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Pubblicato in data: 27/06/2005
L'IGNORANZA DEL FILOSOFO

di Francesco Varanini 

Chi sono i filosofi? Li pensiamo pensatori dediti a raffinati esercizi mentali, persone diverse da noi poveri consulenti e formatori, dediti a muoverci su un terreno pragmatico, legati a risultati concreti e tangibili.

Guardiamo all’origine del loro nome, guardiamo a cosa intendeva per ‘filosofo’ uno dei filosofi per eccellenza. Leggiamo Platone(Fedro, leggibile ora in edizione Mondadori, Oscar Classici). Socrate dialoga con Fedro, e si interroga attorno al nome più adeguato per questa figura professionale, nella quale si riconosce. Il nome della figura –diversa da quella del poeta, dello scrittore o dell’estensore di leggi– non dovrà fare riferimento, argomenta Socrate, al fatto che uno ha scritto qualche opera, “bensì agli argomenti ai quali si è dedicato seriamente”.

‘Quale è dunque il nome gli attribuiresti’, chiede Fedro. E Sofocle: ‘Mi sembra che il nome di sapiente (σοφός) sia troppo e che si addica solo a un dio. Gli si adatterebbe piuttosto , e suonerebbe meglio, il nome di amantedella sapienza (φιλόσοφοσ), o un nome del genere’.

Questo diceva di sé Platone. Sono passati duemilatrecentocinquanta anni, all’incirca. E sembra che oggi i filosofi, più che comportarsi da ‘amanti della sapienza’, si atteggino, presuntuosamente, a sapienti. Eppure, cadendo sotto la scure della critica di Platone, non hanno “nulla di più prezioso di ciò che hanno composto o scritto”, “rivoltandolo su e giù” e “incollando l’uno con l’altro” pezzi di discorsi, sempre gli stessi discorsi.

In realtà, più che pensare in proprio, questi filosofi montano e rimontano pensieri altrui, i pensieri dei filosofi che li hanno preceduti. Usano, per esempio, il pensiero di Platone, ma comportandosi in modo opposto a Platone.

Platone, in quello stesso dialogo che abbiamo citato, criticava la scrittura. La scrittura è una tecnologia destinata alla conservazione delle informazioni. La facilità di conservare, diceva Platone, spinge rischiosamente verso una conoscenza intesa come scatola chiusa, usata ripetitivamente, senza un contributo personale.

Passiamo ora a un filosofo nostro contemporaneo, Umberto Galimberti. Lui non critica, come Platone, una tecnologia. Ma la tecnologia in generale. Per lui è la bestia nera.

Date uno sguardo, o leggete per intero, se volete, Psiche e Techne. L'uomo nell'età della tecnica (Feltrinelli). Ciò che inquieta e turba il filosofo l’assenza di “finalità” e di “riferimenti” che caratterizza, a suo dire,la tecnica. “La tecnica non tende a uno scopo che non sia il proprio autopotenziamento, non promuove un senso che non sia il semplice e illibato sviluppo, non apre scenari di salvezza, non redime, non svela la verità”.

Per Galimberti oggi la tecnica “tende a far passare la delocalizzazione” per “espressione di libertà.” Siano dunque maledette le tecnologie che favoriscono le “comunicazioni immateriali”: “telefono, televisione, e-mail, Internet”. Esse producono “dissociazione sociale”, “provvisorietà”, “precarietà”. Lo “sfrenato processo innovativo” produce “un impulso verso un perfezionamento autodistruttivo di cui forse non abbiamo scoperto il fondo”.

Più che sforzarsi di guardare al fondo, basterebbe forse che il filosofo fosse disposto ad osservare serenamente la superficie. Forse farebbe meglio il filosofo a studiare e cercare di comprendere cosa è veramente l’Information & Communication Technology.

Potrebbero così anche coglierne le finalità sociali, comprendere come questi strumenti possono essere utilizzati per costruire, ci si passi la modesta e forse retorica espressione, quel mondo migliore che i politici, i detentori dell’arte della praxis,non sanno darci.

Dove sta la differenza? Platone criticava una tecnologia allora emergente, la scrittura. La combatteva, anche, possiamo presumere, perché avrebbe cambiato il mercato della diffusione della conoscenza. Il suo personale mercato si fondava sull’oralità. La scrittura era una grave minaccia.

Ma quella tecnologia nuova che cresceva sotto i suoi occhi e che cambiava il mondo, allora, Platone l’aveva ben studiata, ne aveva compreso le caratteristiche, le modalità di funzionamento, i riflessi sul pensieroe sul lavoro umano. Platone, insomma, parlava di tecnologia – ma la tecnologia sapeva maneggiarla.

Galimberti, invece, a quanto pare, parla senza sapere di cosa parla. Non pare abbia idea di cosa sia la digitalizzazione delle informazioni, un data base, il software, il web. Parla delle tecnologie di oggi avendo in mente tecnologie che erano nuove ai tempi di Platone, duemila anni fa: la memoria del cantore orale, la tavoletta di cera, la scrittura su carta.

È un peccato. Avremmo bisogno di menti acute che ci aiutassero a trarre profitto dalle tecnologie. Amanti della conoscenza, filosofi, consulenti, formatori, un nome qualsiasi del genere va bene – purché si tratti di persone sinceramente dedite a comprendere come funziona la ‘società dell’informazione e della conoscenza’.Persone che ci aiutino a comprendere come la tecnologia muta la struttura sociale e il mondo del lavoro.

Anche acuti critici possono fornire un contributo – purché le cui critiche siano fondate su una conoscenza dell’oggetto.

E invece ci ritroviamo con studiosi che fanno dire alla tecnologia quello che non ha mai detto. Studiosi che, siccome non sanno usare il computer, scrivono libri per sostenere che il computer è pericoloso.

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