BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 05/11/2007

VENTO CHE HA FAME: NOTE SUL 20 OTTOBRE 2007 -II (1)

di Guido Tassinari

C'è un quadro di Klee che s'intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L'angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l'infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.
Walter Benjamin

Per divincolarsi fra le macerie fordiste, la tipica famiglia postfordista negli Stati uniti lavora ogni anno qualche ora in più solo per evitare la bancarotta. All’alba del nuovo millennio, la media ha già superato le duecentocinquanta ore annuali lavorate in più rispetto al tramonto di quello vecchio. I salari reali sono rimasti intatti o diminuiti per i due terzi della popolazione dal 1970; il novanta per cento dei guadagni di borsa va ora al dieci per cento più ricco.

Ovunque è lo stesso, ovunque aumenta la forbice salariale, e diminuisce l’importanza del lavoro nella formazione di reddito personale: in Italia il reddito percepito dal lavoro è poco sopra la metà dell’intero prodotto, e in continua discesa. Che l’economia nazionale sia in stagnazione o boom, la distribuzione del reddito non ne risulta significativamente influenzata: nella stanca Europa è così da tempo; ma anche nelle iperdinamiche India e Cina le disuguaglianze aumentano.

Più la dinamica sociale si blocca e più diventano ristretti gli spazi di emancipazione per chi parte dalla base della piramide. Molto più probabile rimanere nella classe in cui si è nati: con la degradazione di lavori a reddito medio in lavori a reddito basso e senza sbocchi, e la scomparsa di lavori di accesso alla classe media.

È la wal-martizzazione dell’economia, baby.

Una moderna società di casta elimina le tasse sul patrimonio, trasferisce le fortune da una generazione all’altra, riduce le aliquote d’imposta sia sui profitti societari che sui redditi non guadagnati come dividendi e guadagni in conto capitale. Coloro che hanno vaste ricchezze accumulate o ereditate possono più facilmente accumularne ancor di più, e usando gli scudi fiscali spostare il carico fiscale su forme di tassazione indiretta e altre fonti di reddito che gravano di più sui redditi bassi, che si trovano pure tagli all’assistenza sanitaria, al potere dei sindacati e all’istruzione pubblica.

Si alzano sempre più gli ostacoli per l’accesso all’istruzione, essenziale per la mobilità, e nel contempo si privatizza la funzione pubblica affinché i ben pagati dipendenti pubblici possano essere sostituiti con i mal pagati subappaltatori privati.

La tipica famiglia postmoderna, negli Stati uniti come in Europa come in Giappone, ha sempre meno lavoratori attivi al suo interno, e contemporaneamente subappalta al suo esterno, soprattutto a immigrati, sempre più funzioni considerate tradizionalmente e tipicamente famigliari, cioè che occupavano chi non lavorava attivamente [esclusivamente] all’esterno.

La tendenza è globale: al mondo un umano su venti è schiavo; uno su dieci è servo; uno su cento è padrone; il resto è casta media?
                                              
Quando le economie erano in gran parte nazionali, accanto al settore aperto al confronto internazionale coesisteva un settore protetto da barriere doganali o istituzionali, la cui funzione era proprio –tra l’altro- quella di assorbire i lavoratori in esubero. La globalizzazione ha praticamente distrutto questa dualità.

Sarebbe da ridefinire il concetto stesso di lavoro dipendente.

[e da qui –ammetto senza problemi- abbandono il porto sicuro delle analisi e inizio a muovermi nel terreno minato delle prescrizioni]

Come? Anzitutto protezioni e standards minimi andrebbero applicati a tutta la forza lavoro, e ciò andrebbe a vantaggio di tutti i lavoratori, indipendentemente da status e cittadinanza, con particolare riguardo al lavoro femminile e in special modo alla sua componente di lavoro domestico e di cura della persona, che per i luoghi stessi in cui si svolge tende a essere il più invisibile e meno protetto. Come si può altrimenti ragionevolmente sperare in nuove forme di cittadinanza, nuovamente inclusive (ossia che sappiano integrare le nuove minoranze in condizioni dignitosamente paritarie)?

In genere, le leggi e politiche nazionali permettono, anzi sono compatibili con la nuova economia servile: contribuiscono anzi a diffondere il lavoro con poche o punto garanzie.

Allora, van posti i diritti sociali sullo stesso livello di priorità dei diritti civili. E qui, qualche segnale in controtendenza c’è. In Francia una legge ha fatto diventare esigibile il diritto all’abitazione: i senza tetto possono rivolgersi al giudice per ottenerla, cominciando dai barboni, dai lavoratori poveri, dalle donne sole con bambini; in Spagna la Ley de dependencia, prevede il diritto a ricevere prestazioni pubbliche di tutti coloro che si trovano in uno stato psico-fisico che li rende dipendenti da altre persone nella vita quotidiana. Solo così la misura umana può ricomparire nella politica, dalla quale l’ha esclusa il riferimento forzato alle compatibilità economiche.

Cosa può fare lo Stato la Regione la Città [intesa come suo governo], oltre a questo?

Creare lavoro; semplice, no?

L’Occidente, però, non credendo più nei suoi [precedenti] ideali industrialisti crea pubblicamente [quasi] solo lavoro nei servizi: con la terziarizzazione [anche] delle città periferiche nelle correnti della globalizzazione prevalente, fra le città globali si allarga e consolida il modello ente pubblico. Città del Messico come Nairobi come Roma come Londra occupano spazi nuovi, si aggiudicano consulenze, gestiscono affari d’importanza decisiva, ma non producono nulla, non attirano investimenti produttivi ma solo speculativi -immobiliari o finanziari che siano.

In Italia, i lavoratori atipici sono già un quarto [oltre quattro milioni] del totale (diciotto milioni) dei lavoratori dipendenti, e a questi vanno assimilate almeno cinque delle oltre sei milioni di partite Iva, e i lavoratori in nero son fino a un quarto della forza di lavoro totale –dai quattro ai cinque milioni [in edilizia oltre la metà: le ispezioni del 2005 al cantiere della Fiera di Milano –in teoria il cantiere più importante d’Italia, dunque quello più sotto la luce pubblica- accertarono che novemila lavoratori (su diecimila) erano impiegati in nero]. Adesso, anche l’intero sistema degli appalti pubblici lavora al ribasso: nella Sanità lombarda sono impiegati ventimila precari.

In totale, gli atipici in Italia sono oltre i due terzi della forza di lavoro totale.

Il Comune di Roma è fra i più grandi datori di lavoro precario al mondo.

Allora, la risposta deve essere: creare lavoro altro. Ma che lavori altri possono creare le politiche pubbliche?

In tempi di tagli, compatibilità finanziarie, crisi di bilancio.. sembrerà un’assurdità ma il public servant deve tornare a essere professione ambita sicura e ben remunerata, come ai tempi degli imperi. Un esempio praticabile? Gli insegnanti della scuola pubblica italiana dovrebbero subito essere messi al livello dei loro colleghi europei, costi quel che costi. Un tramviere dovrebbe guadagnare quanto un tassista.

Mentre –come cittadini- si lotta per imporre questo modello altro, però, i risultati son giocoforza [molto] di là da venire, cosa fare per unire le rivendicazioni di tutti i lavoratori –cittadini e immigrati? Dove trovare un rimedio? Nell’intercultura?

Difficile. La trasformazione delle etnie in caste definite socio-professionalmente inizia precisamente con la formazione di una casta alta sempre più lontana dalla vista dei suoi lavoratori ma sempre più dipendente dai loro servigi, ed espande e naturalizza il suo principio organizzativo con l’accentramento –e progressiva crescita- di potere distributivo (di denari, lavori, beneficenza) nelle sue mani.

Una volta accettato, il principio della disuguaglianza naturale dà origine a una paura, la paura di essere defraudati del proprio posto naturale e legittimo nella scala gerarchica. È una minaccia che può venire dall’alto come dal basso. Il lavoratore diventa così non meno diffidente del dirigente. E può divenire anche altrettanto geloso dei propri privilegi nei confronti di quelli che considera suoi naturali inferiori. Alcuni teorici politici diranno: Sì è la vecchia tattica del divide et impera, ma la classe operaia deve rispondere: Uniti si vince, divisi soccombiamo! La questione è più complessa.

Le imprese –almeno quelle con radici locali- sono sottoposte agli stessi venti, e quindi non son più necessariamente la controparte dei lavoratori ma possono esserne alleate, e lo sarebbero senz’altro più che ora se fossero [messe] in grado di sentire e ascoltare davvero le voci dei propri lavoratori, in particolare di quelli immigrati.

I popoli devono articolarsi anche in rappresentanze. L’assenza dei sindacati, la loro incapacità di unirsi almeno nell’Europa occidentale dove mantengono una loro forza, è una catastrofe. Avvenne invece alla fine dell’Ottocento, ma allora c’era una classe con un’identità.

L’operaio –reso socialmente invisibile nel momento in cui entrava in fabbrica- esprimeva almeno una forma di resistenza e di rivolta stando con la testa fuori dalla dimensione della merce, odiando il padrone, spesso la fabbrica -raramente il lavoro, ch’era altresì liberatorio. È il paradosso industrialista: la ribellione presupponeva la fabbrica ma essa omologava l’uomo. L’irruzione della società all’interno dei rapporti di fabbrica fu fondamentale per le conquiste del lavoro.

La perdita di centralità della produzione nei rapporti sociali, ha determinato la perdita di ruolo di tutti i lavoratori, quindi. Oggi non servirebbe entrare nelle fabbriche, sono altrove gli invisibili, i senza potere, i senza diritti.

Scrive Pierluigi Sullo che quando Marco Revelli parla di apocalisse antropologica non esagera e quando aggiunge che la caccia ai lavavetri butta via come un rifiuto un secolo e mezzo di umanesimo socialista dice una cosa misurata.
                                          
Dove sarà allora l’identità della classe operaia del XXI secolo?

Cosa può fare altresì il lavoratore cittadino e immigrato per uscire da questa precarietà?

Creare lavoro da sé e per sé; semplice, no?

Per farlo, il lavoratore deve però [ri]trovare una fiducia in sé stesso [come individuo e come ceto] che nel Novecento ha progressivamente perso. Nei trent’anni di forte crescita economica del dopoguerra, le socialdemocrazie hanno confidato nella possibilità di un progresso economico e sociale, ma il compromesso che han realizzato ha avuto due punti deboli. Il primo è stato riconoscere il monopolio della creazione di ricchezza all’economia di mercato; la possibilità di politiche di solidarietà era indicizzata alle prestazioni dell’economia di mercato. La seconda è stata, nell’ambito del welfare state, la posizione degli utenti, a cui da un lato veniva garantito l’accesso ai servizi grazie alla gratuità o alla modicità dei prezzi praticati, ma dall’altro venivano esclusi dalla concezione dei servizi a loro destinati.

Tornare dunque alla tradizione civile italiana, quando sì c’eran i preti operai come don Bosco che a Torino raccoglieva per strada gli esuberi della prima industrializzazione, ma anche le nascenti leghe, le cooperative di lavoro, il mutuo soccorso, le scuole popolari, la società che proteggeva sé stessa, insomma, dai venti della modernità.

Come scrive Saskia Sassen, quando la città ha dimensioni globali, queste possibilità assumono un carattere diverso, perché questo tipo di città è di importanza strategica per il capitale globale. Ma queste città, e i legami geografici che le collegano, possono anche essere considerate parte dell'infrastruttura per una società civile globale, dal basso, attraverso micro-siti. Svantaggiati, emarginati, senza potere, minoranze discriminate, possono acquisire una presenza nelle città globali, sul territorio e nel ciberspazio, e possono farlo rispetto a chi detiene il potere e gli uni rispetto agli altri.


1- Queste riflessioni sono parte di un lungo lavoro di ricerca [che da qualche anno conduco autonomamente e, più recentemente, come parte di una piccola rete di lavoratori precari] e sono lo sfondo di un romanzo/saggio non ancora pubblicato ma che posso inviare in forma elettronica a chi fosse interessato [scrivendo a: js697@libero.it].

 

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