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Pubblicato in data: 15/05/2006

L'INVASIONE DEGLI ULTRARICCHI: BILL GATES E IL FILANTROPO

di Guido Tassinari

 

WHILE busy carving up the country into baronies, overrunning the social capitals, penetrating the schools and the churches, the captains of industry worked also with unremitting vigilance in the field of political action.  Here public opinion, as it accepted the pecuniary doctrines of the railway or industrial magnate, seemed also to welcome his penetration, through the government, into the highest assemblies of the country: the Congress, the Senate, and even sometimes the President’s cabinet.

Matthew Josephson, The Robber Barons (1)

 

Nel 1933 lo scrittore americano Josephson resuscitò e popolarizzò l’epiteto di barone-ladrone (2), applicandolo ai giganti del suo tempo: da Rockefeller a Frick, da Carnegie a Morgan, da Stanford a Vanterbilt. Cioè i grandi monopolisti dell’industrialismo tardottocentesco; dalle smisurate ricchezze, dallo smisurato potere, e dalle smisurate elargizioni filantropiche. Oggi, se googleassimo in cerca dei new robber barons, il primo nome su cui c’imbatteremmo sarebbe probabilmente quello di Bill Gates, grande monopolista (il più grande di tutti i tempi: non ci sono precedenti di un solo uomo in controllo mondiale di un bene di prima necessità) e grande filantropo. Di entrambe le epoche, quello che colpisce di più, in un primo momento perlomeno, è l’apparente contraddittorietà fra le loro intraprese sociali e quelle affaristiche; per cui, per esempio, Rockefeller nello stesso respiro poteva ordinare di costruire un ospedale per poveri e di inviare l’esercito a massacrare gli operai in sciopero; e Gates può minacciare di ritorsioni i governi che violino gli accordi del Wto sui diritti d’autore (che, tra l’altro, impediscono in Africa di produrre generici sostitutivi dei farmaci anti-Hiv protetti da licenze) e insieme finanziare vaste campagne di vaccinazioni gratuite.

 

Contraddizioni che però svaniscono, se a questi parallelismi, spesso richiamati, fra la traiettoria storica delle stelle della Gilded Age e quella del padrone di Microsoft – genialità e spregiudicatezza che li portano in primis all’accumulazione di immense fortune; misticismo e cinismo che gli fanno poi avviare potentissime fondazioni che, come amano dire i loro compatrioti, reinventano il concetto stesso di filantropia – ne affianchiamo un altro, meno indagato, che credo aiuti a comprendere il vero carattere delle fondazioni statunitensi e, quindi, a trattarle non come curiosi sintomi della shizofrenia dei loro inventori, bensì come parte integrante della loro impronta sul mondo. Non intendo discutere delle – poco rilevanti e, almeno per me, poco interessanti - motivazioni che li spingono a impiegare enormi patrimoni (3) in opere almeno apparentemente no profit (4) (religiosità, megalomania, pubbliche relazioni, senso di colpa, elusione fiscale..); piuttosto, dell’effetto di tali impieghi, che è invece assai rilevante, spesso anche al di là delle intenzioni dei loro deus ex machina.

 

Senza girarci ulteriormente attorno, oggi come un secolo fa, la parola-chiave per entrare nel mondo parallelo degli ultraricchi filantropi è controllo. Se, per esempio, a New York provengono da estates dei suddetti baroni pressoché tutti i musei; i maggiori festival delle arti; i fondi per le bibiloteche e per le scuole; le più importanti cattedre universitarie; i più grandi istituti di ricerca scientifica; le mense per i poveri e i programmi di venture philanthropy o di community development. O se a Seattle come nella Silicon Valley i baroni della nuova economia costruiscono interi quartieri, compresi gli abitanti, a loro immagine e somiglianza; il tratto comune – ciò che costituisce la via americana alla filantropia – non è quello di mostrarsi (o anche, sinceramente, immaginarsi) magnanimi, bensì di volere diventare indispensabili per le vite altrui con ogni mezzo, inclusa la filantropia. Esattamente, né più né meno, il fine ultimo di ogni monopolista nello sviluppo della propria condotta d’affari.

 

E se l’effetto di questa commiserabile, costante – e anche patetica – ricerca di controllo da parte degli ultraricchi è, appunto, la loro progressiva occupazione di tutti gli spazi, compresi quelli di soddisfacimento dei nostri bisogni primari non soddisfatti dal mercato (secondo la loro idea di cosa debbano essere tali bisogni), il risultato, per noi altri, non può che essere uno: la diminuizione di spazio, ossia di libertà.


1 - Mentre si dedicavano alla spartizione del Paese in baronie, predando i capitali sociali, penetrando in scuole e chiese, i capitani d’industria lavoravano anche incessantemente nel campo del’azione politica. Qui l’opinione pubblica, mentre accettava le dottrine pecuniarie di questo o quel magnate, parve anche accogliere benevolmente tale penetrazione nelle più alte assemblee dello stato, dalla Camera al Senato a, persino, la Presidenza.

2 - Riservato nel medio evo ai nobili tedeschi arricchitisi depredando le ricchezze del popolo e degli stranieri che s’avventurassero nei loro domini

3 - Nel caso di Bill Gates, oltre venti miliardi di dollari (il due per mille dell’intero Pil americano); per Rockefeller, in dollari attuali, solo sei (ma che al tempo rappresentavano una porzione assai più vasta del Pil).

4 - Di quanto profit generino per le imprese – direttamente o indirettamente - le attività no profit da esse stesse avviate, magari tratterò in futuro, qui ci svierebbe dal discorso principale.

 

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