BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 10/04/2006

SUI BENEFICI DELL'ASSENZA DI MODELLI: USA, GB, FRANCIA, ITALIA. IMMIGRAZIONI E URBANISTICHE A CONFRONTO

di Guido Tassinari

Sui benefici dell’assenza di modelli (1): USA, GB,, Italia, immigrazioni a confronto

Uno dei più persistenti luoghi comuni nelle analisi delle migrazioni – purtroppo anche quelle degliesperti – è che i paesi ospiti debbano governare l’immigrazione, e che per fare questo debbano scegliere, e seguire, un modello d’integrazione; possibilmente discernendo fra le esperienze accumulate dai paesi di più antica immigrazione, quelle di maggior successo. Due dei modelli più in voga, e più visitati, sono quelli statunitense e britannico, ma come tutti i luoghi comuni, anche questi vengono raramente discussi. Invece, anche un mero abbozzo di confronto fra i risultati sociali dei modelli – come quelli di Usa e Gb - e quelli delle immigrazioni cresciute altresì caoticamente – come in Italia – potrebbe illuminare di una luce meno convenzionale le correnti sociali più profonde – e meno governate e governabili – nelle quali si inseriscono le migrazioni. Potremmo perciò cominciare a porre la società italiana e quelle anglosassoni sotto questa lente, e vedremmo come l’assenza di un progetto immigratorio abbia permesso in Italia la formazione, silenziosa ma pervasiva, di una società mista, mentre i due modelli di più lungo bordo – il multiculturalismo inglese e il melting-pot statunitense – pur con premesse opposte siano entrambi risultati in società segregate. E come ci fosse più miscuglio nella rigida società di classe inglese ante-politiche immigratorie; e, negli Usa, il crogiolo (1) abbia smesso di fondere old- e new-comers proprio in corrispondenza della crescita di misure attive di integrazione.

 

A giustificare questi apparenti paradossi, sia sufficiente per ora prendere in esame due dei principali indicatori di integrazione: il tasso di meticciato e la violenza intergruppo (2). All'inizio degli anni Novanta, in Italia, la quota di matrimoni con almeno uno straniero era pari al 3,2% di tutte le unioni celebrate; nel 2003 questa percentuale è salita al 10,3. Nel 2005, è viaggiata verso un sesto del totale, con il picco a Milano, dove il del 30% dei matrimoni sono unioni con o fra stranieri (su 4.139, sono 1.260 dei quali 856 i matrimoni misti – cioè il 68% - e di questi per i 3/4 il marito è italiano, nel restante quarto lo è la moglie). Se si tenesse conto delle unioni di fatto (sulle quali però non vi sono dati disaggregati affidabili) probabilmente la dinamica apparirebbe ancor più accelerata. Per converso, in Gran Bretagna le coppie miste sono addirittura in calo, e oggi ammontano al 2%; e negli Stati Uniti, dove pure dal 1960 sono cresciute di dieci volte, raggiungono oggi a malapena il 4%, quando invece finché l’immigrazione è stata sostanzialmente sregolata (ossia fino a un secolo fa) le varie ondate di nati all’estero tendevano a mischiarsi e confondersi nel giro di pochi lustri, al punto che oggi una coppia, per esempio, italo-irlandese non è nemmeno più considerata mista.

 

Ritornando a Milano (ma il discorso potrebbe essere più o meno riprodotto per Roma, Napoli, eccetera), negli ultimi tre lustri gli stranieri extracomunitari residenti sono passati dal 2/3% a circa un quarto della popolazione. Non ci sono stati scontri di piazza; non sono andate in fiamme le periferie; non sono collassati i servizi pubblici alla persona; non è significativamete aumentato il tasso di violenza sociale; non si riscontrano – in definitiva - tendenze alla sistematica violenza intergruppo, il nostro altro indice d’elezione. E ciò neanche dopo i recenti autorevoli incitamenti all’odio interetnico o a seguito degli allarmi su attacchi terroristici da parte delle quinte colonne immigrate da paesi musulmani. Per converso, in quasi tutte le metropoli britanniche e nordamericane sono presenti e attivi gruppi violenti motivati dall’autodifesa della nazione, e, per esempio, dopo l’11 settembre 2001 per settimane le autorità stesse consigliarono agli stranieri di limitare al minimo le uscite, poiché avrebbero potuto essere vittime di attacchi razzialmente motivati.

 

Sui benefici dell’assenza di modelli (2): Usa, Francia, Italia urbanistiche a confronto

New York è considerata l’immagine stessa della modernità urbanistica, e una delle più belle città del mondo, unanimemente o quasi – con la curiosa eccezione della vasta maggioranza degli statunitensi, che mai ci vivrebbe. La sua crescita, pur accompagnata quasi da principio da roventi scontri – fra costruttori, politici, urbanisti, comitati civici, semplici cittadini – sulla forma e il modello da seguire, è anche un monumento alle virtù della speculazione sregolata. A parte la parentesi dell’invenzione del Central Park – decisa 150 anni fa – i primi argini alla tumultuosa marea costruzioni-distruzioni-ricostruzioni che, ha dato volto alla metropoli, più che altro per iniziativa privata e in barba a qualsiasi modello urbanistico, sono infatti stati eretti solo negli anni Settanta, dopo la distruzione di uno dei landmarks più cari agli abitanti – Pennsylvania Station – e per prevenire quella, già autorizzata, dell’intera Soho, uno dei quartieri-simbolo (3). L’assenza di vera pianificazione centralizzata ha, tra l’altro, anche permesso un continuo ricambio degli abitanti dei quartieri e, in definitiva, un loro continuo miscuglio (così, per esempio, a metà Ottocento gli ebrei appena sbarcati dall’Europa occuparono le case per poveri del Lower East Side; poi, imborghesiti, si mossero a nord e fondarono Harlem; dopo, i figli, colonizzarono l’allora vergine Bronx; per poi spostarsi verso aree più abbienti a Brooklyn e, infine, vedere i loro figli tornare nel Lower East Side ora ch’è l’ultima tendenza di moda).

 

Parigi, ugualmente, è considerata una delle più belle città del mondo, unanimemente o quasi – con la curiosa eccezione della maggioranza dei francesi, che mai ci vivrebbe. La sua crescita, però, è stata segnata da grandi progetti urbanistici pubblici, in particolare – negli ultimi decenni – dalla costruzione di grandi quartieri di edilizia popolare, le famigerate banlieus (4), oggi portate a simbolo del fallimento delle politiche assimilazioniste francesi.

 

Milano, pur non essendo considerata la città più bella del mondo da nessuno o quasi – con la curiosa eccezione di qualche lumbard che, però, parimenti, mai ci vivrebbe – ha visto in questi anni ripartire, dopo un trentennio di sostanziale immobilità, il processo di continuo rifacimento di sé stessa che ne ha attraversato la storia. Nel contempo, la cittadinanza è cambiata in profondità, con l’arrivo di trecentomila stranieri, che però hanno popolato gli spazi disponibili, senza venire incasellati in alcun modello urbanistico o integrativo. Di fronte ai milioni di metri cubi edificabili, e ignorando che gli ultimi grandi progetti urbanistici italiani e milanesi – quelli del ventennio dell’edilizia, 1950-70 - abbiano prodotto gli orrori che ora facilmente si condannano, si invoca il ritorno della pianificazione del territorio urbano in nome - anche - dell’esigenza di risolverel’emergenza abitativa degli immigrati.

 

Ma se dovessimo scegliere fra New York e Parigi, fra caos e modello, saremmo sicuri di quale strada seguire per trovare alla fine i maggiori benefici?


1 - Melting-pot in italiano si traduce con calderone o crogiolo.

2 - Ma potremmo continuare l’analisi con altri indicatori, come quelli di mobilità sociale, giungendo a conclusioni simili.

3 - Il motore speculativo s’è inceppato solo recentemente, e non è un caso che se negli anni Sessanta fu possibile a un gruppo privato progettare e costruire pressoché in silenzio quell’assurdità urbanistica che erano le torri gemelle del World Trade Center, ora è un lustro che i lavori di riedificazione dell’area distrutta dai terroristi sono completamente bloccati e non c’è ancora un progetto da seguire.

4 - Che al tempo della loro gestazione negli anni Settanta rappresentarono, tra l’altro, la variante francese di un modello di urbanistica desegregativa concepito – e fallito - negli Stati Uniti nella decade precedente.

Pagina precedente

Indice dei contributi