BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 08/11/2004

FRONTIERE ETICHE DELL'IMPRESA SENZA FRONTIERE: IL RITORNO DELLE COMPAGNIE DELLE INDIE?

di Guido Tassinari

L’economia al tempo della globalizzazione ultima versione non ha abbattuto le frontiere, come s’usa dire, s’è piuttosto trasferita in una regione immateriale dove le frontiere non esistono, e gode della sua condizione di extraterritorialità. La finanziarizzazione dell’economia globale, intanto, agli strumenti utilizzati in passato (fondi comuni d'investimento, titoli atipici, società fiduciarie ecc.) ne ha aggiunti di nuovi, rendendo sempre più difficile la distinzione tra capitali legali e illegali.. I numeri sono (quasi) noti ma sempre impressionanti, comunque utili come promemoria: il solo mercato dei derivati in circolazione supera del doppio la produzione economica mondiale. Sono tra 60 e 90 i paradisi fiscali; nel solo 1997 nelle isole Vergini britanniche sono state costituite 50 mila nuove società (ora vi operano più di 270 mila società), nelle Cayman più di 42 mila, a Cipro più di 34 mila. I depositi hanno raggiunto 241 miliardi di dollari nelle Bahamas e oltre 500 a Cayman. Del movimento giornaliero di capitali meno d’un cinquantesimo del totale riguarda l'economia reale, tutto il resto è capitale finanziario alla ricerca permanente di sbocchi speculativi; nel 1970 erano tra 10 e 20 miliardi di dollari, nel 1980 80, nel 1990 500, oggi s’aggira sui 3, forse, 4000 miliardi. Parallelamente, le frontiere tra l'economia criminale e quella legale sono cadute così come quelle fra criminalità comune e politica (il cosiddetto terrorismo).
Come scrive Loretta Napoleoni, nel contempo la violenza s’è ugualmente transnazionalizzata: se con la deregolarizzazione finanziaria e il crollo delle barriere i capitali occidentali han potuto espandersi in tutto il mondo, l'economia del terrorismo che già esisteva, ma localizzata nei singoli Paesi, ha varcato le frontiere. Le organizzazioni terroristiche hanno saputo collegarsi tra loro in modo globale e hanno stretto rapporti più intensi con il mondo del crimine e dell'illegalità, e dell'economia legittima; sicché la maggior parte del fatturato della prima viene riciclato nell’ultima. Un terzo dei proventi è prodotto in attività legali ma la maggioranza proviene da attività illecite, dunque il primo problema è quello di riciclare questo denaro in Stati Uniti ed Europa altre (secondo il Fondo Monetario, il solo lavaggio di denaro ammonta al 2 o 5% del PNL globale). Le basi operative sono nei paesi avanzati o nei cosiddetti stati-guscio che han come obiettivo principale il mantenimento della condizione di guerra, perché si mantengono attraverso la guerra, che sia contro stranieri o interna, e con la quale il gruppo terrorista gestisce parte del territorio e dell’economia. Il prodotto criminale, lo spostamento illegale dei capitali, e l'economia legale si muovono tutte nello stesso sistema, e il crimine ha lo stesso peso degl’altri; perché nell'opacità del sistema finanziario son indistinguibili le provenienze e nature dei diversi flussi .

Le tante compagnie transnazionali (TNCs) credono in genere di approfittare dei dislivelli normativi esistenti fra diversi Paesi e dei vuoti di copertura dell’ombrello del diritto internazionale per muovere vorticosamente i numeri, e per cercare altrettanto vorticosamente regioni dove la vaghezza, o l’assenza, delle norme abbassa i costi di quel che è rimasto della produzione reale. Solo una piccola parte delle TNCs, però, controlla tutte le fasi di questo processo, mentre il resto si adegua, in particolare al fatto che una delle sue conseguenze più rilevanti, ma anche più nascosta, è che al tanto desiderato calo della capacità pubblica di controllo del territorio ha corrisposto una richiesta d’innalzamento dell’impegno privato nella protezione degli affari, in proprio o per mezzo di appaltatori. Ciò ha fatto allo stesso tempo lievitare l’importanza e i costi della sicurezza, e l’importanza e il fatturato delle privatised military and security firms (PMFs).

Tutto fa pensare che si stia compiendo la parabola che nei cinque secoli fino al Novecento aveva contemporaneamente democratizzato e internazionalizzato la violenza globale (con il disarmo dei soggetti transnazionali privati), e ridotto al minimo le regioni d’extraterritorialità (con la trasformazione dell’intero spazio planetario in spazio pubblico, inter-nazionale), e oggi la sta ri-privatizzando mentre crescono le aree grigie dell’assenza di controllo pubblico. Così come la conquista statale di questo monopolio era passata per la concessione temporanea del ruolo di civilizzatori e di motore dell’espansione a privati (in Inghilterra, l’epoca pioneristica dei corsari è, appunto, chiamata del privateering; quella successiva di consolidamento dell’Impero è quella della concessione alle Companie delle Indie di uno status di quasi-Stato con facoltà di muovere guerra); così, oggi, la contrazione della sfera pubblica ha il suo corrispettivo più discusso nella privatizzazione del mondo, e, più in ombra, quello di appalto alle PMFs della violenza che gli Stati non sono più in grado o disponibili a esercitare.

Latita assolutamente, intanto, una discussione sulle questioni etiche della soluzione privata ai problemi di sicurezza e, di conseguenza, sui limiti legali e morali all’impiego delle PMFs da parte delle TNCs (alcuni Stati più toccati dal fenomeno delle PMFs – USA, Gran Bretagna, Sud Africa – e le organizzazioni umanitarie perlomeno hanno cominciato a interrogarsi). Nella vaghezza della normativa e della sua supervisione, l’accettazione della necessarietà di queste pratiche va raggiungendo degli estremi, forse, di non ritorno. La punta del processo, e quella a cui si deve il poco d’attenzione che la questione riceve, è quello dell’occupazione dell’Iraq dove il primo alleato delle armate angloamericane è composto da appaltatori privati (The Economist l’ha soprannominata la prima guerra privatizzata), e dove per compensare i costi dell’operazione, l’autorità occupante ha – in palese contrasto con la legge internazionale – provveduto immediatamente a privatizzare l’intera economia per venderla a TNCs amiche. Fiduciosi nella politica del fatto compiuto (I – creare il proprio mercato con ogni mezzo; II – introdurre regole da una posizione di vantaggio), i registi della transizione confidavano proprio nella capacità delle TNCs di sostituirsi nel medio termine alla mano pubblica, con ciò intendendo anche l’autonomia nel proteggere i propri affari. Il fatto che il disegno stia incontrando ostacoli più alti del previsto non inficia la potenza della visione alle sue spalle.

Di nuovo, sorge la questione dei limiti etici a tale condotta degli affari: proprio perché limiti politici, giuridici, economici non sussistono o sono facilmente ignorabili, l’impresa, che s’è mossa in questi anni verso l’extraterritorialità e verso il riconoscimento della propria sopravvivenza come fonte unica normativa, può riconoscersi altresì portatrice di preferenze morali? Se, fino a poco tempo fa, erano marginali convinzioni come quelle di Serge Latouche sull’essere la teoria economica basata sull’indifferenza etica; sulle leggi morali (quali regole di condotta) come le leggi giuridiche destinate a regolare il comportamento dei soggetti ma non in materia economica; oggi il sentimento della crisi è sempre più condiviso. Ormai tutti i soggetti che operano oltre frontiera (anche le PMFs) si son dati codici etici ma, di fatto, non affrontano il valore etico delle proprie strategie, in particolare il nodo sempre più stretto della loro militarizzazione. Si può trovare un modo per invertire questo corso delle cose?

Intanto, nel compiersi del tragitto della parabola evocato prima, l’integrazione fra TNCs e PMFs (di cui la ex compagnia del vicepresidente americano Cheney – la Halliburton – è il caso più avanzato e, quindi, paradigmatico) fa presagire il ritorno delle compagnie-stato, con potere di vita e di morte nei territori a esse assegnati o (ed è una prospettiva assai più spaventosa ma parimenti realistica) da esse conquistati.

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