BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 19/09/2005
PERSONE & CONOSCENZE: CRESCITA DI UN PROGETTO

di Francesco Varanini 

In questi giorni sta per essere chiuso il tredicesimo numero di Persone & Conoscenze (www.personeeconoscenze.it) – rivista che nasce da una costola di Bloom! per trattare su carta, con più cura nei dettagli, gli stessi temi ai quali dà spazio Bloom!.

Come per Bloom! i contenuti della rivista hanno un filo conduttore che credo sia chiaro, ma che si evolve in continuo, emergendo in modo di volta in volta diverso a partire dagli stimoli dei lettori e dalle proposte, convergenti ma anche portatrici di differenze, di un gruppo di collaboratori fedeli.

L’Editoriale di ogni numero della rivista è frutto di riflessioni contingenti, legate al momento, e di uno sguardo di insieme sui contributi di ogni numero. Io stesso, rileggendo, colgo nessi tra Editoriale e Editoriale che solo ora mi risultano evidenti.

Ricordo che la possibilità discrivere su Bloom!, e su Persone & Conoscenze non è riservata a pochi eletti. Anche voi che ora state leggendo potete farlo. In fondo –e la Rete lo dimostra ogni giorno di più– siamo tutti autori e tutti lettori.

Francesco Varanini

 

Editoriale, n. 7, Gennaio/Febbraio 2005

Cerchiamo di ricordare come stavano le cose in Italia nel 1970. Tensioni e disagi covati da tempo nelle piaghe di una crescita convulsa vengono allo scoperto. Il modello di sviluppo è messo in discussione da profondi cambiamenti del mercato delle materie prime e dell’energia, da una più dura competizione nei mercati di sbocco, da nuovi equilibri nel sistema monetario internazionale e nei mercati finanziari.

Nel 1968 era esplosa la contestazione studentesca. La società del miracolo economico ha promesso benessere e successo per tutti, che in realtà non può offrire.

Nel '69, con una forza che né i sindacalisti né gli imprenditori avevano previsto –38 milioni di giornate di sciopero– viene alla luce la ‘questione operaia’. Il rinnovo contemporaneo di 32 contratti collettivi di lavoro, lo sciopero generale del 19 novembre che coinvolge 20 milioni di lavoratori, impongono un più alto livello di contrattazione.

Le finalità dell’azione sindacale si allargano al di là del campo retributivo e del miglioramento delle condizioni fisiche e materiali del lavoro. Vanno oltre anche il controllo del mercato del lavoro. Il sindacato, spinto dalla base, entra con forza nel campo dell’organizzazione del lavoro.

Alle direzioni aziendali arrivano così contemporaneamente due diverse spinte: la spinta di un mercato che cambia, la pressione dei lavoratori. Così, le teorie e le pratiche di gestione fino allora usuali si rivelano inadeguate.

Ecco che allora si guarda all’America, e si cerca di importare da noi modelli per noi nuovi di direzione, di governo e di sviluppo delle organizzazioni orientate al profitto.

Esistevano allora da noi diversi modelli e diverse culture di direzione, ognuno frutto di una differente storia –Fiat, Pirelli, Olivetti, Eni, Iri– ma il management, inteso come disciplina complessiva, generalizzata, basata su standard internazionali, inteso come insieme di saperi che vanno oltre l’organizzazione del lavoro centrato sulla fabbrica, e che abbraccia e tiene insieme gestione e sviluppo delle risorse umane, marketing, finanza – il management arriva solo con gli inizi degli anni settanta.

Non a caso proprio nel 1970, uno stesso gruppo di persone è promotore di due iniziative esemplari: il lancio della prima vera rivista italiana di management, Sviluppo & Organizzazione (pubblicata dalla ESTE, lo stesso editore di Persone & Conoscenze), e la fondazione dell’ISTUD, la prima Business School italiana, calcata sul modello di Harvard.

L’interesse a ricordare quel momento di passaggio sta nella consapevolezza di essere, oggi, di fronte ad un momento di passaggio altrettanto notevole.

Oggi la categoria sindacale più forte, e più ambita da quadri è dirigenti sindacali, è quella dei pensionati. Le riforme sociali, sia pure monche e precarie, che negli anni '70 avevano preso il nome di ‘Stato sociale’, si rivelano troppo onerose, o inefficaci. In un quadro di mobilità, flessibilità, precarietà, è ridiventata centrale la capacità individuale di negoziare per sé condizioni ed opportunità di lavoro.

Siamo di nuovo di fronte a cambiamenti di scenario: globalizzazione; flussi migratori; spostamenti di attività lavorative verso regioni del pianeta prima periferica; ruolo crescente giocato dalle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione.

Acquistano importanza la centralità della persona; l’attenzione alle radici etiche che stanno alla base dell’imprenditorialità e della scelta di impegnarsi in attività dirigenziali; la lettura delle culture; la valorizzazione delle diversità; la riflessione sul lavoro collaborativo e sul funzionamento delle reti sociali; l’uso costruttivo dell’Information & Communication Technology.

In una parola, il management arrivato da noi agli inizi degli anni settanta non basta più.

Ci troviamo di fronte all’esigenza di inventarci qualcosa. Riscoprire, ripensare, fare una nuova sintesi, proporre modelli. Persone & Conoscenze nasce in questo contesto, a partire da questa esigenza. Si propone di dare qualche contributo in questa direzione.

Editoriale, n. 8, marzo 2005

Conosco un amministratore delegato che giocando la nipotina, in età da scuole elementari, ha scritto insieme a lei racconti polizieschi. Non credo che molti manager scrivano romanzi polizieschi insieme alle nipotine. E quei pochi che lo fanno sono portati, dal mondo in cui si muovono, a vergognarsene o a tenerlo nascosto.Eppure il gioco, si sa, è la fonte della creatività, risorsa fondamentale per ogni manager e imprenditore e ogni persona che lavora.

Conosco una dirigente che giocando con la nipotina, in età da scuole elementari, ha scritto insieme a lei un libro che è una raccolta di personaggi e di comportamenti eccentrici. Questa dirigente lavora in una grande casa editrice. Naturalmente la casa editrice non ha preso in considerazione il libro. Perché chi è editor o redattore non può accettare che una persona che fa il manager, e che non scrive per professione, possa scrivere libri per bambini. Come se non contasse nulla l’amore per il bambino con il quale, e per il quale si scrive. Come se la creazione di libri dotati di un riconoscibile valore non radicasse proprio nella capacità di provare amore e affetto.

Guarda caso, questa casa editrice cerca ora di stimolare la creatività dei propri dipendenti. Ma per farlo non si affida alla ricchezza delle persone, non si preoccupa di scoprire come le persone manifestano la creatività dove possono, cioè magari al di fuori di ore di lavoro. L’azienda cerca di stimolare la creatività costringendo i dipendenti a partecipare a corsi tenuti da un vecchio guru, che della creatività ha fatto una professione (e dubito che si diverta ancora a fare quello che fa). La creatività deve essere manifestata attraverso progetti elaborati in gruppo, nel rispetto di un rigido schema.

Intanto, quel libro scritto per piacere e per affetto, non certo nato per il mercato, ma per questo nuovo rispetto ai libri già sul mercato, è stato pubblicato da un altro editore.

Conosco anche un’altra dirigente d’azienda, che ha una seconda vita, una vita parallela a quella di dirigente, purtanto esigente in termini di impegno e di tempo assorbito. In questa seconda vita questa donna è una attrice. Qui, mi pare, le cose sono andate in un modo diverso. La seconda vita suscita magari meraviglia e qualche dubbio, ma è nota in azienda, è rispettata e anche valorizzata. (Questa storia è raccontata in prima persona nell’articolo che apre questo numero di Persone & Conoscenze).

Ora ho sotto gli occhi il Corriere Lavoro, allegato al Corriere della Sera del 18 marzo. L’ultima pagina è interamente dedicataall’annuncio pubblicitario di Buongiorno pigrizia, Bompiani. Un libro subito entrato anche da noi nella listadei best seller. (Lo prevedeva Morpheus recensendo sul numero 4 di Persone & Conoscenze, l’edizione originale francese). Portare nel lavoro le proprie emozioni e la propria creatività? No. “Sopravvivere in azienda lavorando il meno possibile”.

Ma ciò che mi appare stupefacente è la citazione elogiativa di Ferruccio de Bortoli, Direttore del Sole 24 ore, riportata sulla stessa pagina. “Questo libro di Corinne Maier è il manifesto del riscatto aziendale dei quadri intermedi, la loro affermazione di identità e di dignità”.

Ma quale riscatto, quale affermazione! “Fare il meno possibile per non disturbare e aspettare la paga a fine mese” significa rinunciare alla dignità, non è certo un modo per affermarla. E se poi l’atteggiamento è premiato dal positivo giudizio del giornale della Confindustria, allora il nostro paese può chiudere bottega.

Consiglierei a tutti di rileggersi La chiave a stella di Primo Levi. È “profondamente stupida” la retorica di chi tende a denigrare il lavoro, “a dipingerlo vile”. “Come se chi lavorare non sa, o sa male, o non vuole, fosse per ciò stesso un uomo libero”.

Il segreto sta, invece, “nell'amare il proprio lavoro”. L’impegno posto nel portare nel lavoro, nonostante tutto, la nostra personale ricchezza, “costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra”.

Editoriale, n. 9, aprile 2005

C’è del nuovo all’orizzonte di quelle che chiamavamo ‘Direzione del Personale’. Cambiamenti di grande portata sono sotto gli occhi di tutti.

Non c’è ‘Direzione del Personale’ che non si avvalga di Sistemi Informativi dedicati, ‘software HR’ più o meno integrato. C’è da definire l’architettura logica di basi dati, e poi da gestirle, c’è da organizzare informazioni provenienti da procedure diverse. Poi, compete oggi quasi sempre alla‘Direzioni del Personale’ farsi carico dei progetti di Intranet, o Internal Portal. E non dimentichiamo che alle attività consuete di formazione si aggiunge l’e-Learning.

Insomma, competenze relative all’Information & Communciation Technology devono essere oggi necessariamente presenti presso ogni ‘Direzione del Personale’. Si deve quindi lavorare per elevare la cultura informatica tanto delvertice della funzione come dei professional. Perché il rischio di dipendere, sia per la gestione, sia per scelte strategiche, dalla Direzione Sistemi Informativi è alto.

C’è poi la questione degli ‘asset intangibili’. Sono asset intangibili i brand, i brevetti, le attività di ricerca e sviluppo. Lo sono, anche, le competenze, le conoscenze, le capacità delle persone. Negli asset intangibili, si sostiene, risiede la vera ricchezza di ogni organizzazione.

Gli asset intangibili, però, appaiono sfuggenti, difficilmente misurabili. Si impone quindi l’esigenza di sottoporli ad univoci criteri di gestione, a standard di valorizzazione e di controllo. Ora, chi dovrà occuparsi di tutto questo?

È una responsabilità non da poco. Che ci sembra sensato affidare a chi da sempre gestisce i più ricchi asset intangibili – le competenze, le conoscenze, le capacità delle persone. Insomma, anche per questo verso la presumibile area di attività della ‘Direzione del Personale’ si allarga. E impone la conoscenza e l’uso di tecnologie dedicate.

Strettamente legata al tema degli ‘asset intangibili’, la questione del Knowledge Management. Possiamo porla in questi termini. Nessuna organizzazione può permettersi che le conoscenze siano esclusivo patrimonio delle persone. Ciò era difficilmente evitabile quando non esistevano le tecnologie per organizzare e rendere accessibili le informazioni tramite basi dati. Ma oggi le tecnologie esistono.

Ci si deve preoccupare di far sì che le persone ‘rilascino’ e ‘depositino’ le conoscenze in luoghi accessibili. Perché la flessibilità e la mobilità –caratteristiche intrinseche del mercato del lavoro che abbiamo sotto gli occhi–rendono poco probabile che una persona capace resti all’interno della nostra organizzazione per più di due o tre anni. E perchéil trasferimento delle conoscenze per via di affiancamenti e training on the job è difficile e lento e scarsamente affidabile. E –ancora– perché le conoscenze incrementano esponenzialmente il loro valore se sono state create le condizioni per connettere i saperi detenuti da singole persone, o da strette aree aziendali.

Decollano quindi progetti di Knowledge Management. A quale area affidarne la responsabilità? L’area certo più adatta è la ‘Direzione del Personale’: non a caso, a ben guardare, già ora gestisce –tramite la gestione delle persone che le detengono– le conoscenze.

Insomma: conta in prospettiva sempre meno una Direzione che gestisca i corpi delle persone. Conta un Direzione che sappia gestire –incentivare, stimolare– le loro menti, la produzione di conoscenza. Esappia conservare il ‘prodotto’ delle menti, Knowledge Management appunto.

Potremmo dunque concludere così. Al posto di ‘personale’, si preferisce ormai universalmente parlare di ‘risorse umane’. Ma se è vero quello che ho scritto fin qui, allora ci stiamo probabilmente muovendo verso una Direzione Risorse tout court. Una Direzione che abbia il compito di gestire ogni risorsa, ‘umana’ o ‘non umana’. O ancora: una Direzione che sappia gestire la produzione e riproduzione di conoscenza, di asset intangibili.

Dobbiamo chiederci se siamo preparati per questo. E forse, ancora prima, se ci stiamo accorgendo che siamo incamminati lungo questa strada.

Editoriale, n. 10, maggio 2005

Mi guardo intorno e vedo persone che stanno male. Persone collocate ai più diversi livelli gerarchici: impiegati, quadrie anche alti dirigenti.

Persone che conosco bene, e che parlano a ragion veduta. Stanno male perché amano il loro lavoro.

– e si trovano a lavorare in aziende che non solo non valorizzano questo amore, ma che anzi sono serissimamente impegnate a far danno a se stesse.

Persone che vedono perpetrate sotto i loro occhi enormi, crudeli ingiustizie. Persone che vedono compiere scelte stupide e meschine. Persone che vedono frustrato l’impegno, l’interesse, la dedizione. “Lavoro onestamente, mi pagano, ma il mio cuore non è a pagamento –non lo sarà mai!– e perciò è altrove”. Persone che avrebbero voglia di urlare: “Io a questa cazzutissima azienda comunque ci tengo!”. “Urlare a questa gente che se non muovono il culo per trovare una soluzione al cliente Caio, Caio ci manderà a ‘fanculo, seguito da Tizio, Sempronio, ecc. ecc., e allora potranno anche portarsele a casa le poltrone a cui sono tanti attaccati.”

Mi raccontano e mi scrivono perché condividono con me la convinzione che sia possibile incidere, fare qualcosa, anche nelle situazioni più difficili. Condividono la convinzione che anche dove il clima è negativo, è possibile trovare spazi per lavorare in armonia e con atteggiamento costruttivo. Anche se chi sta più in alto nella linea gerarchica non offre spazi, gli spazi, almeno in una certa misura, è possibile cercarseli da soli. Una rete di persone collocate in luoghi diversi dell’organizzazione può fare, per lo stesso business dell’impresa, ciò che i dirigenti non sanno o non vogliono fare.

Molti si sono dati per vinti, molti hanno consumato le energie necessarie per crederci. Altri hanno proiettato ogni loro interesse fuori dal lavoro, nel tempo dedicato alla famiglia o a lavori paralleli, non importa se retribuiti o non retribuiti.

Queste persone che conosco – uomini e donne, le donne però mi sembrano più disposte a ragionare su questo dolore, e più orientate a non arrendersi–, invece, e ci credono ancora. Pensano che si possa lavorare bene. Che un comprensivo interesse possa rimpiazzare l’ansia e l’irritazione. Che si possa lavorare con confidenza, fiducia, rispetto per se stessi, considerazione per gli altri, senza rabbia, con diligenza, vigilanza, sollecitudine, serenità d’animo. (Lo dicono in questo numero di Persone & Conoscenze –come è giusto che sia, ognuno a suo modo– Lauro Venturi e Ugo Lombardini).

Queste persone ci credono ancora, ma fanno fatica. Sono stanche, demoralizzate e deluse. Mi dicono: “L’organizzazione aziendale diventa sempre più caserma”. “Io posso continuare a pensare quanto vuoi su quello che si potrebbe fare di costruttivo per l’azienda, ma non servirà a nulla comunque”.

Qui voglio sottolineare un punto chiave, un punto che sta al centro del progetto di Persone & Conoscenze.

Ogni persona che ha l’obbligo morale di impegnarsi comunque nel lavoro. Impegnarsi per rispetto di sé stesso, anche se l’organizzazione non comprende e non rispetta e tantomeno premia.

Però la responsabilità di ognuno non può nascondere il fatto che c’è qualcuno sulle cui spalle grava una responsabilità speciale: i manager, la classe dirigente. A loro è affidata quella ricchezza sociale che sono le organizzazioni. A loro compete un buon uso delle risorse. È loro dovere, e allo stesso tempo loro interesse, creare le condizioni per lavorare bene. Solo così una impresa può ottenere risultati. Solo se la classe dirigente è all’altezza del compito il nostro paese avrà un futuro di cui si possa andare orgogliosi.

Non è un problema che qualcuno possa risolvere per noi. Se noi che a diverso titolo apparteniamo alla classe dirigente non ci guardiamo negli occhi, e non ci facciamo carico delle nostre responsabilità, se non consideriamo importante rispettare le persone, se non ci preoccupiamo di come migliorare, di come autoselezionarci e di come favorire il ricambio – non abbiamo futuro.

Editoriale, n. 11, giugno 2005

Sono forse questi gli anni peggiori della nostra vita? Penso all’Italia di oggi, al quadro sociale e politico e a cosa succede nel mondo del lavoro.

Certo, può sembrare strano considerare bui anni nei quali non soffriamo i danni immediati e le lacerazioni di una guerra, o le ferite di attentati terroristici, e il paese gode nonostante tutto di una ricchezza diffusa, e ci avviciniamo tranquillamente alle vacanze.

Ma non possiamo illuderci. Non stiamo camminando su un terreno solido, né possiamo dire che stiamo lavorando costruttivamente per il nostro futuro.

La grande industria scompare. Le grandi famiglie eredi di una tradizione imprenditoriale si rintanano nella gestione di rendite e di utilities. Al gusto dell’innovazione, al rischio imprenditoriale, al confronto sul mercato globale si sostituiscono atteggiamenti conservativi e prudenziali.

La piccola e media impresa, che aveva saputo rispondere ad ogni situazione difficile con una reazione creativa, sembra ora incapace di trovare il modo per continuare a competere.

La Pubblica Amministrazione non aggiunge valore al sistema paese ed è un peso sempre più oneroso.

La politica, condizionata dai propri equilibri interni e dalla difesa del proprio ruolo, non sa guardare al lungo periodo, non snellisce, non indirizza, non sostiene.

La sfiducia, la rassegnazione, la convinzione che stavolta non ce la faremo si diffondono.

Il clima è pesante. Il peso dello stress è duro da sopportare, ma lo stress è incrementato proprio dall’incapacità di orientare le energie verso uno scopo.

Cresce la tendenza a cercare giustificazioni esterne –la Cina, l’euro, le colpe di gestioni precedenti, gli errori del passato–. Eppure, ogni giustificazione può essere rovesciata. La Spagna sta facendo quello che noi non riusciamo a fare. Altri paesi al mondo affrontano situazioni difficili – ma con uno spirito meno negativo del nostro.

Ora, tutto questoè stato detto e ridetto. Ma è stato detto sotto forma di ricerche e inchieste fondate su accurata metodologia, sotto forma di commenti giornalistici. E resta una grande distanzatra le gli enunciati di intellettuali ed esperti, e il vissuto quotidiano di chi nel mondo del lavoro, nelle imprese private, nella pubblica amministrazione, sfanga giorno dopo giorno, scontrandosi con contraddizioni, vincoli e difficoltà di ogni genere. Cercando comunque di fare qualcosa, di agire per il meglio.

Qui entra in gioco Persone & Conoscenze. Si rivolge a persone disposte ad andare oltre alla rassegnazione. Dà voce ai manager, ai lavoratori, a chi vive dentro del mondo del lavoro e delle professioni. E può e vuole raccontare di un orientamento costruttivo, imprenditoriale, nonostante tutto fiducioso.

Racconta storie scritte da chi –anche in assenza di stimoli e di riconoscimenti– non si arrende. Storie di chi va oltre la lamentela, oltre il solito nostro modo clientelare digestire le relazioni. Storie di chi crede che la ricerca del carro a cui aggregarsi e la logica del cane non mangia cane non siano gli unici modi per fare carriera.

Basta con le storie di successi passati; basta con i modelli astratti, o buoni per altri luoghi e altre culture.

Serve fare appello alla conoscenza di noi stessi, serve portare a valore le nostre capacità. Serve dare credito ai nostri sogni e ai nostri desideri. Serve costruire la nostra storia personale come l’artista costruire l’opera, cercando anche una dimensione di gioco e di leggerezza.

Serve non fermarsi all’enunciazione, ed andare invece a fondo nelle cose. Serve ricordare che la furbizia non basta, e che dobbiamo tornare, senza vergognarcene, ad usare parole che sembrano di un’altra epoca: impegno, serietà, integrità, lavorare duro, fiducia in noi stessi e nel futuro.

Editoriale, n. 12, luglio/agosto 2005

Lavoriamo senza piacere. Andiamo in ferie, e torniamo dalle ferie. Anno dopo anno la stessa storia, la speranza forse vana di una vacanza più intelligenti, code in autostrada, code nei luoghi turistici, rincari, rumore, e poi in ogni caso il rientro, e subito la stagione del bugdet –l’obbligo di immaginare un futuro simile al passato–, le solite cose, il tran tran.

Sembra non esserci via d’uscita. Siamo vittime del nostro ruolo, spesso troppo lontani dalla nostra individualità, dalla persona che vorremmo essere. Subiamo aspettative e consuetudini non solo sul posto di lavoro, ma ancor più nel cosiddetto tempo libro, nelle abitudini di consumo. Siamo condizionati dal contesto. La vera individualità sembra inattuabile. Sembra impossibile liberarsi dalle forme di comportamento attese.E anche le forme di comportamento alternative si trasformano in mode, in atteggiamenti che ci allontanano dal nostro personale modo di essere.

Se le cose stessero veramente così, se non ci fossero vie d’uscita, allora Persone & Conoscenze nona avrebbe senso. Basterebbero riviste professionali, sempre attente a insegnarci le nuove forme di comportamento alle quali per convenienza, opportunità, o per moda, dovremmo adeguarci.

Eppure, la stessa noia infinita che ci prende ascoltando i soliti discorsi alle solite Convention aziendali, leggendo i soliti libri di management, partecipando al soliti corsi di formazione, è un segnale di speranza.

Perché in realtà, per nostra fortuna, ci crediamo ancora. Non vogliamo arrenderci al cinismo. Pensiamo che il lavoro possa avere un senso, per noi stessi e per gli altri. Pensiamo (cito le parole di Amalia Vetromile) che “siamo padroni del nostro destino” che sia possibile “lasciare una traccia della nostra intelligenza”. Crediamo che siano alla nostra portata missioni in apparenza impossibili. Pensiamo di essere anche in grado di “scaldare le speranze dei colleghi senza coraggio e senza sogni”.

Magari tutto questo ci vergogniamo a dirlo, perché dicendolo sembra di fare i grilli parlanti o di cadere nella irragionevole utopia. Ma –mi ripeto– per fortuna ci crediamo ancora. Persone & Conoscenze esiste per questo: per raccogliere e diffondere l’opinione, di chi ci crede ancora. Scrive Ugo Lombardini: “Quello che voglio combattere è l’annullamento dell’individuo”. “Non esistono facili ricette da distribuire ma penso che queste cose debbano essere dette. Nella speranza che là fuori ci sia qualcuno in ascolto”.

“So che gran parte della partita si gioca nella mente della persona attorno ai concetti di possibile e impossibile. Ho capito che se sei capace d’immaginarlo sei capace anche di farlo”, scrive Eugenio Guarini. Nient’altro che una opinione personale la sua. Una opinione, però, che acquista autorevolezza perché è fortemente autobiografica, testimoniata da una storia di vita. L’autorevolezza sta nella sincerità e nella disponibilità a raccontarsi, come ci mostra Francesca Prandstraller. E così, spero, Persone & Conoscenze apparirà non come il pulpito di qualcuno che parla dall’alto, ma come una piazza dove si scambiano opinioni e si condividono narrazioni. Non c’è una storia più importante di un’altra.

L’etica sta nella valorizzazione di tutte le storie e di tutte le conoscenze. E sta, per ognuno di noi, nel non rinunciare al progetto personale, nel vivere il presente come spazio di possibilità.

Le coincidenze non sono mai casuali, perciò termino con una frase che mi è capitata sotto gli occhi proprio nei giorni in cui chiudevo questo numero. “Quando siamo giovani, ci diamo da fare a elaborare piani per il futuro, e manchiamo le gratificazioni che ci stanno davanti; quando siamo vecchi, alleviamo la fiacchezza dell'età con il ricordo di piaceri o realizzazioni giovanili; sicché la nostra vita, nessuna parte della quale è riempita dall'attività del momento presente, somiglia ai nostri sogni postprandiali, quando gli eventi del mattino si mescolano con i disegni della sera”.

Ecco: attenti a non ridurre la nostravita a un sonno postprandiale.


Così Samuel Johnson commenta William Shakespeare, Measure for Measure(Misura per misura), atto terzo, scena prima.

 

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