavori pleonastici: eventi catering pr volontariato modernariato... a Milano un lavoratore su tre è un professionista creativo!) ha a disposizione una (vasta) classe di poveri, iperattivati solo in minoranza, e in maggioranza, predominante e crescente, anch’essi parassiti in quanto inutili, dunque scartati come indesiderabili.

Anche l’impiego pubblico è diventato –da riserva degli altrimenti inimpiegabili- l’ennesimo canale di trasferimento di ricchezza dai poveri ai benestanti. Le consulenze inutili, per esempio, nella sola regione Lombardia –certificate tali dalla stessa Corte dei conti regionale- ammontano in un anno a oltre venti milioni di euri, un quinto del totale. In Italia: duecentomila gli eletti; oltre tremiladuecento le società pubbliche, con diciottomila consiglieri d’amministrazione; le società di servizi pubblici locali son quasi mille –e son raddoppiate in cinque anni- e se i loro dipendenti non sono cresciuti, i dirigenti si sono quintuplicati. Quasi seicentomila le auto blu (quante in tutto il resto del mondo combinato: un italiano su cento ha diritto all'auto blu, e in Italia ci sono un mare di persone che di mestiere trasporta gente sulle auto blu).

Lo Stato, tenendosi buoni gli imprenditori di sé stessi, si dichiara così, di fatto, impotentee sgrava le responsabilità sociali in gran parte sulle città. In particolare le città ex-industriali, ch’han davanti a sé –spesso quale unica possibilità di sopravvivenza- l’intrapresa di mettere a reddito sé stesse: il patrimonio materiale quanto quello immateriale; trasformare sé stesse in capitale e quindi i propri cittadini in capitale umano. Possono avere successo -come Torino, per esempio- in tale transizione verso la smaterializzazione –e reinventarsi città leggere oppure perire di leggerezza -come Detroit, che ancora solo mezzo secolo fa era la più vera capitale del mondo industrializzato e ora è una città post- come quelle della fantascienza catastrofista.

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