BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 05/09/2005
ENTI NO PROFIT E PERSONE SVANTAGGIATE

di Mauro Vaia

Ci sono cose che non si devono dire, perché spesso scomodano posizioni acquisite e solide, anche quando non sono necessariamente ben remunerate. Non ci sono solo le poltrone della politica, oggetto di contraddittorio nei discorsi della gente, ci sono anche altre realtà che dovrebbero essere portate in maggiore luce per aprire un dibattito sereno, serio e consapevole sul destino dei deboli, come sono ad esempio i disabili, gli inabili e gli orfani. Per favorire la riflessione introduco tre piani contestuali che permettano di collocare con precisione l'argomento.

Il contesto personale. Un breve inciso biografico: come studio di consulenza per la promozione della persona e delle organizzazioni mi occupo da tempo del terzo settore nelle aree della formazione e progetto, del coordinamento e sviluppo organizzativo, della promozione delle risorse umane, nella forma di collaborazioni sia esterne che interne alle strutture pubbliche e private, che spesso si strutturano in partecipazioni a finanziamenti misti. Da questa posizione specifica ho avuto occasione di pormi da osservatore sia esterno che interno. Questa prospettiva mi ha permesso di formulare alcuni interrogativi preoccupanti.

Il contesto storico. Dalla chiusura delle classi differenziali e dalle battaglie di psichiatria democratica si è venuta diffondendo una cultura di integrazione sociale del soggetto svantaggiato dove il paradigma culturale suona nel complesso così: "accettiamoli come sono, nella loro differenza". Questa buona intenzione guida di fatto sia il senso comune sia spesso le linee guida secondo le quali si procede nella gestione manageriale di Enti No Profit che hanno come mission il supporto allo svantaggio. Purtroppo questa formulazione è irta di ambiguità e spesso comporta non pochi problemi di carattere sociale e individuale.

Il contesto sociale. Il fatto che spesso gli Enti No Profit abbiano una collocazione ambigua favorisce alcune linee gestionali che diventano un vero e proprio problema culturale. Innanzitutto la bassa remunerazione e la forte esposizione al rischio spesso senza adeguate garanzie e preparazione, mettono i dipendenti in una condizione di drop out molto frequente. Inoltre i posti di dirigenza, meno remunerati di quelli For Profit, ma sicuri, non prevedono la necessità di conseguire necessariamente obiettivi di sviluppo per conservare il posto di lavoro. Questo fatto comporta spesso che l'attenzione principale della dirigenza e del management delle strutture No Profit sia più preoccupato ad evitare rischi e grane che non a investire nel conseguimento di risultati, nello sviluppo organizzativo e nella promozione delle persone. Anche di quelle svantaggiate. Accade così spesso che questi enti divengano luoghi di parcheggio di esseri umani anzi, spesso divengono parcheggi collettivi non solo per gli utenti, ma anche per dipendenti e dirigenti.

Gli effetti. Accade così spesso (e mi piace ricordare che esistono realtà illuminate gestite da persone motivate e capaci, ma che risultano in netta minoranza rispetto alle tendenze generali) che le strutture non promuovano la realtà degli utenti, le loro potenzialità, perché le linee di condotta si adattano alle idee dominanti della cultura tacite: "evita i rischi" "accettalo così com'è, l'importante è che non dia problemi". Ne consegue una preoccupante disattenzione alla persona, una gestione volta alla dimensione funzionale dell'individuo ma non al suo sviluppo, pratiche organizzative non rivolte ai bisogni dell'utenza ma ad altre considerazioni che risultano, chissà perché, sempre prioritarie. Alcuni esempi:

Molte organizzazioni, con un po' di umiltà, possono riconoscersi in uno o più elementi di quelli presentati. Il risultato più evidente è un clima di insoddisfazione collettiva e meccanismi di difesa invece che di promozione di tutte le individualità. Un'analisi realistica della propria cultura organizzativa può spingere alla revisione e alla ricostruzione di realtà più soddisfacenti.

È possibile diversamente? È possibile. A patto di compiere alcuni passi necessari a rifondare i principi che governano la mission che guida le organizzazioni e di conseguenza le scelte strategiche, le pratiche e i comportamenti che vengono attuati nelle realtà interne degli enti No Profit che si occupano di categorie svantaggiate.

L'alternativa. Nel 1988 usciva "Non accettarmi come sono - Un approccio nuovo per affrontare la sindrome di Down", di R. Feurstein, Y. Rand, J.E. Rynders. Sembra un paradosso. Le parole di un bimbo Down rivolgono questo messaggio diretto a chi si occupa di persone svantaggiate, tramite un forte Tu buberiano: "non accettarmi così come sono" che si può declinare in maniera più forte: "pretendete che questi deboli divengano ciò che possono diventare, non limitatevi a lasciarli dove sono ora!" Questa affermazione è da un lato un'assunzione di responsabilità immediata e forte nei confronti di tutti coloro che, nel No Profit, si occupano di svantaggio, poiché ogni azione, ogni decisione dovrebbe essere programmata con questo preciso intento: assumersi la responsabilità di non accettare i propri utenti così come sono, ma di potenziare tutti i residui a disposizione. Non a parole, ma nella pianificazione di azioni individuali, collettive e organizzative che garantiscano risultati misurabili e osservabili in maniera evidente. D'altra parte questa posizione suona come un paradigma nuovo e rivoluzionario. Accettare la diversità ma non accettare la differenza quando è svantaggio. Promuovere la riduzione di questo gap che divide il Tu che mi sta di fronte da me. Tolleranza: che brutta parola. Fa capire che chi tollera si trova in una posizione di supremazia, superiorità ma, peggio, che permette all'altro, il diverso, di restare diverso. È l'evidente atteggiamento di chi, in questo modo, conserva la propria superiorità. E allora dove sta la solidarietà, la carità, il no profit? No profit significa anche, e innanzitutto, non vantaggio: significa responsabilità perché il vantaggio che ho giocoforza nel momento in cui mi occupo di uno svantaggiato si riduca al minimo, sulla realistica valutazione delle potenzialità sue. Ebbene: assumiamoci questa responsabilità di essere realmente no profit. Riduciamo lo svantaggio. Costruiamo o rifondiamo enti No Profit che abbiano la loro mission evidente ed esposta a valutazione di tutti i portatori di interesse. I primi dei quali famiglie e cittadini interessati alla promozione della persona. Non sono più necessari proclami intorno ai diritti dei disabili e dei bambini senza famiglia. Servono azioni congiunte di sviluppo e di valutazione delle azioni intraprese. Servono leggi che permettano di raggiungere l'adozione senza perdersi nella burocrazia ma intorno alle esigenze dei bambini senza famiglia, Che restano, in troppi, nei centri. Ogni anno si perdono seimila domande su novemila. Si tratta di seimila famiglie incoscienti, o forse la legislazione italiana non dà risposte efficienti? Ogni anno seimila bambini restano nei centri senza famiglia. Seimila anno dopo anno. Perché due terzi delle famiglie che fanno domanda per raggiungere un'adozione non riesce a raggiungerla? Perché è incapace? È utile investire politicamente per estendere il diritto all'adozione o per permettere ai bambini di avere una famiglia?

Chi è il portatore di interesse? Il bambino senza famiglia? Oppure il single? O ancora l'agenzia no profit?

Poche domande: chi verifica gli interessi e i programmi di sviluppo individuale delle categorie deboli? Chi verifica l'efficienza organizzativa delle organizzazioni no profit rispetto alla mission e agli obiettivi da raggiungere? Chi ha interesse preciso verso queste Persone? Quali sono i diritti delle persone svantaggiate e chi deve garantire che siano rispettati e garantiti?

Non vi è dubbio: tutta l'area del terzo settore deve essere adeguata alle nuove realtà e alle nuove sfide, con il supporto di leggi aprropriate e dell'attenta verifica del territorio e dei cittadini. Il richiamo ai valori della persona deve essere compiuto attraverso percorsi di nuova imprenditorialità che conservino al centro i nuovi paradigmi: non accettare lo svantaggio per quello che è ma promuovere realtà di sviluppo che riducano al minimo le posizioni di debolezza. Mettere al centro dell'interesse il debole. Per ridurre al minimo questa debolezza. Ma non devono essere singole realtà illuminate del terzo settore che conseguono questo risultato. Deve essere l'intero terzo settore a investire in modo trasparente in questa direzione, per potersi fregiare del titolo di "No Profit".

C' è molto da fare. Queste considerazioni intendono sollecitare una riflessione sulle modalità migliori per mantenere la centralità dell'interesse intorno alle categorie deboli. Spesso purtroppo l'interesse infatti si sposta su questioni laterali, personali, che non riguardano affatto il motivo per il quale un ente non profit esiste: la promozione di azioni che permettano al soggetto svantaggiato, centro dell'interesse, di superare completamente o, realisticamente, in parte quello svantaggio. Solo a partire da questo nucleo tematico è possibile compiere una riflessione etica sulle strategie, sulle azioni, sulle scelte manageriali che il terzo settore deve compiere.

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